Diario

Demolite il tempio: lo vuole il Re

Nel 1925 Vittorio Emanuele III visita Mantova e inaugura, compiaciuto, la sinagoga fresca di restauri. Quattordici anni dopo, nel 1939, firma l’ordine di demolizione. Per motivi igienico-sanitari, si spiega: il ghetto è malsano

di Emanuele Salvato

 

Il 21 maggio del 1925 a Mantova si respira un'aria carica d'eccitazione per la visita del re, Vittorio Emanuele III, che avverrà l'indomani. Il programma della giornata è già stato definito dalle principali autorità cittadine nei minimi dettagli, sotto la rigida supervisione dei rappresentanti federali del Partito nazionale fascista: arrivo in stazione di sua maestà, sfilata in pompa magna per le vie del centro storico, incontro con il sindaco (non ancora divenuto podestà, secondo i dettami romanici o romaneschi del fascismo), con il prefetto, con i rappresentanti locali del fascio, inaugurazione della mostra di navigazione e d'alcuni monumenti e edifici a Mantova e provincia. Un normale e istituzionale programma da re. Che prevede anche l'altrettanto normale e istituzionale presenza di Vittorio Emanuele III all'inaugurazione della facciata da poco restaurata del Tempio israelitico, o Scuola Grande, collocato nel bel mezzo del ghetto ebraico, alla quale presenzia Vittorio Emanuele III. Le cro­nache dell'unico quotidiano locale del periodo, La Voce di Mantova (che in sottotestata riportava la definizione di «quotidiano della federazione dei fasci di combattimento») descrivono un re entusiasta per il nuovo look del tempio: «Il re si è compiaciuto», scrive il giornale, «per la severa linea artistica della facciata, conferendo, poi, fraternamente, con la rappresentanza della Congregazione israelitica composta dall'avvocato Finzi e dal dottor Norsa». Poi, però, col passare degli anni, succede qualcosa che evidentemente incrina i rapporti «fraterni» fra casa Savoia e la Comunità ebraica. A distanza di 14 anni dalla visita del re, infatti, sempre sullo stesso quotidiano fascista, ritroviamo una notizia riguardante la sinagoga Scuola Grande, che informa come il tempio dovrà essere abbattuto insieme al ghetto, o a ciò che rimane di esso. Il piccone risanatore fascista, nel frattempo, si è messo in testa un'idea meravigliosa per fare rinascere la città: buttare giù tutto il ghetto, uno dei più grandi e antichi d'Italia (è stato voluto da Francesco I Gonzaga nel 1612), per fare spazio a costruzioni avveniristiche e funzionali, in perfetto littorio style. Che importa se per farlo si devono sacrificare e polverizzare a colpi di piccone oltre tre secoli di testimonianze uniche? Curioso che nel 1939, quando il piano di risanamento edilizio entra nel vivo, ai vertici dello Stato italiano non sia cambiato quasi nulla, rispetto a 14 anni prima: il capo del governo è sempre sua eccellenza Benito Mussolini, il partito, unico, è ancora quello fascista e il re è sempre Vittorio Emanuele III. Sì, proprio lui. Lo stesso re che solo qualche anno prima, «conferendo fraternamente» con le rappresentanze della comunità ebraica mantovana, ne aveva benedetto ed esaltato il rinnovato luogo di culto, cambia idea e non si oppone al suo abbattimento. Anzi, il re firma un decreto che prevede lo stanziamento di dieci milioni di lire per sostenere il piano di risanamento edilizio della città, che, a quanto pare, non può prescindere dalla demolizione della sinagoga principale, pregna di storia e di significato per gli ebrei mantovani, ma anche per il capoluogo stesso. D'altro canto, l'idea di abbattere una volta per tutte il ghetto - già messo a dura prova dallo sconsiderato e scriteriato «sventramento» dei primi anni del Novecento - è un po' un chiodo fisso per l'amministrazione fascista, che la ripropone ciclicamente e con frequenza sempre maggiore, soprattutto dopo il 1938: il famigerato anno delle leggi razziali. Provvedimento legislativo a cui - appunto - va ricondotto il cambiamento