Diario

Il signore della Resistenza

Roberto Lepetit, industriale farmaceutico, fu uomo coraggioso (e dimenticato) della guerra di Liberazione. Arrestato a Milano, morì nel campo di Ebensee. Oggi si riapre un giallo: chi fu il Giuda che lo tradì?

di Gianni Barbacetto

 

Il tipo biondo, quasi rossiccio, aveva un impermeabile chiaro e un cappello marrone ancora in testa. Davanti a lui, la segretaria, seduta al suo posto, aveva l'atteggiamento di una bambina in castigo. «Strano che la Signorina tolleri una persona che sta nel suo ufficio con il cappello in testa», pensò il dottor Zumaglino. Ma richiuse subito la porta e scese in portineria. Solo allora si accorse che stava succedendo qualcosa di strano. Peppino Perego, il portiere, era rosso in viso. Lo spinse verso l'ascensore e gli sussurrò: «Sono venuti i tedeschi, cercano il Cavaliere!». Attorno all'edificio c'erano le Ss con i mitra spianati. Erano arrivate con un autobus verde, seguito da alcune automobili che avevano indugiato un poco davanti all'ingresso della Lepetit, in via Carlo Tenca, per poi spostarsi sul retro, in via Mauro Macchi. Sopra, nell'ufficio di Roby Lepetit, erano entrati in due, con grosse rivoltelle in pugno. Il caso volle che proprio in quel momento suonasse l'allarme antiaereo su Milano. «Eccoli, i vostri alleati!», imprecarono i due, spingendo in un angolo Roby e il suo amico e collaboratore Adolfo Fichera. Lepetit aveva cercato di approfittare del trambusto per far sparire alcune striscioline di carta che aveva in tasca. Invano: i due gliele strapparono di mano. Poi ammanettarono insieme lui e Fichera, li spinsero fuori, li unirono a Aldo Borletti detto Micio, già ammanettato con la segretaria Lina Pregnolato (la «Signorina»), e li caricarono in macchina. Era una giornata luminosa e calda, quel 29 settembre 1944. L’auto nera si fermò davanti all'Hotel Regina, sede del comando tedesco. Borletti, Fichera e la segretaria tornarono a casa qualche giorno dopo. Roby Lepetit no. Fu mandato in campo di concentramento, prima a Bolzano, poi a Mauthausen, quindi a Melck e infine a Ebensee. Morì il 4 maggio 1945, due giorni prima che gli americani arrivassero a Ebensee e nove giorni dopo che i partigiani avevano liberato la sua Milano. Roberto Lepetit, industriale chimico e farmaceutico e uomo della Resistenza, è stato dimenticato. Eppure la sua è una bella storia, privata e pubblica. Che si tinge anche di giallo: chi lo tradì, quel giorno di settembre? Roberto Lepetit era il nipote del fondatore dell'azienda, quel Robert George Lepetit, chimico francese della zecca di Parigi, che scoprì il blu di anilina e il verde allo iodio. Poi emigrò, come molti chimici danneggiati dalla legislazione francese sui brevetti. Si stabilì prima a Londra e infine a Milano, dove nel 1870 con il fratello della moglie, lo svizzero Albert Dollfuss, fondò la Società Lepetit & Dollfuss, che produceva e commercializzava coloranti e tinture per tessuti. Nel 1875 scrisse il Manuale del Tintore, che inaugurò la collana dei manuali tecnici di Ulrico Hoepli, un altro straniero (della Svizzera tedesca) venuto a far impresa a Milano. L'azienda cresceva. Laboratori a Sesto San Giovanni, un primo stabilimento a Susa, uno nuovo a Garessio, in provincia di Cuneo. Nel 1886 iniziò la produzione di acqua ossigenata, poi dell'estratto di tannino. Nel 1890 la società, con l'ingresso del nuovo socio Augusto Gansser, chimico di Basilea proveniente dalla Geigy, si trasformò in Lepetit, Dollfuss e Gansser (in sigla: Ledoga). Dei due figli del fondatore, Roberto ed Emilio, il primo sviluppò la ricerca in campo farmaceutico, sintetizzando l'almateina (un antisettico) e la nevralteina (un antinfluenzale) e ottenendo la libera docenza in Chimica generale all'università di Pavia. Nacque così, con i primi anni del Novecento, la Lepetit Farmaceutici e il gruppo si ampliò con una consociata argentina e nuovi impianti a Darfo (Brescia) e Oneglia (Savona). Il fratello Emilio ebbe invece profondi interessi sociali. Scrisse il volume Il socialismo, pubblicato da Hoepli nel 1891, e partecipò alla fondazione del Partito Economico, che propugnava l'attenzione al mondo operaio e la composizione dei conflitti di classe. Da Emilio e Bianca Moretti il 29 agosto 1906 nacque Roberto Lepetit. Il padre morì che Roby aveva 13 anni. Lasciati presto gli studi classici per lavorare in azienda, ne divenne unico responsabile dopo la morte, nel 1928, anche dello zio. Negli anni Venti, la Lepetit aveva vissuto un boom: nei nuovi laboratori di ricerca della sede milanese di via Macchi era stata messa a punto un'ampia gamma di vitamine e sulfamidici, poi