Diario

Dopo il «sospiro liberatorio»

Ritornato alla vita, Vittorio Finzi trovò casa sua completamente svuotata e andò a chiedere aiuto al questore di Alessandria, trovando tappeti e piatti di famiglia. Una delle tantissime storie di una normalità difficile da ritrovare.

di Andrea Villa

 

Alle 9.30 del 25 aprile 1945 Vittorio Finzi, ebreo alessandrino, partigiano in Val Borbera, apprese dalla radio che Genova era stata liberata e che i tedeschi e i loro alleati fascisti si arrendevano dovunque. «Finalmente sollevato», ha scritto Vittorio, «dai timori che mi avevano oppresso per un tempo interminabile, potei tirare un lungo sospiro liberatorio». Nel Nord Italia gli ebrei dovettero attendere l'insurrezione dei partigiani e l'arrivo delle truppe alleate per poter uscire dalla clandestinità e considerarsi finalmente in salvo. Eppure per la maggior parte di loro la Liberazione non rappresentò un momento di piena felicità ma, come nel caso di Finzi, fu soltanto un «sospiro liberatorio», poiché essi avevano perso le loro famiglie e le loro case, non avevano un posto dove andare e nessuno che li aspettasse. Di conseguenza nel dopoguerra fu più difficile la loro reintegrazione nella società italiana, che voleva lasciarsi al più presto dietro le spalle gli orrori della guerra e avviare la ricostruzione. Che si sia trattato di un processo complesso e travagliato lo dimostrerebbe anche il fatto che a quasi 60 anni di distanza continuino a riproporsi alla nostra riflessione domande ancora in parte irrisolte: quali resistenze burocratiche e pratiche si ebbero di fronte ai giusti reclami dei perseguitati per rientrare in pieno possesso dei propri diritti e dei propri beni? Quanto sopravvissero, almeno implicitamente, i germi dell'antisemitismo sparsi dal regime fascista (e quelli dell'antiebraismo cattolico)? Vorrei approfondire di seguito tre aspetti particolari della reintegrazione, per mezzo di vicende tratte dalla «quotidianità», ricostruite attraverso testimonianze orali e documenti conservati all'archivio centrale dello Stato, in vari archivi statali provinciali e di istituti di credito. Si tratta in primo luogo della restituzione dei beni confiscati negli ultimi due anni di guerra, visto che per iniziare a ricostruire la loro vita sociale gli ebrei dovettero faticosamente recuperare il possesso dei luoghi dove prima vivevano e lavoravano. E ancora: il ritorno alla «normalità» comportò anche il rientro nei vecchi posti di lavoro, abbandonati forzatamente nel 1938 a causa delle leggi razziali. Nel dopoguerra si presentarono così i problemi dei «soprannumero» e della difficile decisione di licenziare o meno quanti nel frattempo erano subentrati ai colleghi di religione ebraica. Infine, con lo scopo di valutare la reale capacità da parte del regime fascista di influenzare il «mondo della cultura», che dal 1938 al 1945 era stato fatto oggetto di una intensa opera di «indottrinamento» tramite i pregiudizi antisemiti diffusi per mezzo di giornali, conferenze e testi scolastici, potremmo gettare un rapido sguardo a quanto avvenne dopo la fine della guerra, al momento del rientro nelle aule scolastiche e universitarie degli studenti ebrei. La prima necessità che si presentò ai sopravvissuti fu quella di recuperare le chiavi delle loro abitazioni, che spesso erano state occupate da sfollati o da militi nazifascisti. Iniziò poi una specie di caccia al tesoro nelle abitazioni dei vicini e negli uffici delle amministrazioni locali per recuperare i mobili e le suppellettili sparite. Vittorio Finzi avendo trovato, al rientro ad Alessandria, il suo alloggio completamente svuotato, si recò in questura per sporgere denuncia, indossando ancora armi e abbigliamento da partigiano. Introdotto nell'ufficio del nuovo questore, egli vi trovò un tappeto e dei piatti di ceramica decorati che un tempo avevano ornato la sua sala da pranzo. Per riottenere i beni mobili e immobili confiscati dall'Egeli (l'ente di gestione e liquidazione immobiliare creato nel 1938) furono spesso necessarie vere e proprie «battaglie» burocratiche e giudiziarie che si