Diario
I
guanti bianchi di Mengele
Documenti,
diari, lettere di suo pugno: 85 inediti rivelano come il medico di Auschwitz,
l’Angelo della morte, il fanatico della selezione genetica che conduceva
atroci esperimenti sui gemelli sia rimasto nazista fino all’ultimo.
di Gabriele Eschenazi
Razzista
e nazista lo è stato fino all'ultimo. Josef Mengele, l'Angelo della Morte di
Auschwitz, non si è mai pentito dei suoi crimini efferati. Lo rivelano 85
documenti inediti scritti di suo pugno, diari e lettere, pubblicati in
novembre dal quotidiano brasiliano Folha de S. Paulo. Il materiale era
rimasto abbandonato dal 1979, anno della morte di Mengele, negli archivi della
polizia brasiliana, che l'aveva rinvenuto nella casa di una coppia di
tedeschi, presso la quale il criminale nazista era stato ospitato fino al giorno
della sua morte. Per niente rassegnato alla fine del regime nazista Mengele
negli anni dell'esilio ha continuato a vedere nella teoria della razza superiore
un ideale da perseguire. «Ad Auschwitz non ho preso la vita, l'ho data», ha
avuto il coraggio di scrivere in un suo diario commentando i suoi atti
efferati nel campo. E così come non mostrava alcun segno di ravvedimento, così
respingeva il pentimento degli altri. Nel 1976 se la prese con Albert Speer
(1905/1981), ministro di Hitler, che aveva rinnegato le sue azioni: «Mostrando
pentimento ha sminuito se stesso e questo è riprovevole», scrisse. Nel 1972 in
una lettera espresse la speranza che «l'incrocio di razze non tocchi
l'Europa del Nord e che i Paesi di quest'area geografica non soffrano di un calo
demografico». Il Sudafrica razzista era un modello al quale guardava con
ammirazione: «L’apartheid è l'unico modo efficace per evitare la commistione
delle razze ed è positiva la decisione di quel governo di vietare i matrimoni
tra bianchi e neri». Nel 1969 si espresse anche su Israele, criticato per la
sua politica aggressiva contro i palestinesi. La gioventù tedesca era da
lui definita «degenerata» e anche la sua famiglia in Brasile gli dava dei «dispiaceri»:
in una lettera al suo amico austriaco Wolfgang Gerhard datata 3 settembre 1974
lamentava il fatto che suo nipote si fosse sposato con una donna
tedesco-brasiliana,
la cui famiglia non condivideva «l'ideologia ariana». Dagli scritti traspare
un Mengele depresso, che visse gli ultimi anni in Brasile in solitudine e in
condizioni finanziarie precarie. Aveva speso molte delle sue risorse per
comprare il silenzio di chi conosceva la sua vera identità. «Cosa mi
succede? Mi sento solo, o piuttosto abbandonato, più sofferente che mai»,
scrisse nel 1976. Si mordeva i folti baffi e la peluria che ingurgitava gli
provocava forti dolori intestinali. Avrebbe voluto venire a curarsi in
Europa, ma non poteva permettersi il costo del viaggio. Il suo sogno era
quello di tornare in Germania, ritirarsi in montagna e scrivere la storia
della sua città natale. Per aiutarlo a uscire dalla depressione una coppia di
tedeschi, i Bossert, lo invitò per una vacanza al mare a Beritoga vicino a San
Paolo e qui morì annegato nel febbraio del 1979 per un attacco di cuore, senza
aver mai pagato per i suoi crimini. Era nato il 16 marzo 1911 nel villaggio
bavarese di Gunzburg. Suo padre Karl era un piccolo industriale locale. La
sua fabbrica produceva trattori. Aveva la fama di una persona dura, ma
corretta. Era piuttosto sua moglie Walburga, che terrorizzava gli operai con
incursioni improvvise in fabbrica durante le quali accusava pubblicamente i
dipendenti di scarso impegno sul lavoro. A casa la madre di Mengele agiva con
la stessa durezza, pretendendo obbedienza assoluta dai suoi tre figli Josef,
Alois e Karl. Cattolica devota, Walburga si preoccupava molto che i propri
figli osservassero strettamente la fede della chiesa cattolica, mentre era
invece meno capace di dare loro l'affetto di una mamma. Crebbe il figlio
Josef disciplinato e rispettoso, ma con estrema freddezza. Contribuì così a
fare di lui una persona insensibile al dolore altrui, capace di uccidere e
torturare senza remore. A scuola il giovane Josef era un allievo modello,
disciplinato e dal rendimento altissimo. Sin da adolescente prese a vestirsi
