Diario

Le stragi confuse

A Katyn i sovietici massacrarono migliaia di polacchi. A Khatyn furono i nazisti a massacrare i russi. Intorno a quell’acca si è giocato sporco

di Paolo Stefanini

 

Questa è la storia di due boschi, di due consonanti, e di come la memoria possa essere truccata. Nella foresta di Katyn, vicino alla città russa di Smolensk, i sovietici trucidarono migliaia di ufficiali polacchi catturati durante l'invasione del 1939, riversando poi la colpa sui nazisti e ammettendo parzialmente la propria responsabilità solo agli inizi degli anni Novanta. Trecento chilometri a ovest, mezz'ora di macchina a nord di Minsk, sempre i sovietici costruirono nel 1969 un parco della memoria dedicato ai due milioni e 200 mila bielorussi uccisi dai tedeschi, scegliendo come sede la foresta di Khatyn. Tra i nomi dei due boschi cambia solo la consonante iniziale. In cirillico una X, che si pronuncia aspirata come una «c» toscana, al posto di una K. E certo non fu una scelta casuale. Il nostro viaggio inizia proprio dal bosco con la consonante aspirata. La Bielorussia è un Paese il cui presidente, Alyaksandr Lukashenko, governa da padrone unico. Uno Stato in cui una vera opposizione politica e una libera stampa sono ancora una chimera. A questo quadro da reperto della storia si aggiunge la sproporzionata centralità che assume, nella psicologia nazionale, la Grande Guerra Patriottica; nome dato da Stalin al secondo conflitto mondiale. Basta superare il confine tra la nuova Unione europea e la vecchia Unione Sovietica per rendersi conto del fenomeno. La prima città che s'incontra, Brest, continua a vivere i fasti di città eroica dell'Urss. E se la monumentalità comunista fa spesso nascere in chi la osserva quel tipo di stridula ironia che cerca di guarire l'enfasi, non così accade alla Fortezza degli Eroi; qui lo shock imposto coglie nel segno. L'ossessione della memoria accompagna per tutto il Paese. Dall'imbocco dell'autostrada M1, introdotta da pavesi che celebrano le città eroiche della resistenza, alla toponomastica della capitale, che indugia sulla vittoria nelle piazze e nei musei; dall'apparire di Kurhan Slavy, un'alta collina artificiale sormontata da torri metalliche a forma di baionette, fino appunto a Khatyn, 60 chilometri a nord di Minsk. Durante l'occupazione, le Ss incendiarono per rappresaglia 9.200 villaggi sul suolo bielorusso. In 618 di essi non si limitarono alle umili izbe di legno ma arsero viva la popolazione; tanto che 186 paesi sono spariti per sempre, mai ricostruiti. Il piccolo villaggio di Khatyn, isolato nelle foreste a settentrione di Logojnsk, fu tra questi. Il 22 marzo del 1943 le sue 26 case furono date alle fiamme. Morirono 149 persone, tra cui 75 bambini. Alla figura di Iosif Kaminsky, unico anziano sopravvissuto al massacro (assieme a due ragazzini decenni rimasti orfani) si ispirò lo scultore che ha realizzato la statua del vecchio col cadavere del bambino all'ingresso del memoriale; un complesso che si estende su 50 ettari. Ventisei colonne, ognuna rappresentante il camino di una casa bruciata (solo i camini, costruiti in muratura, resistevano ai roghi), hanno sulla cima altrettante campane che all'unisono, con un doppio rintocco a lenti intervalli, creano uno strano idillio cimiteriale; mentre, più oltre, quasi duecento lapidi rappresentano i villaggi spazzati via per sempre dalla guerra. Da Minsk e dalle città vicine le coppie di sposi vengono a farsi fotografare. In­ombranti abiti bianchi, mazzi di rose rosse, baci in posa vicino alla fiamma eterna o di fronte alle cubitali scritte in cirillico. Certo non sono più i tempi del turismo di Stato, quando in un solo fine settimana potevano arrivare fino a 50 mila visitatori da tutta l'Unione Sovietica, ma almeno 200 mila bielorussi l'anno non mancano di rendere omaggio a Khatyn. La direttrice del complesso, Natalya Kirillova, sostiene che sarebbero necessari 50 mila dollari solo per i lavori più urgenti, ma il governo