protrassero per anni, acuendo rabbia e senso di frustrazione in animi già colpiti dal peso della Shoah. Nel 1947 l'ente richiese ai Lattes di Saluzzo il pagamento delle spese per la costruzione di un gabinetto nel cortile di una palazzina di loro proprietà. I lavori erano stati eseguiti negli ultimi mesi di guerra, nello stesso periodo in cui il capofamiglia, l'avvocato Israel Benvenuto, era morto di crepacuore e sua moglie Carmen era stata deportata ad Auschwitz. In mancanza dei genitori, i funzionari dell'Egeli risalirono ai figli, che dal 1943 si trovavano al sicuro negli Stati Uniti, «battendo cassa» presso di loro. Un discorso a parte meriterebbe il recupero degli oggetti sacri asportati dalle sinagoghe. Quelli più pregiati finirono in Germania; ma non va dimenticato che furono numerosi gli italiani che fecero scempio di libri, candelabri e paramenti religiosi. Arrivando ad Ancona i soldati della Brigata Ebraica scoprirono che un sarto, approfittando della fuga degli ebrei dalla città, si era ricavato un laboratorio nel salone del tempio, servendosi delle panche come tavolo da lavoro. Invece a Ferrara il celebre bibliofilo Renzo Bonfiglioli per caso si accorse che antichi volumi sottratti agli ebrei (tra i quali un esemplare unico dei Promessi sposi, che lo stesso Manzoni aveva regalato con tanto di dedica a una sua nipote) se li erano spartiti i gerarchi fascisti, nascondendoli nel palazzo della prefettura. Sono ancora pochi gli studi storiografici dedicati al rientro degli ebrei nel «mondo del lavoro». Da uno primo sondaggio è emerso che i commercianti di religione israelitica, rimasti senza più scorte di magazzino e con gli esercizi danneggiati, si trovarono completamente abbandonati sia da parte delle loro associazioni di categoria, colpite da processi di epurazione, ma pure dallo Stato, che non si preoccupò di andare incontro alle loro esigenze. Anzi, nel gennaio del 1946 il commissario governativo dell'Unione delle Comunità Ebraiche, Giuseppe Nathan, segnalò al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi che il ministero delle Finanze aveva richiesto ai negozianti ebrei di Roma il pagamento delle tasse sui profitti di guerra, come se le loro attività fossero rimaste normalmente aperte nel periodo 1940-1945. Nonostante dubbi e rimostranze il ministero delle Finanze concesse soltanto, come agevolazione, la possibilità di pagare a rate l'imposta; la motivazione addotta era che «la semplice circostanza dei danni subiti per effetto delle persecuzioni razziali non è sufficiente a giustificare una sospensione dello straordinario tributo». Andrebbe approfondito anche l'atteggiamento tenuto dalla grande industria italiana. Da testimonianze pare che l'Unione degli Industriali di Torino nel 1945 si rifiutò di riassumere in servizio quei dipendenti che erano stati cacciati nel 1938. Invece a Genova le acciaierie Ilva e la multinazionale del petrolio Shell strinsero un accordo con l'ufficio di collocamento per assumere, in via preferenziale, reduci dalla deportazione, o loro figli o parenti diretti. Di tale opportunità si giovò, tra gli altri, la giovane Dora Venezia, sopravvissuta a Bergen-Belsen, che venne assunta come segretaria dopo essere stata costretta a cedere il negozio di tappeti di famiglia, devastato irreparabilmente dalla Brigata Nera. Un'ulteriore riflessione riguarda le conseguenze delle persecuzioni sul sistema scolastico. Recenti ricerche hanno fatto emergere le difficoltà incontrate dai docenti universitari ebrei nel tornare in ruolo; meno si è studiato sulla componente più esposta e indifesa, ovvero quella studentesca. Se ci furono atenei che nel dopoguerra richiesero agli studenti ebrei il pagamento degli arretrati delle tasse, va pur detto che numerose furono le facoltà che istituirono per loro apposite borse di studio, come nel caso dell'Università di Roma che ricevette un finanziamento dall'American Joint Distribution Committee (Ajdc), organizzazione ebraica d'Oltreoceano. Nel 1947 il Politecnico di Torino invitò in Piemonte dodici giovani ebrei polacchi, scampati allo sterminio, che intendevano