dei rapporti, prima civili se non (in qualche caso) amichevoli, fra Casa Savoia, partito fascista e Comunità ebraica. L’escalation di lucida follia antisemita è ben evidenziata dalle cronache del quotidiano locale di quel periodo. Il 24 novembre del 1938 su La Voce di Mantova esce un articolo che illustra il progetto di costruire una scuo­a elementare di tre piani «ispirata ai principi della rinascita fascista», al posto delle 24 «casupole malsane e fatiscenti» comprese nell'area del ghetto. Secondo il progetto, però, dalla demolizione rimarrebbe «escluso il tempio israelitico». Il 26 marzo del 1939 la giunta provinciale e quella comunale informano, a mezzo stampa, di aver contratto un mutuo per procedere all’abbattimento del ghetto definito «uno sconcio intollerabile, una spina nel cuore della città a ridosso degli antichi monumenti di storia civica». La soluzione finale sembra essere proprio quella di costruire una scuola che andrà a sostituire, come funzioni, il fatiscente istituto scolastico Castiglioni di via Cairoli, fuori dal ghetto. Ma allora, perché non abbattere il vecchio edificio e costruire al suo posto la nuova scuola destinata a sostituirlo? Forse perché il Castiglioni non si trova nel perimetro del quartiere ebraico? Negli archivi non si trovano risposte a queste domande. Si trova, invece, spulciando i giornali dell'epoca, un manifesto firmato dal podestà in carica, tale Sfiller, che conferma - e siamo nel luglio del 1939 - le intenzioni di fare tabula rasa del ghetto. Il manifesto fatto affiggere in bacheca comunale evidenzia l'urgenza di procedere alla demolizione delle case del quartiere israelitico, per fare posto al nuovo istituto scolastico. «Espropriazione e immediato abbattimento delle case», ancora abitate dagli ebrei di più modesta condizione economica, è la parola d'ordine dell'amministrazione fascista. Improvvisamente, e inaspettatamente, ma neanche tanto (poi vedremo perché), nel novembre dello stesso anno compare una notizia «complementare e accessoria» sul quotidiano fascista: «Anche il tempio israelitico sarà abbattuto con il ghetto». Nel piano particolareggiato della giunta comunale, però, si specifica che non si sa bene cosa sarà costruito al posto della sinagoga, forse un museo, si dice, sicuramente sorgerà un'opera d'utilità pubblica: «Sappiamo, però, che il podestà ha al proposito una sua idea», concludeva l'articoletto del giornale. Idea che non ha mai fatto conoscere a nessuno. Dopo tanti proclami, corredati da nemmeno tanto velati insulti al quartiere degli ebrei, il risultato è che la sinagoga viene demolita nel 1940, mentre il resto delle case del ghetto rimane in piedi ancora per parecchi anni. L'edificio scolastico simbolo della rinascita fascista non sorgerà mai e, al posto del tempio, rimarrà fino agli anni Sessanta - quando vi viene costruito l'hotel Jolly, ora Rechigi - una buca. «Mi ricordo di quella buca», racconta Fabio Norsa, presidente della Comunità ebraica mantovana, «perché vi si combattevano "battaglie" fra le bande della città di cui porto ancora (si indica una cicatrice sotto l'occhio sinistro, ndr) i segni». Ma come mai la sinagoga viene abbattuta? Possono reggere motivi d'ordine urbanistico e igienico-sanitario? Norsa ha pochi dubbi: «Dopo l'entrata in vigore delle leggi razziali, nel novembre del 1938, anche a Mantova si fa sentire il peso di quelle decisioni. Gli ebrei sono progressivamente discriminati: prima i licenziamenti motivati dall'appartenenza alla razza ebraica, poi l'impossibilità d'essere proprietari e titolari d'aziende considerate «interessanti» per la difesa nazionale, ancora la confisca dei beni immobili e delle proprietà. Fino ad arrivare all'apice della crudeltà. Toccato dopo l'8 settembre 1943 con l'occupazione nazista della città, quando 41 ebrei mantovani sono incarcerati dai nazifascisti in quella che era (e è tuttora, ndr) la sede della Comunità ebraica in