elegante e a indossare quei guanti bianchi che ad Auschwitz lo distingueranno
dagli altri medici. Nel 1930 iniziò gli studi di medicina all'Università di
Monaco, proprio dove stava crescendo il movimento nazionalsocialista
capitanato da Adolf Hitler, ormai il secondo partito tedesco. Quelle idee
fecero breccia nel giovane Mengele, che nel 1931 aderì a Stalhelm,
un'organizzazione nazionalistica. I suoi interessi accademici si concentravano
sui segreti della genetica e sulle origini delle imperfezioni e deformità
umane. A quell' epoca molti accademici tedeschi avevano elaborato una teoria per
la quale ci sono vite che non valgono la pena di essere vissute ed
eventualmente anche eliminate come diceva il dottor Ernst Rudin, il maestro di
Mengele. Rudin, psichiatra fascista svizzero, era il presidente del Kaiser
Wilhelm lnstitute per l'antropologia, l'eugenetica e l'ereditarietà umana. Fu
uno degli autori della legge per la Protezione dell'Eredità della Salute,
approvata nel 1933, lo stesso anno nel quale i nazisti assunsero il completo
controllo del governo tedesco. All'Università di Francoforte, dove aveva
ottenuto
un posto da assistente, Mengele diventò un fedelissimo allievo del professor
Otmar Freiherr von Verschuer grande sostenitore di Hitler, che elogiava per
essere il primo uomo di stato ad aver riconosciuto l'eredità biologica e
l'igiene della razza. Nel 1937 Mengele diventò membro del partito nazista e
nel 1938 entrò a far parte delle SS. Negli anni successivi la scalata di
Mengele nelle gerarchie naziste procedette inarrestabile. Ebbe una breve
esperienza
di guerra nell'estate del 1942, quando venne leggermente ferito e per questo
anche decorato. Nel maggio del 1943 venne assegnato al campo di sterminio di
Auschwitz. Qui il suo lavoro di ricercatore fu finanziato da una borsa di studio
del Consiglio di Ricerca Tedesco e sostenuto dal suo protettore Verschuer
affascinato
dalla possibilità di avere a disposizione centinaia di migliaia di soggetti «subumani»
da studiare. Il suo obiettivo era quello di svelare i segreti dell'ingegneria
genetica ed elaborare metodi per creare una superrazza tedesca completamente
depurata da presunti geni dell'inferiorità. Tra i medici del campo era il più
decorato e si dimostrò subito anche il più crudele. Risolse un'epidemia di
tifo tra gli zingari mandando tutti i malati, circa 1000 persone, alle camere a
gas, risparmiando solo gli zingari tedeschi. Particolare attenzione Mengele
dedicava alle selezioni, che gli altri medici di Auschwitz cercavano sempre di
evitare. Quindici di loro erano medici prigionieri da tutta Europa, che Mengele
aveva costretto a lavorare con lui. Si presentava alle selezioni con la sua
migliore uniforme, guanti bianchi e stivali neri. Esaminava con freddezza le
masse di uomini, donne e bambini, che scendevano dai treni in condizioni
disperate e li suddivideva tra quelli da sterminare subito e quelli che potevano
ancora essere utili a qualcosa, in particolare a diventare cavie per le sue
ricerche. La sua passione erano i gemelli, un vecchio pallino del suo maestro Verschuer, il cui lavoro era stato limitato da leggi che proibivano prima
dell'avvento del nazismo esperimenti su esseri viventi. I nazisti avevano
spazzato via ogni limitazione e Mengele poté scatenare le sue perversioni sui
gemelli ebrei, che arrivavano ad Auschwitz. Prelevava dai cadaveri dei gemelli
occhi, organi interni, ossa, sangue e li inviava al suo maestro Verschuer, che
voleva elaborare una teoria sull'ereditarietà e sulle relazioni tra malattie
e razze, trovare la chiave genetica della creazione di una pura razza
ariana. «Zwillinge, zwillinge» urlavano le guardie che cercavano gemelli
tra i deportati durante le selezioni. E molti rispondevano nella
disperata speranza di salvare la vita senza sapere che sarebbero andati
incontro a un destino molto crudele. Dei 3000 gemelli selezionati solo 200
sopravvissero e quei pochi lo dovettero alla fine della guerra e alla
liberazione di Auschwitz. Mengele non ancora identificato come criminale
nazista rimase in Germania fino al 17 aprile 1949 quando scappò varcando
clandestinamente il confine italo-austriaco con l'aiuto di una guida alpina.