completare i loro studi in ingegneria meccanica. Trattando di scuola dell'obbligo si può notare che nel 1945 la maggior parte delle famiglie scelse di mandare i figli alle scuole ebraiche; quei ragazzi che invece tornarono nella scuola pubblica si trovarono a studiare su manuali densi di pagine dedicate al catechismo cattolico, silenti su quanto era avvenuto nel Paese dalla fine della Prima guerra mondiale in avanti e con, qua e là, ancora qualche traccia del razzismo fascista. Eppure per molti adolescenti ebrei il ritorno in classe rappresentò un'ancora di salvezza; come per il ferrarese Cesare Finzi che ancora oggi è convinto di dovere all'amicizia con i nuovi compagni «buona parte della serenità che sono riuscito a riconquistare». In conclusione un'ultima domanda, e cioè quando l'opinione pubblica italiana iniziò a ripensare al periodo delle persecuzioni razziali? A lungo i reduci dai Lager non trovarono un uditorio disposto ad ascoltarli, poiché si voleva dimenticare, scaricando al contempo ogni responsabilità sui tedeschi. Alcuni storici ritengono che un «risveglio delle coscienze» si ebbe a partire dai primi anni Sessanta, grazie all'eco suscitata dal processo contro Adolf Eichmann. Andando a ritroso nel tempo si potrebbe fare riferimento alla metà degli anni Cinquanta, quando la situazione internazionale venne agitata dal processo di riarmo della Germania Ovest, che diffuse il timore dello scoppio di una terza guerra mondiale. Per reazione tornò a farsi sentire la voce degli ex deportati, che rianimarono le loro associazioni, tornando a mostrare le ferite ancora aperte, causate dal nazismo. Tale attivismo si scontrò però con la politica repressiva di Scelba, che temeva che il Pci potesse sfruttare le iniziative dei reduci e dei pacifisti con "finalità politiche, mirando a suscitare opinioni di netta opposizione con i programmi della politica estera italiana», impegnata nel riavvicinamento con il governo di Adenauer. Di conseguenza numerosi reduci dai campi di concentramento, tra i quali Primo Levi, vennero posti sotto sorveglianza dalle forze dell'ordine. Nel maggio 1955 le associazioni degli ex deportati organizzarono un viaggio-pellegrinaggio a Mauthausen e Auschwitz, che si trovava «oltre cortina»: quando i pullman partiti da Milano e Torino giunsero al confine, ai partecipanti (tra cui probabilmente lo stesso Levi e Lidia Beccaria Rolfi) venne comunicata la revoca dei passaporti, imposta dal ministro dell'Interno. Nel 1958 venne allestita a Torino una mostra fotografica sulla deportazione, a margine della quale furono tenuti incontri con i giovani delle scuole superiori che, secondo il quotidiano La Stampa, riscossero un «successo impensato». Intervennero però i carabinieri di Torino che minacciarono di denunciare gli organizzatori per il reato di pornografia, poiché apparivano foto di uomini e donne nudi. Si trattava in realtà di prigionieri, veri e propri «scheletri viventi», immortalati dai militari alleati al momento della liberazione dei Lager. Eppure probabilmente furono proprio la paura per il riarmo della Germania e la curiosità dei giovani nati durante la guerra, ma che erano troppo piccoli per ricordarne gli orrori, a spingere gli ebrei scampati alla persecuzione a «tornare allo scoperto», nella seconda metà degli anni Cinquanta, per raccontare cosa era successo in Italia tra il 1938 e il 1945. A partire da questo momento si avviò una riflessione sulle responsabilità italiane nella messa in opera della Shoah che dura ancora oggi.

Questo articolo riprende alcuni spunti della relazione presentata al convegno L'Italia alla metà del XX secolo. Conflitto sociale, resistenza, costruzione di una democrazia, organizzato dalla Fondazione Isec, Sesto San Giovanni, 4­5 marzo 2004. Si vedano anche i libri Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la Seconda guerra mondiale, a cura di Michele Sarfatti, La Giuntina; Il mio rifugio in Val Borbera, Vittorio Finzi, a cura dell'Isral, Genova 2001.

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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