via Govi, prima di essere deportati nei campi di concentramento». Solo un prigioniero ritorna vivo; tutti gli altri, compresa la quattordicenne Luisa Levi, la più giovane mantovana deportata, vi muoiono di violenze e stenti. «L’abbattimento di un simbolo religioso come la Sinagoga Grande», continua Norsa, «rientra nella logica persecutoria dell' epoca. I motivi igienico­sanitari addotti ufficialmente non reggono: il tempio era un luogo di culto, non un'abitazione civile e inoltre era stato restaurato da poco, sia dentro che fuori, con l'approvazione del re, per cui spiegazioni pratiche per la distruzione della sinagoga non ne vedo molte». Senza dimenticare, che il tempio è, sì, distrutto nel 1940, ma già dopo l'applicazione delle leggi razziali si è capito come andrà a finire: «I segnali erano chiari», spiega Emanuele Colorni, rappresentante della Comunità ebraica mantovana e storico, «e una sinagoga imponente come quella di via Scuola Grande, in pieno centro, dava fastidio al regime fascista ed era contraria alle logiche razzistiche, ispirate alle nuove leggi. Ma buttarla giù con queste motivazioni era troppo anche per i fascisti, che cercarono nell'urbanistica e nell'igiene motivazioni che nascondessero i loro veri intenti». La sinagoga è abbattuta, ma prima è saccheggiata. A parte quegli arredi sacri che la Comunità mantovana riesce a far arrivare in Israele e che ora si trovano nella Jeshivà Ponivez di Benè Beraq (il quartiere religioso di Tel Aviv) e nella sinagoga Beth Jeshajau (sempre a Tel Aviv), molti altri sono rubati e rivenduti dai saccheggiatori. Come, per esempio, le porte lignee decorate con fregi in argento di una preziosissima arca santa, vendute dai razziatori in camicia nera a un antiquario dell'epoca, che non si rende conto del valore e le tiene in negozio a impolverarsi. Fortunosamente, 20 anni dopo, la Comunità israelitica mantovana riesce a recuperarle e a donarle al tempio italiano di Gerusalemme, dove ora si trovano. Quella pagina nera per la storia mantovana ha risvolti tangibili (più precisamente: visibili) anche ai giorni nostri: «Parlando con Iarè, un mio amico ebreo», racconta lo storico mantovano Luigi Sguaitzer, «sono venuto a sapere che il marmo della sinagoga distrutta è stato riutilizzato quasi subito dall'amministrazione comunale di allora per rifare il pavimento del corridoio d'ingresso del municipio. Quel pavimento è ancora oggi lì». Andando a spulciare nei documenti dell' archivio storico comunale, emerge la documentazione che attesta quanto affermato da Sguaitzer. Nel documento protocollato e datato 11 aprile 1940, dopo l'elenco delle spese necessarie alla ristrutturazione dell'ingresso della sede comunale, si legge: «Alla somma di lire 6 mila, preventivata dall'architetto Poldi, occorre aggiungere altre 6 mila lire per il restauro dello scalone e per il rifacimento del pavimento, utilizzando i quadri di marmo provenienti dalla sinagoga». Ora, il presidente della Comunità ebraica di Mantova giura che nessuno ha mai dato una lira alla Comunità per il pavimento, a tutti gli effetti trafugato. E non risulta neppure nessun documento che ne attesti la cessione a titolo gratuito. A tal propo­sito Sguaitzer, che è anche consigliere comunale dei Ds, nel 1998 ha proposto un'interrogazione comunale in cui chiede alla giunta di corrispondere una cifra, simbolica, alla Comunità a titolo di risarcimento per il pavimento trafugato dal tempio demolito: «Sarebbe un modo per chiudere definitivamente i conti col passato», afferma il consigliere. La proposta di Sguaitzer, però, è rimasta lettera morta. Nessuno della giunta fino a ora gli ha risposto. «Sarebbe un gesto veramente civile da parte dell'amministrazione, che potrebbe essere compiuto, magari, nel giorno della Memoria», si augura. Sarà per l'anno prossimo?

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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