non li ha trovati neppure nel marzo del 2003 quando, in occasione del sessantenario della strage, Lukashenko venne a tenere un discorso in pompa magna. Non manca, specie tra i più giovani, chi non si rammarica della mancanza di fondi per il restauro, non ritenendolo una priorità in un Paese amputato d'un Sud radioattivo e dove in molti vivono in condizioni d'indigenza. Ma nelle decine di bielorussi che, in un giorno qualsiasi, si aggirano per Khatyn portando fiori, prevale la più intima reverenza. E se si adombra che la scelta di questo posto possa essere stato un cinico mascheramento di Katyn, le reazioni sono scandalizzate o d'irritazione. È però ormai certo che la sacralizzazione di Khatyn da parte della propaganda sovietica non fu un mero caso. Non c'era nessun motivo per preferirlo agli altri 185 villaggi mai ricostruiti. Non era quello con più morti; non era stato il primo né l'ultimo della macabra serie di roghi; non era il più vicino a Minsk. Né Khatyn del resto fu solo questo memoriale: la regìa di Stato fu completa. Venne prodotto un film molto popolare in Urss (Idzi i hliadzi, Vieni e guarda, del regista Elem Klimov) e a scuola Khatyn riempì, dagli anni Settanta, pagine e pagine nei libri di storia. Louis FitzGibbon ha addirittura tentato di dimostrare la non esistenza di un villaggio chiamato Khatyn tra quelli bruciati dai nazisti in Bielorussia. Le prove che porta sono però inconcludenti. Non ha senso basare il ragionamento sull'assenza del paese dagli atlanti sovietici fino al I970. È ov­vio che un agglomerato di 26 case (per di più bruciate) non appaia su una mappa di larga scala, mentre dopo il 1969 venga indicato quello che è uno dei principali complessi monumentali della Bielorussia. Fitz Gibbon è una fonte imbarazzante. Pubblica sulla californiana Historical Review, un istituto che dà voce al revisionismo più cupo. Ma nel suo lavoro riporta anche materiale interessante, come le citazioni dai giornali americani e britannici del luglio 1974, quando il presidente Nixon, in visita in Urss, venne accompagnato dalle autorità a Khatyn e qualcuno, poco attento alle consonanti, fece confusione. Eppure, quello della fabbricazione del mito di Khatyn è solo un capitolo curioso, ma forse non il più importante nel vasto elenco di depistaggi e insabbiamenti della verità su Katyn. Protagonista il Kgb (e il suo predecessore, l'Nkvd), ma comprimari la Gestapo nazista, la Cia e i servizi inglesi, in questa storia si sono perversamente intrecciate la brutale menzogna dei sistemi totalitari e la sofisticata falsità delle democrazie occidentali. Tanto è vero che nell'imbroglio della memoria gli anglo-americani hanno avuto sin dall'inizio un ruolo di primo piano. Gianni Caroli (I’Unità, 3 aprile 2004) ha ricostruito, per esempio, la vicenda dell'anatomopatologo napoletano Vincenzo Mario Palmieri che, per conto della Croce rossa internazionale, aveva appurato il vero già durante il conflitto, e il cui lavoro rimase lettera morta non solo per il veto sovietico, ma soprattutto per il lavoro d'intelligence del Warfare Psychological Branch. Ma facciamo ordine. Partiamo dalla verità; poi c'inoltreremo nell'ordito delle manipolazioni. L’antefatto sta nelle clausole segrete del patto Molotov-Ribbentropp dove si era concordato che, dopo l'invasione tedesca della Polonia, l'Unione Sovietica avrebbe proceduto all'occupazione di una fetta di territorio polacco, dando luogo a una vera e propria, prestabilita, spartizione. Il 17 settembre del 1939 l'Armata Rossa attacca. Inizia quello che in Polonia è passato alla storia come Golgota Wschodu; il golgota dell'Est. Circa un milione e mezzo di polacchi vengono deportati in Siberia su treni piombati in tutto uguali a quelli usati dai nazisti. In alcuni viaggi invernali quasi nessuno sopravvive al gelo; i vagoni partono zeppi di uomini e scaricano cadaveri assiderati. Militari e pubblici ufficiali vengono invece prelevati e rinchiusi in quattro campi di concentramento