esportati in tutto il mondo; nello stabilimento di Garessio era iniziata la produzione di chemioterapici. Il gruppo crebbe con 16 stabilimenti in Italia e presenze in 36 Paesi del mondo. Roby, giovane amministratore delegato e direttore generale della Lepetit, era un uomo brillante e spiritoso, amico di Micio Borletti e di Giò Ponti (che progettò la sede di via Carlo Tenca). Un padrone illuminato, di aperte idee sociali. Ci sono foto di famiglia che lo ritraggono in camicia nera, ma non doveva davvero starci comodo. Non perdeva occasione di criticare le scelte del regime. I buoni del Tesoro emessi a raffica dal governo? «Carta da parati!», diceva. Il Duce? Se il Re lo avesse chiamato a rapporto e poi chiuso in un gabinetto, dandone comunicazione alla radio, il Paese sarebbe rimasto tranquillo. I grandi industriali come Pirelli, Agnelli, Donegani? Da punire perché avevano consegnato l'industria italiana al fascismo. Benché fosse obbligato, come industriale, a restare inquadrato nelle organizzazioni sindacali del regime. Lepetit in breve tempo maturò una tale avversione al fascismo, e così poco nascosta, che nel 1942 fu espulso dai Fasci. In quell'anno ebbe i primi contatti clandestini con esponenti del Clnai, il Comitato di liberazione Alta Italia, e si avvicinò al Partito d'azione. Alla fine del 1942, come tanti, fu costretto dalla guerra a sfollare da Milano. Trasferì a Garessio, nel Cuneese, la famiglia e il personale dell'azienda, che stabilì nell'Albergo Giardino. Così si allontanò dai bombardamenti alleati, ma si venne a trovare nel bel mezzo di una durissima guerriglia partigiana. Dapprima scaramucce, poi scontri sempre più duri, con agguati, lanci di bombe, rastrellamenti, fucilazioni. Alla fine di novembre del 1943 i tedeschi arrivarono in forze e occuparono il paese. Ma Lepetit aveva già dato il suo contributo per far fuggire gli jugoslavi prigionieri in un campo di concentramento nella valle e aveva stretto rapporti con i partigiani della VaI Casotto. Nell'inverno del 1944 i tedeschi tornarono in paese, attestandosi all'Albergo Miramonti. Era il 25 febbraio. Già la mattina dopo i partigiani attraversarono il Tanaro per aggirare il nemico, attaccarlo e scacciarlo. La guerra per il controllo di Garessio proseguì con alterne fortune. Ma il 3 maggio 1944 Lepetit decise di cambiare aria perché aveva capito di essere ormai sospettato dal podestà locale e dai tedeschi. Portò la famiglia per qualche tempo a Rho, tornò a lavorare nella sede di Milano. Nel dicembre 1943 Lepetit aveva incontrato un ufficiale che veniva dal Sud: portava una radio e l'ordine di impiantare un servizio di trasmissioni. La famiglia ancor oggi conserva un grande raccoglitore con i quaderni dei messaggi in codice ricevuti. Il 6 luglio 1944, poi, l'azione forse più pericolosa a cui Lepetit abbia partecipato: nella campagna attorno a Castellazzo di Rho riceve una missione militare aviolanciata. Il figlio Emilio, che allora aveva 14 anni, la descrive così, in un quadernetto su cui ha tracciato con inchiostro e pennino parole e disegni: «Verso mez­zanotte sentimmo un aereo avvi­cinarsi. Corremmo ad accendere i fari di segnalazione che per rendere più visibili avevamo rinforzati con tanti falò quanti erano i fari. L’aereo ci passò sopra la testa una prima volta molto basso. Ritornò dopo poco, più alto e si videro questa volta anche due cose confuse che parevano palloni». Erano due paracadutisti. Con loro furono lanciati apparecchi radiotrasmittenti, armi e altro materiale per la Resistenza. Nella primavera del 1944 s'incontrò viso a viso con uno dei capi della Resistenza al Nord, Ferruccio Parri. Lo racconta Parri stesso: «Quando conobbi Roberto Lepetit in un fuggevole incontro clandestino sui bastioni tra Porta Romana e Vigentina, un pomeriggio dolce e arioso della primavera 1944, intendevo dietro di lui un ambiente ed energie nuove ancora per me, o quasi, nel panorama sociale che il movimento della resistenza veniva tumultuosamente abbozzando. E ascoltando le sue informazioni mi studiavo, quasi involontariamente, di capire la mentalità di quest'uomo, semplice e schivo, cordiale e riservato. La umanità del sorriso disarmava la mia diffidenza quasi professionale, e lo rivelava meglio delle parole, quasi pudiche della generosità e determinazione che erano il fondo del suo carattere. Era un signore. Dietro di lui avevo già allora un poco intravisto certa borghesia lombarda del Risorgimento, generosa, e soprattutto pronta a pagare il dovere dell'esempio, prima obbligazione della nobiltà». La sede della Lepetit a Milano era ormai diventata un punto di riferimento per la