Giunse a Vipiteno dove un inviato della famiglia provvide a consegnargli i
documenti necessari all'espatrio. Il 18 luglio del 1949 salpò da Genova per
l'Argentina grazie a un passaporto internazionale della Croce Rossa e a un
ufficiale di frontiera corrotto. Nel maggio del 1959 si trasferì in Paraguay,
poi nel 1961 in Brasile, dove morì nel 1979. La notizia della sua morte è
stata tenuta a lungo segreta dalla famiglia e i superstiti dei suoi efferati
esperimenti hanno continuato a sperare di vederlo arrestare. La caccia a
Mengele non è in realtà mai stata condotta con molta convinzione da parte dei
governi occidentali tanto che nel 1956 non ebbe problemi a compiere un viaggio
in Germania per sposarsi e incontrare il figlio Rolf. La caccia a Mengele si aprì
formalmente il 5 giugno 1959 con l'emissione di un mandato di cattura da parte
della magistratura tedesca. Il criminale nazista, però, continuò a vivere
protetto dalla rete nazista sudamericana. Una squadra dei servizi segreti
israeliani lo seguiva contemporaneamente ad Eichmann, che fu il primo a
cadere nella rete. Di Mengele, invece, il Mossad perse le tracce durante la sua
fuga dal Paraguay al Brasile. E rallentò anche le ricerche forse per
il clamore che la cattura di Eichmann aveva suscitato a livello
internazionale. Chi invece non dimenticò i crimini di Mengele furono i
pochi sopravvissuti che il 24 gennaio del 1985 si diedero appuntamento a
Gerusalemme, dove l'istituto israeliano Yad Vashem istruì un vero e proprio
processo
in contumacia, che durò quattro giorni. L'eco di quest'evento fu fortissima
in tutto il mondo tanto che sia il Dipartimento della giustizia americano che
il governo israeliano decisero di riaprire il caso Mengele ignorando che fosse
già morto. Attraverso i racconti dei testimoni possiamo ancora oggi avere
un'idea di quale fosse il mondo degli orrori di Mengele.
A condurre la requisitoria introduttiva fu chiamato Gideon Hausner,
pubblico ministero al processo Eichmann, che così descrisse il mondo di
Mengele: «La vita ad Auschwitz aveva perso la dimensione umana. Le torture e
le violenze erano peggiori spesso della stessa morte e portavano velocemente
allo sgretolamento dell'animo e del corpo dei prigionieri. Uomini furono
obbligati a soddisfare i loro bisogni fisiologici uno accanto all'altro come
animali. Le abitudini culturali e della civilizzazione furono aspirate dagli
uomini come usando un aspirapolvere e il vuoto che si produsse fu riempito
solo da due sensazioni: fame e paura. I nazisti videro in Auschwitz un luogo
ideale per la realizzazione di esperimenti sugli uomini. Essi credettero che
la teoria della razza fosse la chiave per la decifrazione dei segreti
dell'esistenza e se solo avessero saputo come usarla sarebbero riusciti a
determinare
la razza e a far venire così al mondo l'uomo superiore a loro stessa immagine.
Ad Auschwitz regno della morte e terra di esperimenti giunse l'SS Josef Mengele
come volontario per inserirsi compiutamente nel regno della distruzione e
degli esperimenti. Mengele impersonò la terribile crudeltà, che
contraddistinse il razzismo nazista e la mistica della razza ariana superiore.