della Russia europea. Stalin vuole conquistare la «provincia della Vistola» e per questo deve privare la Polonia occupata della sua classe dirigente. Il 5 marzo del 1940 dà ordine di giustiziare tutti i prigionieri. È una decisione presa a freddo, calcolata, tanto più che in quel momento l'Urss non è ancora stata attaccata dai tedeschi e resta fuori dalla guerra. L’ordine di liquidazione riguarda i prigionieri polacchi dei campi di Starobielsk (in Ucraina, presso Kharkiv), Kozielsk (a sudovest di Tula) , Ostaszkov (vicino Rzev) e Smolensk. Nella foresta di Katyn vengono uccisi 4 mila 254 polacchi. L’Nkvd lavora alacremente per fucilare e occultare i cadaveri in fosse comuni, piantando nuovi alberi per renderne più difficile il rinvenimento. Perdono la vita molti militari, e poi professori, avvocati, ingegneri, guardie forestali e di frontiera, postini, medici, e cento fra scrittori e giornalisti. Ma il 22 giugno del 194I scatta l'operazione Barbarossa, e Polonia e Urss finiscono per avere nella Germania un nemico comune. Si decide di riorganizzare un esercito polacco, sotto il comando del generale Wladyslaw Anders. I sovietici affermano di aver liberato allo scopo tutti i prigionieri, ma i conti non tornano: mancano all'appello migliaia di ufficiali. L’ambasciatore Jan Kot chiede spiegazioni al ministro degli esteri di Mosca, Andrej Vishinskij, e poi direttamente a Stalin. Le risposte sono elusive, ma si assicura che tutti i prigionieri sono stati rilasciati prima dell'arrivo della Wehrmacht. È la prima menzogna. Il 13 aprile del 1943 Radio Berlino promette per tutta la mattina una notizia importantissima. Alla fine viene letta alle tre e un quarto del pomeriggio: i tedeschi hanno rinvenuto le fosse comuni di Katyn. La Gestapo e il ministero della Propaganda di Goebbels fiutano la possibilità di sfruttare la vicenda allo scopo di indebolire la coesione del fronte anti-nazista. Per meglio usare la realtà, approntano un loro arsenale di menzogne: prima raddoppiano e poi addirittura triplicano il numero di cadaveri ritrovati, arrivando a dichiararne «oltre dodicimila», mentre tralasciano, nel ripetere che quella di Katyn è stata «un'atrocità perpetrata dai giudeo-bolscevichi», che almeno 900 tra quei morti sono ebrei. I sovietici sono costretti a cambiare menzogna, senza preoccuparsi di contraddire se stessi. La Tass annuncia che i campi con i prigionieri polacchi sono caduti in mano tedesca nel luglio del 194I, senza che ci fosse il tempo per liberarli e che quindi «se sono stati trovati uccisi vuoI dire che sono stati uccisi dai nazisti». È la posizione che rimarrà ufficiale fino alle aperture di Mikhail Gorbaciov nel 1990, e per la quale sarà istituita la Commissione Burdenko che porterà all'incriminazione a Norimberga di alcuni comandanti hitleriani. Ma è, soprattutto, la versione che, pur di mantenere unito il fronte, inglesi e americani avallano. Tanto che quando il governo in esilio dello scomodo Wladyslaw Sikorski ruppe le relazioni diplomatiche con Stalin e chiese un'indagine della Croce rossa, Churchill e Roosevelt furono profondamente contrariati, e due mesi dopo l'aereo che lo trasportava s'inabissò allargo di Gibilterra, per motivi mai chiariti. La guerra fredda congelò tutta la congerie di falsità. Nel 1951 si aprì a Washington una commissione d'inchiesta (il Comitato Madden, dal nome del deputato repubblicano che lo presiedette) rivelatasi niente più d'una speculazione elettorale. Molti giornalisti e storici facevano ricerca e pubblicavano libri su Katyn, ma la verità di Stato rimase a lungo quella ufficiale sovietica. Intanto di là dalla cortina si faceva di tutto per cancellare la memoria dell'eccidio. Anche, come abbiamo visto, attraverso la costruzione di Khatyn in Bielorussia e del suo mito. L’area di Katyn venne interdetta e posta sotto controllo militare; il monumento eretto dalla Croce rossa demolito. Di Katyn non si poteva parlare in Urss e tanto meno in Polonia. Quando