Resistenza. A chi gli consigliava prudenza, Roby ribatteva: «Qualche rischio bisogna pur correrlo». Lo ripeté a un amico anche il giorno prima di essere arrestato. Dopo gli interrogatori e le torture all'Albergo Regina e a San Vittore, finì per trenta giorni nel campo di Bolzano. Da lì riuscì a far uscire, di nascosto, venti lettere che arrivarono alla moglie Hilda, scritte a matita con calligrafia meticolosa su fogli e foglietti d'appunti. Vi sono raccontati con parole misurate il grande affetto per la famiglia, la speranza di tornare, la vita e gli stenti del campo, ma anche gli aiuti e le medicine per tutti che riuscì a far entrare dentro i recinti di filo spinato. Questo fece nascere, come scrisse alla moglie, il «caso Lepetit»: «Grana contro di me. Lunga conferenza con Cinelli (Capo dei comunisti) per la Farmacia e per la destinazione dei pacchi. VuoI conoscere le mie intenzioni per appoggiarmi in pieno o per boicottarmi!». Il giorno dopo affida alla moglie un pensiero profetico, intuizione della Guerra fredda: «Vivendo qui dentro ci si può formare un'idea di quello che sarà la situazione dopo la guerra, delle lotte tremende che ci saranno...» (29 ottobre 1944). Seguono scontri, dibattiti, trattative. Il «caso Lepetit» si risolve soltanto con l'arrivo dell'ordine dall'esterno: «Anche i comunisti hanno ricevuto istruzioni dal Cnl di Milano di aiutarmi». Ma il 18 novembre 1944 Roberto Lepetit, allineato con gli altri prigionieri nel cortile freddissimo del campo, sentì chiamare il suo numero: fu caricato su un treno e portato a Mauthausen, poi nel gennaio 1945 nel terribile campo di Melck e infine, nell'aprile di quell'anno, mentre i suoi compagni liberavano l'Italia, a Ebensee. Oggi, perduta la memoria di un personaggio senza partito - guardato con sospetto dai comunisti perché era un «padrone», azionista critico anche nei confronti dei «suoi» - è stato dimenticato anche il giallo dell'arresto. Chi fu il Giuda che lo tradì? Allora furono sussurrate accuse nei confronti di un personaggio, indicato come il professor Cifarelli, che era piovuto dal cielo, con un paracadute, nel luglio 1944 e si era introdotto negli ambienti della Resistenza con il nome di «Pippo», accreditandosi come uomo al servizio dello Stato Maggiore inglese. Altri dubbi sfiorarono uno stretto collaboratore di Roby, Guido Zerilli Marimò, il più alto dirigente della Lepetit. Zerill sfuggì all'arresto, quel 29 settembre 1944. Poi, grazie ai suoi ottimi agganci con uomini del regime, si mostrò molto impegnato per la liberazione del prigioniero, chiedendo alla famiglia e agIi amici di non tentare alcuna mossa alternativa e di non interferire. Ma malgrado le promesse di riportarlo rapidamente a casa da San Vittore non ottenne alcun risultato. Hilda, dopo aver avute notizia dell'arresto del marito, si mise in viaggio da Volesio, sul lago di Como, verso Rho, dove temeva ci potessero essere carte compromettenti. Voleva farle sparire. Ma al suo arrivo a Come con il traghetto, sul pontile trovò ad aspettarla Zerilli che la dissuase dal proseguire, dicendole che non c'era più niente da fare e che la perquisizione era già avvenuta. Era vero? E se sì, come faceva a saperlo? I figli di Roby, Emilio e Guido erano troppo piccoli per occuparsi dell'azienda. Hilda lasciò la gestione nelle mani di Zerilli, che in breve tempo divenne il proprietario della Lepetit, che poi vendette, alla fine degli anni Cinquanta, alla multinazionale Dow Chemical. Negli anni Settanta Zerilli ricomparve tra i proprietari (con Vittorio Cini, Serafino Ferruzzi e Gregorio Imenez) della Alphom Finance, una società coinvolta negli oscuri giri di denaro della finanza d'avventura, da Sindona a Calvi, e gestita da Florent Ravello Rey, faccendiere che trescò anche con mafiosi e uomini dei servizi segreti. Non basta questo, naturalmente, per accusare Zerilli di essere il Giuda. Altri protagonisti di questa storia lo descrivono come amico fedele e collaboratore prezioso di Roby. Di certo c'è solo che oggi la memoria di Roberto Lepetit è affidata soltanto a una croce eretta sulla fossa comune di Ebensee. Hilda ha voluto che vi fossero scritte, in tre lingue, queste parole: «Al marito qui sepolto - compagno eroico dei mille morti che insieme riposano ­ e dei milioni di altri martiri di ogni terra e di ogni fede - affratellati dallo stesso tragico destino - una donna italiana dedica - pregando perché così immane sacrificio - porti bontà nell'animo degli uomini».

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da «Diario del mese»,  21 gennaio 2005, per gentile concessione

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