Mengele fu affascinato dall'idea di diventare padrone della vita di
ogni essere umano e faceva selezioni dividendo chi sarebbe andao al campo per
vivere provvisoriamente e chi invece sarebbe andato subito nelle camere a gas
e nei crematori. Fu lui a trasformare masse di gente in «muselmann». «Muselmann»
fu un prodotto tipicamente nazista: uno scheletro d'uomo che camminava
con i piedi legati barcollando, cambiava direzione senza un obiettivo e
progressivamente perdeva la capacità di governare i propri sensi. Poi
quando cominciava a soddisfare i propri bisogni fisiologici senza controllo e
smetteva di reagire agli ordini finiva nelle camere a gas. I medici che
lavoravano ad Auschwitz con Mengele e prima di lui trasformarono l'obiettivo più
alto dell'uomo, cioè la salvezza della vita umana in uno strumento satanico
al servizio della pseudoscienza nazista. Gli esperimenti furono fatti per
rivelare da una parte il segreto della riproduzione naturale per la razza
superiore, facendo nascere molti gemelli, dall'altra per impedire la
riproduzione a donne di razze che i nazisti consideravano inferiori e non
meritevoli di esistere e moltiplicarsi. Credevano che le differenze fra le
razze dipendessero da differenze di sangue e per questo fecero esperimenti
mischiando diversi tipi di sangue e iniettando sangue diverso nelle arterie
dei «conigli» da esperimento. Quelli che non morirono dopo questo trattamento
soffrirono sofferenze atroci per le ferite che si aprivano sotto l'efetto
di febbri e debolezza. Tutto cominciava con le selezioni, che attendevano i
prigionieri al loro arrivo ad Auschwitz. Ecco come ne descrisse una al processo
la testimone Vera Kriegel: «Giungemmo nel lager nel 1943 all'inizio
dell'inverno. Eravamo io, mio padre, mia madre, mia sorella gemella e io,
che avevo solo cinque anni. Quando il treno arrivò ad Auschwitz alcune
persone erano già morte e furono riversate fuori dai vagoni. Si aprirono le
porte e i cadaveri furono scaricati. Nei vagoni si stava come bestie e molte
persone morirono soffocate o di malattie. Di fronte a noi si aprì uno spiazzo
affollato di gente che i nazisti cominciarono a ordinare in file. A me, mia
sorella e mia madre dissero di andare destra, mentre papà fu portato a
sinistra. E all'indomani una donna canadese ci disse che era morto. A un certo
punto mia madre sentì chiamare "gemelli". E decise di dire la verità.
Fummo così messe da parte da Mengele, che ci ordinò di seguire un gruppo di
adulti. Lungo il percorso vidi del fuoco che ardeva in una grande buca dove
buttavano bambini piccoli, che erano stati strappati alle loro madri. Li
gettavano tra le fiamme vivi. Poi le SS col calcio del fucile rompevano i
crani dei cadaveri e li facevano a pezzi come polli. Pensavo anch'io di essere
morta, di essere finita all'inferno e che quelli di fronte a me fossero
fantasmi, o di essere in un manicomio, in uno zoo. Ero piccola, confusa. Non
piansi, mi attaccai alla mano di mia madre e rimasi ammutolita». Chi dopo una
selezione si vedeva risparmiata la vita era destinato a diventare «coniglio da
esperimento» per Mengele come racconta Vera Kriegel: «Presero me, mia mamma e
mia sorella gemella. Ci rinchiusero in una gabbia con altre due gemelle. Non
c'era spazio per muoversi. Eravamo trattate come bestie, anzi peggio.
Persino la mano non si poteva tirare fuori perché le maglie della gabbia
erano molto strette. Rimanemmo in questa gabbia per circa dieci giorni. Mengele
veniva quotidianamente e ci iniettava non so cosa. Dopo quelle iniezioni avevo
tutto il tempo voglia di vomitare. Mia sorella viveva una specie di coma,
era completamente fuori di sé. Facevamo i nostri bisogni come animali nella
gabbia, che non aprirono mai per tutti i dieci giorni. Aspettavamo la morte.
Sapevamo che sarebbe arrivata prima o poi. Dopo ci separarono dalla mamma e
cominciarono a sottoporci a esperimenti agli occhi. Mengele si era molto
interessato al fatto che nostra madre aveva gli occhi azzurri, mentre noi li
avevamo castani. Misurarono, controllarono tutto, anche le radici dei capelli.