Ronald Reagan vuole dare la spallata finale all'Impero del male si cominciano a desecretare molti documenti compromettenti. Nel 1981 un uomo vicino alla Cia, Robert Poirier, pubblica uno studio basato sulle ricognizioni aeree della Luftwaffe nella zona di Katyn durante la guerra. Poi sale al potere Mikhail Gorbaciov. Nel suo viaggio a Varsavia del 1988 parla ancora di «eccidio fascista» ma aggiunge una novità. Spuntano fuori 500 sovietici uccisi dai nazisti assieme ai polacchi. Un'ennesima menzogna. Eppure funzionale per aprire alla parziale verità. Il 13 ottobre del 1990 incontra al Cremlino il generale Wojciech Jaruzelski e gli consegna i documenti che provano la colpevolezza sovietica. La versione ufficiale diventa: «Siamo stati entrambi vittime del totalitarismo»; vittime di Stalin e di Berija. Gorbaciov però non consegna l'atto dell'Nkvd del marzo 1940 in cui si dispone la liquidazione dei prigionieri dei quattro campi e se ne indica precisamente il numero: 21 mila 587 condannati, cifra che rende tutti i calcoli precedenti inesatti per difetto. Solo dopo nuove rivelazioni e nuove prove saltate fuori dagli archivi americani (secondo molti grazie ai buoni uffici del consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, di origini polacche), è stato Boris Eltsin a consegnare la carta mancante al governo di Varsavia. Uno sgarbo, questo, all'odiato predecessore, visto che il documento segreto si trovava nell'archivio privato di Gorbaciov. Il viaggio, che avevamo iniziato in una foresta, può dunque concludersi in un'altra dal nome simile, 300 chilometri più a est. Dal 28 luglio 2000 c'è, anche a Katyn, un grande complesso monumentale. Ma da mezzo secolo di menzogna non è agevole uscire. «Questo è un posto di tragici eventi, vittime dei quali furono i cittadini di due Paesi: l'Unione Sovietica e la Polonia», si legge sul posto e sui depliant. La descrizione appare quanto meno ambigua: «Qui vennero uccisi circa 4-500 ufficiali polacchi. Questo bosco è famoso anche per essere luogo di sepoltura di circa 10 mila cittadini sovietici uccisi durante la repressione (1930-1940). Nel bosco di Katyn riposano anche 500 prigionieri di guerra sovietici sterminati dalla barbarie dell'invasore fascista tedesco». Da un lato le colpe paiono addossate a un'entità metafisica, dall'al­tra (per quei 500 la cui esistenza è messa in dubbio da molti studiosi) sono esplicitamente identificate. E appena superato l'ingresso, da un portale di granito rosso subito si separano due sentieri nel bosco; due distinti percorsi di memoria, contrassegnati dalle rispettive bandiere nazionali. In Russia si fa sempre più strada l'idea che se c'è da piangere le vittime del totalitarismo, le prime vittime sono i russi stessi, e c'è poco da scusarsi con gli altri. Le evidenze della storia non sembrano intaccare la coscienza collettiva. Nel 1996 prese a circolare un libro, La finzione di Katyn, che è stato il primo di quello che potremmo definire un revisionismo sovietico, e che torna a sostenere la tesi del crimine nazista. Nel settembre 1998, poi, il procuratore generale Yuri Chayka chiese alla Polonia la libertà d'accesso agli archivi per investigare sulla presunta morte di 83 mila 500 soldati dell'Armata Rossa caduti prigionieri durante la guerra russo-polacca del 1919-20, senza peraltro ottenere l'autorizzazione. Da allora è stato un fiorire di articoli e libelli sui presunti campi di sterminio di Strzakovo e Tuchola, che relativizzerebbero il peso di Katyn, creando una scusante; una contropartita morale. Piangere i morti altrui è più difficile che piangere i propri. Riconoscere le colpe del popolo cui si appartiene, più ingrato che sbandierare quelle del nemico. Eppure, per capire le tragedie del ventesimo secolo, bisognerebbe davvero imparare a provare vergogna.

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da «Diario del mese»,  21 gennaio 2005, per gentile concessione

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