Diario

I guanti bianchi di Mengele

Documenti, diari, lettere di suo pugno: 85 inediti rivelano come il medico di Auschwitz, l’Angelo della morte, il fanatico della selezione genetica che conduceva atroci esperimenti sui gemelli sia rimasto nazista fino all’ultimo.

di Gabriele Eschenazi

 

Razzista e nazista lo è stato fino all'ultimo. Josef Mengele, l'Angelo della Morte di Auschwitz, non si è mai pentito dei suoi crimini efferati. Lo rivelano 85 documenti inediti scritti di suo pugno, diari e lettere, pubblicati in novembre dal quotidiano brasiliano Folha de S. Paulo. Il materiale era rimasto abbandonato dal 1979, anno della morte di Mengele, negli archivi della polizia brasiliana, che l'aveva rinvenuto nella casa di una coppia di tedeschi, presso la quale il criminale nazista era stato ospitato fino al giorno della sua morte. Per niente rassegnato alla fine del regime nazista Mengele negli anni dell'esilio ha continuato a vedere nella teoria della razza superiore un ideale da perseguire. «Ad Auschwitz non ho preso la vita, l'ho data», ha avuto il coraggio di scrivere in un suo diario commentando i suoi atti efferati nel campo. E così come non mostrava alcun segno di ravvedimento, così respingeva il pentimento degli altri. Nel 1976 se la prese con Albert Speer (1905/1981), ministro di Hitler, che aveva rinnegato le sue azioni: «Mostrando pentimento ha sminuito se stesso e questo è riprovevole», scrisse. Nel 1972 in una lettera espresse la speranza che «l'incrocio di razze non tocchi l'Europa del Nord e che i Paesi di quest'area geografica non soffrano di un calo demografico». Il Sudafrica razzista era un modello al quale guardava con ammirazione: «L’apartheid è l'unico modo efficace per evitare la commistione delle razze ed è positiva la decisione di quel governo di vietare i matrimoni tra bianchi e neri». Nel 1969 si espresse anche su Israele, criticato per la sua politica aggressiva contro i palestinesi. La gioventù tedesca era da lui definita «degenerata» e anche la sua famiglia in Brasile gli dava dei «dispiaceri»: in una lettera al suo amico austriaco Wolfgang Gerhard datata 3 settembre 1974 lamentava il fatto che suo nipote si fosse sposato con una donna tedesco-brasiliana, la cui famiglia non condivideva «l'ideologia ariana». Dagli scritti traspare un Mengele depresso, che visse gli ultimi anni in Brasile in solitudine e in condizioni finanziarie precarie. Aveva speso molte delle sue risorse per comprare il silenzio di chi conosceva la sua vera identità. «Cosa mi succede? Mi sento solo, o piuttosto abbandonato, più sofferente che mai», scrisse nel 1976. Si mordeva i folti baffi e la peluria che ingurgitava gli provocava forti dolori intestinali. Avrebbe voluto venire a curarsi in Europa, ma non poteva permettersi il costo del viaggio. Il suo sogno era quello di tornare in Germania, ritirarsi in montagna e scrivere la storia della sua città natale. Per aiutarlo a uscire dalla depressione una coppia di tedeschi, i Bossert, lo invitò per una vacanza al mare a Beritoga vicino a San Paolo e qui morì annegato nel febbraio del 1979 per un attacco di cuore, senza aver mai pagato per i suoi crimini. Era nato il 16 marzo 1911 nel villaggio bavarese di Gunzburg. Suo padre Karl era un piccolo industriale locale. La sua fabbrica produceva trattori. Aveva la fama di una persona dura, ma corretta. Era piuttosto sua moglie Walburga, che terrorizzava gli operai con incursioni improvvise in fabbrica durante le quali accusava pubblicamente i dipendenti di scarso impegno sul lavoro. A casa la madre di Mengele agiva con la stessa durezza, pretendendo obbedienza assoluta dai suoi tre figli Josef, Alois e Karl. Cattolica devota, Walburga si preoccupava molto che i propri figli osservassero strettamente la fede della chiesa cattolica, mentre era invece meno capace di dare loro l'affetto di una mamma. Crebbe il figlio Josef disciplinato e rispettoso, ma con estrema freddezza. Contribuì così a fare di lui una persona insensibile al dolore altrui, capace di uccidere e torturare senza remore. A scuola il giovane Josef era un allievo modello, disciplinato e dal rendimento altissimo. Sin da adolescente prese a vestirsi elegante e a indossare quei guanti bianchi che ad Auschwitz lo distingueranno dagli altri medici. Nel 1930 iniziò gli studi di medicina all'Università di Monaco, proprio dove stava crescendo il movimento nazionalsocialista capitanato da Adolf Hitler, ormai il secondo partito tedesco. Quelle idee fecero breccia nel giovane Mengele, che nel 1931 aderì a Stalhelm, un'organizzazione nazionalistica. I suoi interessi accademici si concentravano sui segreti della genetica e sulle origini delle imperfezioni e deformità umane. A quell' epoca molti accademici tedeschi avevano elaborato una teoria per la quale ci sono vite che non valgono la pena di essere vissute ed eventualmente anche eliminate come diceva il dottor Ernst Rudin, il maestro di Mengele. Rudin, psichiatra fascista svizzero, era il presidente del Kaiser Wilhelm lnstitute per l'antropologia, l'eugenetica e l'ereditarietà umana. Fu uno degli autori della legge per la Protezione dell'Eredità della Salute, approvata nel 1933, lo stesso anno nel quale i nazisti assunsero il completo controllo del governo tedesco. All'Università di Francoforte, dove aveva ottenuto un posto da assistente, Mengele diventò un fedelissimo allievo del professor Otmar Freiherr von Verschuer grande sostenitore di Hitler, che elogiava per essere il primo uomo di stato ad aver riconosciuto l'eredità biologica e l'igiene della razza. Nel 1937 Mengele diventò membro del partito nazista e nel 1938 entrò a far parte delle SS. Negli anni successivi la scalata di Mengele nelle gerarchie naziste procedette inarrestabile. Ebbe una breve esperienza di guerra nell'estate del 1942, quando venne leggermente ferito e per questo anche decorato. Nel maggio del 1943 venne assegnato al campo di sterminio di Auschwitz. Qui il suo lavoro di ricercatore fu finanziato da una borsa di studio del Consiglio di Ricerca Tedesco e sostenuto dal suo protettore Verschuer affascinato dalla possibilità di avere a disposizione centinaia di migliaia di soggetti «subumani» da studiare. Il suo obiettivo era quello di svelare i segreti dell'ingegneria genetica ed elaborare metodi per creare una superrazza tedesca completamente depurata da presunti geni dell'inferiorità. Tra i medici del campo era il più decorato e si dimostrò subito anche il più crudele. Risolse un'epidemia di tifo tra gli zingari mandando tutti i malati, circa 1000 persone, alle camere a gas, risparmiando solo gli zingari tedeschi. Particolare attenzione Mengele dedicava alle selezioni, che gli altri medici di Auschwitz cercavano sempre di evitare. Quindici di loro erano medici prigionieri da tutta Europa, che Mengele aveva costretto a lavorare con lui. Si presentava alle selezioni con la sua migliore uniforme, guanti bianchi e stivali neri. Esaminava con freddezza le masse di uomini, donne e bambini, che scendevano dai treni in condizioni disperate e li suddivideva tra quelli da sterminare subito e quelli che potevano ancora essere utili a qualcosa, in particolare a diventare cavie per le sue ricerche. La sua passione erano i gemelli, un vecchio pallino del suo maestro Verschuer, il cui lavoro era stato limitato da leggi che proibivano prima dell'avvento del nazismo esperimenti su esseri viventi. I nazisti avevano spazzato via ogni limitazione e Mengele poté scatenare le sue perversioni sui gemelli ebrei, che arrivavano ad Auschwitz. Prelevava dai cadaveri dei gemelli occhi, organi interni, ossa, sangue e li inviava al suo maestro Verschuer, che voleva elaborare una teoria sull'ereditarietà e sulle relazioni tra malattie e razze, trovare la chiave genetica della creazione di una pura razza ariana. «Zwillinge, zwillinge» urlavano le guardie che cercavano gemelli tra i deportati durante le selezioni. E molti rispondevano nella disperata speranza di salvare la vita senza sapere che sarebbero andati incontro a un destino molto crudele. Dei 3000 gemelli selezionati solo 200 sopravvissero e quei pochi lo dovettero alla fine della guerra e alla liberazione di Auschwitz. Mengele non ancora identificato come criminale nazista rimase in Germania fino al 17 aprile 1949 quando scappò varcando clandestinamente il confine italo-austriaco con l'aiuto di una guida alpina. Giunse a Vipiteno dove un inviato della famiglia provvide a consegnargli i documenti necessari all'espatrio. Il 18 luglio del 1949 salpò da Genova per l'Argentina grazie a un passaporto internazionale della Croce Rossa e a un ufficiale di frontiera corrotto. Nel maggio del 1959 si trasferì in Paraguay, poi nel 1961 in Brasile, dove morì nel 1979. La notizia della sua morte è stata tenuta a lungo segreta dalla famiglia e i superstiti dei suoi efferati esperimenti hanno continuato a sperare di vederlo arrestare. La caccia a Mengele non è in realtà mai stata condotta con molta convinzione da parte dei governi occidentali tanto che nel 1956 non ebbe problemi a compiere un viaggio in Germania per sposarsi e incontrare il figlio Rolf. La caccia a Mengele si aprì formalmente il 5 giugno 1959 con l'emissione di un mandato di cattura da parte della magistratura tedesca. Il criminale nazista, però, continuò a vivere protetto dalla rete nazista sudamericana. Una squadra dei servizi segreti israeliani lo seguiva contemporaneamente ad Eichmann, che fu il primo a cadere nella rete. Di Mengele, invece, il Mossad perse le tracce durante la sua fuga dal Paraguay al Brasile. E rallentò anche le ricerche forse per il clamore che la cattura di Eichmann aveva suscitato a livello internazionale. Chi invece non dimenticò i crimini di Mengele furono i pochi sopravvissuti che il 24 gennaio del 1985 si diedero appuntamento a Gerusalemme, dove l'istituto israeliano Yad Vashem istruì un vero e proprio processo in contumacia, che durò quattro giorni. L'eco di quest'evento fu fortissima in tutto il mondo tanto che sia il Dipartimento della giustizia americano che il governo israeliano decisero di riaprire il caso Mengele ignorando che fosse già morto. Attraverso i racconti dei testimoni possiamo ancora oggi avere un'idea di quale fosse il mondo degli orrori di Mengele. A condurre la requisitoria introduttiva fu chiamato Gideon Hausner, pubblico ministero al processo Eichmann, che così descrisse il mondo di Mengele: «La vita ad Auschwitz aveva perso la dimensione umana. Le torture e le violenze erano peggiori spesso della stessa morte e portavano velocemente allo sgretolamento dell'animo e del corpo dei prigionieri. Uomini furono obbligati a soddisfare i loro bisogni fisiologici uno accanto all'altro come animali. Le abitudini culturali e della civilizzazione furono aspirate dagli uomini come usando un aspirapolvere e il vuoto che si produsse fu riempito solo da due sensazioni: fame e paura. I nazisti videro in Auschwitz un luogo ideale per la realizzazione di esperimenti sugli uomini. Essi credettero che la teoria della razza fosse la chiave per la decifrazione dei segreti dell'esistenza e se solo avessero saputo come usarla sarebbero riusciti a determinare la razza e a far venire così al mondo l'uomo superiore a loro stessa immagine. Ad Auschwitz regno della morte e terra di esperimenti giunse l'SS Josef Mengele come volontario per inserirsi compiutamente nel regno della distruzione e degli esperimenti. Mengele impersonò la terribile crudeltà, che contraddistinse il razzismo nazista e la mistica della razza ariana superiore. Mengele fu affascinato dall'idea di diventare padrone della vita di ogni essere umano e faceva selezioni dividendo chi sarebbe anda­o al campo per vivere provvisoriamente e chi invece sarebbe andato subito nelle camere a gas e nei crematori. Fu lui a trasformare masse di gente in «muselmann». «Muselmann» fu un prodotto tipicamente nazista: uno scheletro d'uomo che camminava con i piedi legati barcollando, cambiava direzione senza un obiettivo e progressivamente perdeva la capacità di governare i propri sensi. Poi quando cominciava a soddisfare i propri bisogni fisiologici senza controllo e smetteva di reagire agli ordini finiva nelle camere a gas. I medici che lavoravano ad Auschwitz con Mengele e prima di lui trasformarono l'obiettivo più alto dell'uomo, cioè la salvezza della vita umana in uno strumento satanico al servizio della pseudoscienza nazista. Gli esperimenti furono fatti per rivelare da una parte il segreto della riproduzione naturale per la razza superiore, facendo nascere molti gemelli, dall'altra per impedire la riproduzione a donne di razze che i nazisti consideravano inferiori e non meritevoli di esistere e moltiplicarsi. Credevano che le differenze fra le razze dipendessero da differenze di sangue e per questo fecero esperimenti mischiando diversi tipi di sangue e iniettando sangue diverso nelle arterie dei «conigli» da esperimento. Quelli che non morirono dopo questo trattamento soffrirono sofferenze atroci per le ferite che si aprivano sotto l'ef­etto di febbri e debolezza. Tutto cominciava con le selezioni, che attendevano i prigionieri al loro arrivo ad Auschwitz. Ecco come ne descrisse una al processo la testimone Vera Kriegel: «Giungemmo nel lager nel 1943 all'inizio dell'inverno. Eravamo io, mio padre, mia madre, mia sorella gemella e io, che avevo solo cinque anni. Quando il treno arrivò ad Auschwitz alcune persone erano già morte e furono riversate fuori dai vagoni. Si aprirono le porte e i cadaveri furono scaricati. Nei vagoni si stava come bestie e molte persone morirono soffocate o di malattie. Di fronte a noi si aprì uno spiazzo affollato di gente che i nazisti cominciarono a ordinare in file. A me, mia sorella e mia madre dissero di andare destra, mentre papà fu portato a sinistra. E all'indomani una donna canadese ci disse che era morto. A un certo punto mia madre sentì chiamare "gemelli". E decise di dire la verità. Fummo così messe da parte da Mengele, che ci ordinò di seguire un gruppo di adulti. Lungo il percorso vidi del fuoco che ardeva in una grande buca dove buttavano bambini piccoli, che erano stati strappati alle loro madri. Li gettavano tra le fiamme vivi. Poi le SS col calcio del fucile rompevano i crani dei cadaveri e li facevano a pezzi come polli. Pensavo anch'io di essere morta, di essere finita all'inferno e che quelli di fronte a me fossero fantasmi, o di essere in un manicomio, in uno zoo. Ero piccola, confusa. Non piansi, mi attaccai alla mano di mia madre e rimasi ammutolita». Chi dopo una selezione si vedeva risparmiata la vita era destinato a diventare «coniglio da esperimento» per Mengele come racconta Vera Kriegel: «Presero me, mia mamma e mia sorella gemella. Ci rinchiusero in una gabbia con altre due gemelle. Non c'era spazio per muoversi. Eravamo trattate come bestie, anzi peggio. Persino la mano non si poteva tirare fuori perché le maglie della gabbia erano molto strette. Rimanemmo in questa gabbia per circa dieci giorni. Mengele veniva quotidianamente e ci iniettava non so cosa. Dopo quelle iniezioni avevo tutto il tempo voglia di vomitare. Mia sorella viveva una specie di coma, era completamente fuori di sé. Facevamo i nostri bisogni come animali nella gabbia, che non aprirono mai per tutti i dieci giorni. Aspettavamo la morte. Sapevamo che sarebbe arrivata prima o poi. Dopo ci separarono dalla mamma e cominciarono a sottoporci a esperimenti agli occhi. Mengele si era molto interessato al fatto che nostra madre aveva gli occhi azzurri, mentre noi li avevamo castani. Misurarono, controllarono tutto, anche le radici dei capelli. Ci misero gocce negli occhi, che poi bruciavano terribilmente. Dopo alcune ore ci portarono in quello che oggi so essere il laboratorio di Miklòs Nyiszli, il patologo di Mengele. In quella stanza c'era un muro coperto da occhi umani infilzati come farfalle da collezione. Di fronte a questo spettacolo rimasi atterrita. Rividi mia madre e le dissi spaventata: «Sai cosa mi è successo? Un muro intero di occhi mi ha guardato». Dopo ci prelevarono sangue tutti i giorni e talvolta anche in grosse quantità. Era sangue speciale di gemelli riservato agli ufficiali tedeschi. Ci fecero tagli nelle mani e nei piedi, segni su tutto il corpo. Ci lasciavano per ore nude e ci osservavano per vedere come ci comportavamo, cosa facevamo, di cosa parlavamo. Poi passarono alle iniezioni nella spina dorsale e in altre parti del corpo. Fino ad oggi non sappiamo cosa ci iniettarono. So solo che dopo ogni iniezione ci veniva voglia di vomitare, avvertivamo un senso di svenimento e soffrivamo di forti mal di testa. Scappai più volte per andare a cercare la mamma e Mengele mi punì, ma io non mi rassegnai cominciando a rifiutarmi di obbedire ai suoi ordini. Era il mio modo di bambina piccola di vendicarmi di lui, che mi aveva tolto la mamma. Quando un giorno mi vide tornare dopo una fuga mi chiese: «Zingara, dove sei stata?». «Sono stata in gabinetto. Volevo vedere la mamma», risposi. E lui: «Sai che è proibito uscire del fabbricato» E cominciò a picchiarmi con lo stivale così forte che pensavo di morire sul posto. Non compresi perché non mi uccise. Non sapevo che aveva bisogno di me per i suoi esperimenti così come lo interessava mia madre perché aveva un viso ariano e gli occhi azzurri. Mi prese per il cappotto e con una botta mi gettò dentro il fabbricato. Non piansi, mi alzai in piedi e lo guardai negli occhi. Lo odiavo. Anche mille parole non sarebbero bastate per esprimere tutto quello che c'era nel mio sguardo in quel momento. E questo «angelo della morte», del quale tutti avevano paura abbassò gli occhi di fronte a me perché io non avevo paura di lui. Uscì e disse: «Vedremo chi è il più saggio fra noi due». Sono parole che anche oggi mi risuonano nelle orecchie. Forse ammirò il mio carattere, la mia forza, non so. Fatto sta che non c'era posto per i deboli ad Auschwitz. I deboli se ne andavano. Per questo volevo essere forte come aveva detto mamma: «Bambine siate forti!». Le cavie servivano vive e per questo anche dopo esperimenti atroci rimanevano in vita per subire altri esperimenti. Racconta Stephany Heller giunta ad Auschwitz da Theresienstadt nel dicembre del 1943 all'età di diciannove anni: «In una specie di ospedale subii insieme a mia sorella gemella delle trasfusioni col sangue prelevato da due altri gemelli maschi della nostra età. Ci ammalammo seriamente e fummo abbandonate in quella specie di ospedale forse per due giorni. Non sapevamo cosa ci fosse successo. Ci aveva forse dato il sangue di un gruppo sbagliato. Poi guarimmo e ci portarono indietro nella nostra baracca. Qualcuno ci disse che secondo i programmi di Mengele eravamo state scelte per un esperimento speciale, con il quale lui voleva scoprire se gemelli fecondati da altri gemelli producessero gemelli. Fummo molto spaventate da quella prospettiva. Non avevamo molte occasioni di dire qualcosa, ma, non so come, presi coraggio e una volta quando Mengele era nella baracca gli chiesi di farmi stare con mio marito, che avrebbe dovuto lasciare il campo in quei giorni con altri prigionieri. Gli dissi inoltre che non volevo più partecipare a quegli esperimenti. Lui mi guardò e mi disse: "Tu sei solo un numero. Non hai niente da dire" e se ne andò. Per fortuna arrivò la liberazione e gli esperimenti si interruppero». Pure in quelle condizioni estreme il desiderio di sopravvivere era così forte che i prigionieri senza perdere il lume della ragione trovavano in se stessi risorse inaspettate per tentare di salvarsi. Eccone un esempio: «Mi chiamo Eva Kor. Arrivai ad Auschwitz nella primavera del 1944 dalla Transilvania. Avevo nove anni. Ero con una sorella gemella, altre due sorelle, mio padre e mia madre: Nessuno è sopravvissuto a parte me e la mia gemella. Mi prelevavano il sangue due volte alla settimana fino a quando una mattina mi alzai con la febbre molto alta. Il sole scottava, ma io continuavo a tremare. Sapevo che chi era malato veniva portato in infermeria, e da qui non sarebbe più tornato. Durante un prelievo mi misurarono la febbre e scoprirono che era molto alta. Finii in infermeria. Qui cinque dottori senza visitarmi, leggendo solo i miei referti sulla febbre, mi diedero solo due settimane di vita. Ma io presi un impegno con me stessa: fare di tutto per rimanere viva. Le prime due settimane vissi tra la vita e la morte. Ero più incosciente che cosciente. Non mi davano né medicine, né acqua né cibo. Volevano lasciarmi morire nella baracca d'isolamento, dove ero stata portata. I cinque dottori venivano a trovarmi due volte al giorno. Mengele non si presentava, ma loro lavoravano per lui. Venivano solo per controllare la mia febbre. Da sola riuscii a procurarmi un po' di acqua e a sopravvivere per quelle due settimane. Mi aveva colpito il loro interesse per la mia febbre. Così pensai che se li avessi convinti che la mia febbre scendeva forse sarei riuscita a uscire dall'infermeria e a tornare da mia sorella Miriam. Due gemelle che erano con me nella baracca mi insegnarono a leggere il termometro così quando veniva l'infermiera a misurarmi la febbre facevo scendere artificialmente la temperatura al livello che mi serviva per dimostrare che stavo guarendo. In tre settimane li convinsi che ero guarita e mi fecero uscire. Oggi capisco che se fossi morta come loro avevano programmato essi avrebbero ucciso subito anche mia sorella con un'iniezione al cuore e avrebbero poi fatto l'autopsia per confrontare i due cadaveri». Mengele cercava un riscontro alle sue ricerche e per questo manteneva costanti rapporti con le università tedesche come racconta un'altra testimone, Elena Hammermesh: «Mengele aveva assoldato tra i prigionieri ungheresi un medico patologo di nome Miklòs Nyiszli e per lui fece costruire un laboratorio speciale patologico nel crematorio, dove gli portava le cavie umane da vivisezionare. Prima Mengele uccideva i gemelli iniettando loro nel cuore del fenolo. Poi quando il loro corpo era ancora caldo li squartava. Passava le diverse parti a Nyiszli e lavorava con lui. Misero diversi pezzi in contenitori immersi in sostanze chimiche, ci scrissero sopra "urgente" e li inviarono alle università in Germania. La stessa procedura era usata con gli occhi che cavava ai bambini morti dopo gli esperimenti. Dopo la guerra mi interessai presso il professore, al quale lui inviava gli occhi e lui mi confermò di aver ricevuto molti preparati interessanti da Mengele da Auschwitz. Affermò, però, di non sapere che si trattava di occhi di bambini». Il tribunale di Yad Vashem il 4 febbraio del 1985 dichiarò colpevole Josef Mengele con queste parole: «Esistono prove sufficienti per processare il medico, uomo delle SS, Josef Mengele per crimini di guerra, crimini contro l'umanità e fra questi crimini quelli contro il popolo ebraico e altri popoli. I crimini sono stati commessi nel campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz in Polonia tra il 3O/5/'42 e il 31/12/'44. Questi crimini includono: omicidi, danni corporali gravi, violenze sul corpo e sullo spirito di uomini, donne e bambini. I danni corporali e le violenze sui corpi sull'animo delle vittime sono stati compiuti spacciandoli per esperimenti scientifici, che non avevano alcun valore scientifico. Gli esperimenti, che fece Mengele usando metodi coercitivi nei confronti di prigionieri indifesi sono stati parte di un meccanismo complesso di ricerche pseudoscientifiche messo in moto da medici nazisti, che violarono il giuramento di Ippocrate e si proposero con fanatismo di dare attuazione alle teorie della superiorità della razza, che ispirava il Terzo Reich. Al centro di quelle teorie c'era l'eliminazione del popolo ebraico e di altre razze, che i nazisti consideravano inferiori. Di suo Mengele aggiunse atti di crudeltà primitiva e sadica violando l'onore e i corpi delle vittime». Questa condanna morale arrivò postmortem. L'obiettivo di processarlo fu mancato. Poco dopo la fine del processo di Yad Vashem il legale della famiglia Mengele Hans Sedlmeier si lasciò sfuggire il segreto dell'avvenuto decesso di Mengele con qualcuno che lo spifferò alla polizia brasiliana. Per accertarsi che quella persona sepolta fosse effettivamente Josef Mengele fu necessario riesumare la salma. Questo avvenne il 6 giugno del 1985. E un esame del Dna confermò l'identità del defunto: La caccia all'Angelo della Morte terminò qui e anche chi ha sempre sperato di poterlo catturare si è dovuto rassegnare.

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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