Ci misero gocce negli occhi, che poi bruciavano terribilmente. Dopo alcune ore
ci portarono in quello che oggi so essere il laboratorio di Miklòs Nyiszli,
il patologo di Mengele. In quella stanza c'era un muro coperto da occhi
umani infilzati come farfalle da collezione. Di fronte a questo spettacolo
rimasi atterrita. Rividi mia madre e le dissi spaventata: «Sai cosa mi è
successo? Un muro intero di occhi mi ha guardato». Dopo ci prelevarono sangue
tutti i giorni e talvolta anche in grosse quantità. Era sangue speciale di
gemelli riservato agli ufficiali tedeschi. Ci fecero tagli nelle mani e nei
piedi, segni su tutto il corpo. Ci lasciavano per ore nude e ci osservavano
per vedere come ci comportavamo, cosa facevamo, di cosa parlavamo. Poi
passarono alle iniezioni nella spina dorsale e in altre parti del corpo. Fino ad
oggi non sappiamo cosa ci iniettarono. So solo che dopo ogni iniezione ci
veniva voglia di vomitare, avvertivamo un senso di svenimento e soffrivamo
di forti mal di testa. Scappai più volte per andare a cercare la mamma e
Mengele mi punì, ma io non mi rassegnai cominciando a rifiutarmi di obbedire
ai suoi ordini. Era il mio modo di bambina piccola di vendicarmi di lui, che
mi aveva tolto la mamma. Quando un giorno mi vide tornare dopo una fuga mi
chiese: «Zingara, dove sei stata?». «Sono stata in gabinetto. Volevo vedere
la mamma», risposi. E lui: «Sai che è proibito uscire del fabbricato» E
cominciò a picchiarmi con lo stivale così forte che pensavo di morire sul
posto. Non compresi perché non mi uccise. Non sapevo che aveva bisogno di me
per i suoi esperimenti così come lo interessava mia madre perché aveva un viso
ariano e gli occhi azzurri. Mi prese per il cappotto e con una botta mi gettò
dentro il fabbricato. Non piansi, mi alzai in piedi e lo guardai negli occhi.
Lo odiavo. Anche mille parole non sarebbero bastate per esprimere tutto quello
che c'era nel mio sguardo in quel momento. E questo «angelo della morte»,
del quale tutti avevano paura abbassò gli occhi di fronte a me perché io non
avevo paura di lui. Uscì e disse: «Vedremo chi è il più saggio fra noi due».
Sono parole che anche oggi mi risuonano nelle orecchie. Forse ammirò il mio
carattere, la mia forza, non so. Fatto sta che non c'era posto per i deboli ad
Auschwitz. I deboli se ne andavano. Per questo volevo essere forte come aveva
detto mamma: «Bambine siate forti!». Le cavie servivano vive e per questo
anche dopo esperimenti atroci rimanevano in vita per subire altri esperimenti.
Racconta Stephany Heller giunta ad Auschwitz da Theresienstadt nel dicembre
del 1943 all'età di diciannove anni: «In una specie di ospedale subii insieme
a mia sorella gemella delle trasfusioni col sangue prelevato da due altri
gemelli maschi della nostra età. Ci ammalammo seriamente e fummo abbandonate in
quella specie di ospedale forse per due giorni. Non sapevamo cosa ci fosse
successo. Ci aveva forse dato il sangue di un gruppo sbagliato. Poi guarimmo
e ci portarono indietro nella nostra baracca. Qualcuno ci disse che secondo i
programmi di Mengele eravamo state scelte per un esperimento speciale, con il
quale lui voleva scoprire se gemelli fecondati da altri gemelli producessero
gemelli. Fummo molto spaventate da
quella prospettiva. Non avevamo molte occasioni di dire qualcosa, ma,
non so come, presi coraggio e una volta quando Mengele era nella baracca gli
chiesi di farmi stare con mio marito, che avrebbe dovuto lasciare il campo in
quei giorni con altri prigionieri. Gli dissi inoltre che non volevo più
partecipare a quegli esperimenti. Lui mi guardò e mi disse: "Tu sei solo
un numero. Non hai niente da dire" e se ne andò. Per fortuna arrivò la
liberazione e gli esperimenti si interruppero». Pure in quelle condizioni
estreme il desiderio di sopravvivere era così forte che i prigionieri senza
perdere il lume della ragione trovavano in se stessi risorse inaspettate per
tentare di salvarsi. Eccone un esempio: «Mi chiamo Eva Kor. Arrivai ad
Auschwitz nella primavera del 1944 dalla Transilvania. Avevo nove anni. Ero
con una sorella gemella, altre due sorelle, mio padre e mia madre: Nessuno è
sopravvissuto a parte me e la mia gemella. Mi prelevavano il sangue due volte
alla settimana fino a quando una mattina mi alzai con la febbre molto alta. Il
sole scottava, ma io continuavo a tremare. Sapevo che chi era malato veniva
portato in infermeria, e da qui non sarebbe più tornato. Durante un prelievo
mi misurarono la febbre e scoprirono che era molto alta. Finii in infermeria.
Qui cinque dottori senza visitarmi, leggendo solo i miei referti sulla
febbre, mi diedero solo due settimane di vita. Ma io presi un impegno con me
stessa: fare di tutto per rimanere viva. Le prime due settimane vissi tra la
vita e la morte. Ero più incosciente che cosciente. Non mi davano né medicine,
né acqua né cibo. Volevano lasciarmi morire nella baracca d'isolamento, dove
ero stata portata. I cinque dottori venivano a trovarmi due volte al giorno.
Mengele non si presentava, ma loro lavoravano per lui. Venivano solo per
controllare la mia febbre. Da sola riuscii a procurarmi un po' di acqua e a
sopravvivere per quelle due settimane. Mi aveva colpito il loro interesse per la
mia febbre. Così pensai che se li avessi convinti che la mia febbre scendeva
forse sarei riuscita a uscire dall'infermeria e a tornare da mia sorella Miriam.
Due gemelle che erano con me nella baracca mi insegnarono a leggere il
termometro così quando veniva l'infermiera a misurarmi la febbre facevo
scendere artificialmente la temperatura al livello che mi serviva per dimostrare
che stavo guarendo. In tre settimane li convinsi che ero guarita e mi fecero
uscire. Oggi capisco che se fossi morta come loro avevano programmato essi
avrebbero ucciso subito anche mia sorella con un'iniezione al cuore e
avrebbero poi fatto l'autopsia per confrontare i due cadaveri». Mengele
cercava un riscontro alle sue ricerche e per questo manteneva costanti
rapporti con le università tedesche come racconta un'altra testimone, Elena
Hammermesh: «Mengele aveva assoldato tra i prigionieri ungheresi un medico
patologo di nome Miklòs Nyiszli e per lui fece costruire un laboratorio
speciale patologico nel crematorio, dove gli portava le cavie umane da
vivisezionare. Prima Mengele uccideva i gemelli iniettando loro nel cuore del
fenolo. Poi quando il loro corpo era ancora caldo li squartava. Passava le
diverse parti a Nyiszli e lavorava con lui. Misero diversi pezzi in
contenitori immersi in sostanze chimiche, ci scrissero sopra
"urgente" e li inviarono alle università in Germania. La stessa
procedura era usata con gli occhi che cavava ai bambini morti dopo gli
esperimenti. Dopo la guerra mi interessai presso il professore, al quale
lui inviava gli occhi e lui mi confermò di aver ricevuto molti preparati
interessanti da Mengele da Auschwitz. Affermò, però, di non sapere che si
trattava di occhi di bambini». Il tribunale di Yad Vashem il 4 febbraio del
1985 dichiarò colpevole Josef Mengele con queste parole: «Esistono prove
sufficienti per processare il medico, uomo delle SS, Josef Mengele per crimini
di guerra, crimini contro l'umanità e fra questi crimini quelli contro il
popolo ebraico e altri popoli. I crimini sono stati commessi nel campo di
concentramento e di sterminio di Auschwitz in Polonia tra il 3O/5/'42 e il
31/12/'44. Questi crimini includono: omicidi, danni corporali gravi, violenze
sul corpo e sullo spirito di uomini, donne e bambini. I danni corporali e le
violenze sui corpi sull'animo delle vittime sono stati compiuti spacciandoli
per esperimenti scientifici, che non avevano alcun valore scientifico. Gli
esperimenti, che fece Mengele usando metodi coercitivi nei confronti di
prigionieri indifesi sono stati parte di un meccanismo complesso di ricerche
pseudoscientifiche messo in moto da medici nazisti, che violarono il giuramento
di Ippocrate e si proposero con fanatismo di dare attuazione alle teorie della
superiorità della razza, che ispirava il Terzo Reich. Al centro di quelle
teorie c'era l'eliminazione del popolo ebraico e di altre razze, che i nazisti
consideravano inferiori. Di suo Mengele aggiunse atti di crudeltà primitiva e
sadica violando l'onore e i corpi delle vittime». Questa condanna morale
arrivò postmortem. L'obiettivo di processarlo fu mancato. Poco dopo la fine
del processo di Yad Vashem il legale della famiglia Mengele Hans Sedlmeier si
lasciò sfuggire il segreto dell'avvenuto decesso di Mengele con qualcuno che
lo spifferò alla polizia brasiliana. Per accertarsi che quella persona sepolta
fosse effettivamente Josef Mengele fu necessario riesumare la salma. Questo
avvenne il 6 giugno del 1985. E un esame del Dna confermò l'identità del
defunto: La caccia all'Angelo della Morte terminò qui e anche chi ha sempre
sperato di poterlo catturare si è dovuto rassegnare.
©diario
della settimana |
Via
Melzo, 9 - 20129 Milano - Tel. 02 2771181 - Fax 02 2046261 |
Internet: http://www.diario.it/ - Email: redazione@diario.it |
da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione |