Diario

In vacanza con la mia famiglia

Un bambino e suo fratello sono costretti a sette anni di «villeggiatura» forzata: prima in Francia, poi sulle montagne, per sfuggire alle retate di ebrei. A salvarli una rete di protezione, e uno zio Primula Rossa della Resistenza

di Franco Debenedetti Teglio

 

Questo è un pezzo di storia della mia famiglia che inizia quando essa fu mandata... in vacanza, poco dopo il compimento del mio primo anno d'età, e si conclude con il ritorno da quella felice esperienza, nel mio ottavo anno d'età... con una breve appendice su quello che è successo dopo. Sì, ragazzi, una bella vacanza durata quasi sette anni! Sono nato a Genova nel dicembre del 1937 da Bruno Debenedetti e Emma Teglio e appartengo alla «razza ebraica», come sta scritto nel pedigree che completa il mio certificato di nascita per ottemperare alla legge 17/11/1938 la quale prevedeva, tra le altre cose, l'obbligo di indicare la razza per certe famiglie di animali, forse per la loro pericolosità potenziale. La lungimiranza di quella legge è dimostrata dal certificato stesso in cui compare, tra le firme dei testimoni, quella di mio zio Massimo Teglio, il rompiballe che, qualche anno dopo, fu designato come la «Primula Rossa della Resistenza ligure» ed ebbe l'onore di portare sul suo capo una ingente taglia pagabile direttamente presso il comando delle Ss tedesche. Nessuno ebbe la fortuna di incassare quella taglia. In cambio Massimo, con la sua audace attività, con la coraggiosa e incondizionata collaborazione della curia genovese, salvò centinaia di vite di ebrei e non ebrei dallo sterminio nazifascista (come racconta Alexander Stille nelle pagine 300 e 302 di Uno su mille, Mondadori).

Un passo indietro. Ma facciamo un passo indietro: mio padre, laureato in chimica e farmacia, fu assunto dalla Regia Marina nel 1924, e successivamente nominato chimico capo nel 1929. Successivamente fu nominato cavaliere della Corona d'Italia per meriti professionali acquisiti al servizio della patria. Quindi divenne chimico principale della stessa Regia Marina con il massimo degli onori e delle lodi. Cito alcuni degli incarichi ricoperti per conto dello Stato italiano: direttore uff. tecnico vigilanza del polverificio di Avigliana; direttore uff. tecnico vigilanza del polverificio di Segni; direttore uff. tecnico vigilanza del polverificio di Pallerone; laboratorio chimico principale della Marina: studi sugli esplosivi; laboratorio del centro chimico militare - Roma: tre anni di studi sugli aggressivi chimici e loro protezione; direttore del laboratorio chimico del Regio Arsenale di Pola; direttore del laboratorio chimico del Regio Arsenale di Taranto con frequenti trasferte a La Spezia: con incarichi particolarmente delicati durante la guerra d'Etiopia (1934-1937). Nel febbraio del 1939 fu licenziato in tronco dalla Regia Marina per la sua appartenenza alla razza ebraica, in applicazione dell'art. 21 del R.d. Legge 17 /11/1938 n. 1728, con pesanti conseguenze morali e materiali per me e per tutta la famiglia. Il documento ufficiale con cui viene comunicato il licenziamento è intestato: «IL DUCE - MINISTRO PER LA MARINA». Un onore speciale concesso a mio padre per le sue benemerenze verso la patria?

In Italia non c'è posto. Il licenziamento fu un grave trauma per mio padre, una persona che si considerava a tutti gli effetti italiano e fedelissimo servitore della sua patria alla quale aveva dedicato tutte le sue motivazioni professionali e fatto un giuramento cui mantenne sempre fede (con costi altissimi, come vedremo successivamente) nonostante le discriminazioni e le angherie delle quali fu oggetto per la sua «razza». Il suo nucleo familiare comprendeva, all'atto del licenziamento: mia madre, casalinga, senza lavoro; mio fratello Sergio di due anni e mezzo; il sottoscritto che aveva poco più di un anno. Il trauma coinvolse tutta la famiglia, che per quasi sette anni dovette vagabondare con frequenti spostamenti in una condizione di assoluto isolamento dalla cosiddetta «comunità civile» per me e Sergio. La nostra condizione di discriminati e l'impossibilità di trovare un lavoro, aggravata dall'impegno a non utilizzare (per ragioni morali) conoscenze tecnico-scientifiche che in qualche modo potessero derivare dalla sua esperienza presso la Marina militare italiana (e potevano apparire come segreti d'ufficio) costrinsero mio padre a espatriare in Francia con la famiglia, anche a seguito di una promessa di aiuto da parte di parenti francesi.

In Francia. Ci trasferimmo in Francia nel marzo 1939 con il miraggio di un nuovo lavoro di alto livello professionale. Purtroppo, all'atto pratico il lavoro si dimostrò «non accettabile» per la statura morale di mio padre. Si trattava di ricerche nel campo della chimica degli esplosivi e mio padre lo rifiutò per mantenere fede al giuramento di fedeltà fatto alla Regia Marina e quindi alla sua patria. A causa della guerra, della nostra nazionalità italiana e della nostra «razza», ogni tentativo di trovare lavoro fu vano per tre anni. Nel frattempo vivemmo di espedienti spostandoci di volta in volta ad abitare presso qualche parente o conoscente pietoso. Infine fummo ospitati quasi gratuitamente presso l'Hotel Regence di Aix- En- Provence di proprietà di madame Vidal che fu la nostra grande benefattrice. In quel periodo fummo oggetto (in particolare noi bambini) di ingiurie e maltrattamenti da parte di alcuni pensionanti dell'hotel in quanto eravamo italiani (traditori) ed ebrei. I miei primi ricordi d'infanzia sono costituiti dalle urla con cui alcuni di essi pretesero che madame Vidal ci cacciasse dall'hotel: non ottenendo il risultato abbandonarono l'albergo. Ricordo che madame Peche (nel mio immaginario infantile un'orribile megera, una strega mangiatrice di bambini) pretendeva che noi andassimo a tavola solo dopo la fine del pasto «des Chrétiens», e se avanzava qualcosa di buono (come per esempio «les gateaux» (i dolci) della domenica) lei se li portava in camera per evitare che venissero distribuiti «aux salauds » «ai maiali» «agli sporcaccioni»; difficile rendere in italiano con efficacia l'intensità del contenuto ingiurioso e dispregiativo del termine francese in quel contesto; il Collins riporta il significato «stronzi»). Ho dimenticato molte parole francesi, ma queste non si sono mai cancellate dalla mia memoria. Ricordo il geloso attaccamento al mio nome italiano Frànco (con l'accento sulla a) e il rifiuto di rispondere a chi mi chiamava François. Ricordo che una volta, facendo finta di inciampare, pestai i piedi con tutte le mie forze a madame Peche. Nel 1942 finalmente mio padre trovò un lavoro presso il saponificio Bellon-Dramard di Marsiglia, dove ristrutturò tutti i processi produttivi meritando importanti riconoscimenti da parte del titolare. Nei primi mesi del 1943, a seguito dell'invasione tedesca, la situazione per noi ebrei diventò insostenibile e ci fu ingiunto (credo dal consolato italiano) di rientrare immediatamente in patria dove … avremmo goduto della protezione delle «nostre» autorità.

Rispediti in Italia. Così, da un giorno all'altro, nel marzo 1943 «riparammo» in Italia. lo avevo cinque anni e Sergio sei anni e mezzo. Mio padre non ebbe neanche il tempo di salutare il titolare del saponificio che era fuori sede per lavoro. Però, tornato in Italia, ricevette da lui una commovente lettera di amicizia e di apprezzamento per i suoi meriti professionali, lettera che ho ritrovato nei documenti di famiglia e di cui allego traduzione. Ricordo quel viaggio lunghissimo e penoso in una tradotta dai duri sedili di legno, ma allietato, almeno per noi bambini, dal senso dell'avventura, e dalla speranza di ritrovarci con «gli italiani», i nostri compatrioti che non avevo praticamente mai conosciuto, ma che, ne ero certo, ci avrebbero accolti con grandi festeggiamenti. Nonostante le angherie subite, mio padre mantenne intatto il suo amore per la sua patria e ce lo trasmise con passione, e con alcune poesie fornisce la più bella testimonianza. In Italia non avevamo più una dimora: infatti, in funzione del suo ruolo di chimico principale della Marina militare, mio padre in passato veniva frequentemente trasferito tra gli arsenali militari e in diverse dipendenze dove (prima del licenziamento) veniva ospitato in foresterie di servizio con la famiglia. Gli oggetti e i pochi mobili che non avevamo venduto partendo per la Francia erano stati ammassati in una cascina. Fummo ospitati da parenti in diversi posti: qualche giorno a Siena, poi a Genova, quindi nella cascina del nonno nel Monferrato. Vissi, nonostante la giovane età, questi continui spostamenti a casa d'altri come fatti estremamente umilianti: una cocente delusione rispetto alle lusinghiere aspettative del ritorno in patria. Dopo qualche mese dal rientro, mio padre trovò un lavoro a Torino presso la ditta Unghero di recupero metalli, che lo incaricò di creare un laboratorio di analisi. Ma dopo pochi mesi, nell'estate del 1943, dovette rinunciare all'impiego perché Torino era stata occupata dalle Ss germaniche e c'era il rischio di essere deportato.

Fuggire nei boschi... e «grazie zio. Nell'autunno del 1943, poiché la nostra situazione di ebrei era ormai disperata (nel settembre erano iniziate le prime deportazioni in Germania), dovemmo scappare ancora una volta, e nasconderci sotto false generalità. Con noi vennero mio nonno materno, mia nonna e una sorella di mia madre, la zia Laura. Ci fu intimato dai genitori di «dimenticare» il nostro vero cognome, di non lasciar vedere «il pipì» a nessuno e ci fu tolto lo shadai (medaglietta d'oro tradizionale che viene regalata ai bambini ebrei alla loro nascita e che porteranno al collo per tutta la vita. In essa è incisa la stella di Davide, il nome e la data di nascita), pena la cattura. Lo zio, Massimo Teglio, che aveva installato a Genova delle tipografie clandestine nei sotterranei delle chiese (così mi raccontò), ci fece avere le carte d'identità false. Le residenze indicate sui documenti erano nel Sud Italia (liberato dagli angloamericani) per rendere impossibile l'identificazione e la verifica da parte della polizia e delle Ss. Il mio nome era Franco De Maria mentre quello di mia madre era Rosa Emma Marturano; lo zio «Primula Rossa», che in quel drammatico periodo non perse mai la calma né il suo senso innato dell'umorismo, mi raccontò molti anni dopo (quando aveva più di 80 anni) che avrebbe potuto divertirsi a battezzare sua sorella (mia madre) Filumena Marturano ma purtroppo la commedia non era ancora stata scritta! Inoltre era meglio modificare solo il cognome lasciando invariato il nostro nome: ciò avrebbe evitato pericolose confusioni nei nostri colloqui in presenza di terzi. Fu così che persi anch'io solo il cognome e non il nome. Ne fui felice, dopo le battaglie per la strenua difesa del mio vero nome che avevo dovuto affrontare in Francia! Ci rifugiammo a Morbello, un paesino tra le colline nella provincia di Alessandria, a metà strada tra Acqui Terme e Ovada. Da allora vivemmo nel terrore continuo di essere catturati e internati nei campi di concentramento. Trascorremmo quei 20 mesi in sette persone ammassati in un rustico, in una frazioncina (Colla Nani) isolata, composta da poche case di contadini, che si trova ai piedi del monte Laione, una montagna ripida e boscosa dove spesso scappavamo (di giorno o di notte) non appena fiutavamo qualche pericolo, in particolare in occasione dei frequenti rastrellamenti eseguiti dalle milizie fasciste o tedesche le cui colonne spesso arrivavano a sorpresa dalle città alla ricerca di partigiani, di ebrei e di renitenti alla leva. Un testimone ricorda che a Morbello durante la nostra permanenza ci furono 62 rastrellamenti in grande stile più centinaia di piccole requisizioni e controlli (come riporta Carla Icardi nelle pagine 104- 107 del libro Morbello, Italgrafica). Per evitare il grave rischio di tradire le nostre origini, io e mio fratello vivevamo assolutamente isolati, senza contatti con altri bambini e naturalmente non potemmo frequentare la scuola elementare, nonostante avessimo entrambi raggiunto l'età scolastica. In quelle condizioni la convivenza familiare fu drammatica, specie per i difficilissimi rapporti tra mio padre e mio nonno materno, un ricco e prepotente commerciante genovese che, grazie al suo tipo di attività, era riuscito a salvaguardare una parte del suo patrimonio e rinfacciava continuamente a mio padre di dover «sfamare la famiglia di uno sfaccendato»: non gli aveva mai perdonato di non aver trovato un lavoro stabile dopo il suo licenziamento. Inoltre l'obbligo per me di giocare solo con Sergio, dal carattere molto forte, creò ulteriori problemi e piccoli drammi giornalieri in famiglia, che sarebbero stati insignificanti in un contesto normale. La domenica ci recavamo, sotto «stretto controllo» dei genitori, nella chiesa della frazione Piazza (il capoluogo) dove recitavamo a voce alta tutte le preghiere cattoliche. Ci sentivamo osservati dagli altri bambini che tentavano in diversi modi di attaccar discorso e di provocare qualche nostra reazione, ma avevamo ordine di evitarli, nei limiti del possibile. Qualche volta gli abitanti del paese si rivolgevano a mio padre chiamandolo «signor De Maria» e per me era una gran sofferenza non poter reagire, non poter gridare il nostro vero cognome a tutti, dover fingere anche con persone dal grande cuore, che non ci avrebbero certamente tradito e che non potevano non intuire la nostra reale condizione. Ogni sera andando a dormire, pur essendo la nostra famiglia agnostica, recitavo con mio padre, con grande struggimento, la preghiera di tutti gli ebrei Sceman Israel Adonai Elohenu Adonai Ehad... Il suono dolce di quelle parole «solo nostre» e pronunciate lentamente era per me più importante del loro significato (Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno). Detta la preghiera mi ficcavo sotto le coperte, ben nascosto, e gridavo sottovoce dieci volte il mio vero cognome: ero terrorizzato dall'idea di perdere la mia identità.

Nomadi e pastori. Il rustico dove eravamo ammassati era di proprietà di un maresciallo di polizia in pensione che abitava in un paese di pianura ma spesso arrivava da noi improvvisamente, anche di notte, a chiedere sempre più soldi terrorizzandoci con minacce di denuncia alle Ss tedesche; il maresciallo non aveva nessun rispetto neanche per noi bambini, anzi approfittava della nostra presenza per alzare la voce e aumentare l'efficacia delle sue esose richieste. Eravamo disperati poiché le disponibilità del nonno andavano rapidamente esaurendosi. Questa situazione determinava reazioni rabbiose del nonno contro mio padre e contro noi bambini, visto che non osava sfogare la sua ira contro il maresciallo. Solo il coraggio e l'audacia dello zio Massimo riuscirono a ridurre le pretese dello strozzino. L’ episodio, molto divertente, è narrato con grande efficacia da Alexander Stille nel libro citato alle pagine 303-306. Mio padre si vide costretto a lavorare a giornata per i contadini del posto: zappare la terra, potare le vigne, scavare la roccia con il piccone per preparare le fondamenta di una casa e ricavare pietre per la costruzione, lavori cui il suo fisico non era certamente adatto e allenato, pur di portare a casa qualcosa da mangiare. Nelle ore libere da questi lavori vagava per le campagne, rischiando la cattura, con uno zaino militare per acquistare o barattare viveri e beni di prima necessità. Era grazie a queste attività e alla disponibilità dei contadini che avevamo sempre qualcosa da mangiare. lo e Sergio collaboravamo al magro bilancio familiare portando capre e pecore al pascolo, mungendole e tosandole, raccogliendo legna da ardere, e facendo lavori ausiliari di ogni genere in aiuto ai contadini: portavamo a casa come compenso qualche forma di pecorino fresco, un uovo, filati greggi prodotti dopo la tosatura delle pecore, con i quali mia madre confezionava ruvidissime maglie e guanti. Dopo la guerra, man mano che crescevo, mia madre disfaceva le maglie e con il filo ricuperato rifaceva indumenti adatti all' età. Ancora oggi porto in montagna guanti prodotti con il filo delle «mie pecore». A Morbello andavamo al pascolo con Nella e Pietrina, figlie di contadini che furono per noi come sorelle maggiori e ci fecero sentire meno pesante l'isolamento dal mondo: con loro passavamo le nostre ore più serene. Sono andato a cercarle recentemente, dopo tanti anni di silenzio durante i quali avevo rimosso tutto il mio passato, dimenticando persino il loro nome e di aver fatto il mestiere del pastore. Mi hanno aiutato a ricordare storie, nomi, posti, vicende che ora gradualmente emergono alla memoria. Con grande emozione abbiamo ricordato i loro morti, i miei morti. Mi hanno accompagnato a visitare vecchi contadini che ci avevano frequentato, o conosciuto, o semplicemente avevano sentito parlare di noi durante la guerra. Poi persone più giovani cui le nostre vicende erano state tramandate dagli anziani ormai morti. Tante storie di mio padre, mie, della mia famiglia. Storie, che avevo cancellato dalla memoria, che per anni mi erano ricomparse contraffatte sotto forma di incubi ricorrenti e che finalmente venivano lentamente alla luce con un'opera graduale di ricostruzione. Da quel momento è nata la mia voglia di sapere e raccontare. Tutti mi hanno parlato con simpatia e tenerezza di mio padre, della sua voglia di lavorare, della «pena che faceva» perché aveva le «mani da cittadino» e faceva una gran fatica nell'uso della zappa, della pala e del piccone. E poi della sua felicità quando, con un colpo ben assestato, riusciva a spaccare una pietra nella cava o a rompere, nei campi, una zolla di terra troppo dura. Mi hanno riferito che quasi tutti «sapevano o immaginavano» la nostra condizione, alcuni di loro conoscevano il nostro vero nome, ma a nessuno era mai saltato in testa di denunciarci, neanche ai funzionari locali del partito, al podestà, alle spie che vivevano in paese. Fu un miracolo? Abbiamo discusso la cosa con gli anziani sopravvissuti e cercherò ora di riassumere le conclusioni. C'era una tripla rete protettiva: quelli che ci amavano, ci avevano adottato (ed era la maggioranza dei contadini); quelli che per timore di rappresaglie dei partigiani e dei nostri protettori, non ci avrebbero mai denunciato, anche se le taglie per i delatori potevano apparire attraenti; poi c'era la terza categoria: i borsaneristi, uomini dai pochi scrupoli, ma che utilizzavano mio padre per distribuire caffé, zucchero e altri beni rari in qualche landa sperduta o sulle montagne, regno dei partigiani. Anche a me capitò di fare il corriere o la guida da e verso le montagne che conoscevo come le mie tasche in tutti gli anfratti. Ero fiero di questo «mestiere» che tenni sempre nascosto ai miei genitori. Ma smisi dopo alcune esperienze traumatizzanti... Siete curiosi? No, ragazzi, di quelle esperienze di violenza, di vendette, di «vendette di vendette», di morti sfregiati, di sangue, dalle quali uscii involontariamente coinvolto e imbrattato... no, no, di quelle no! Non ne posso parlare, all' età di sette anni... Dicevo che smisi. Continuai però le mie passeggiate solitarie sulle montagne, tenendomi lontano dai pericoli: erano momenti di serenità e anche di esaltazione di libertà, lontano dall'ambiente opprimente che regnava in casa, permeato dai mugugni del nonno, da tutte le angosce dei familiari, e dagli scontri con Sergio che amavo ma che era sempre più forte di me negli inevitabili litigi tra fratelli. E dalla continua attesa di papà: non sapevamo mai se la sera sarebbe tornato vivo dalle sue peregrinazioni in cerca di cibo.

Notizie dal mondo. Il nostro mondo di bambini solitari era limitato ad alcune parti del Comune di Morbello: la minifrazione Colla-Nani, i pascoli vicini, e le montagne dove mi concedevo le mie personali scappatelle. Erano abitate da animali selvatici, insetti, uccelli, con i quali avevo un rapporto privilegiato e di assoluta fiducia. La montagna era ricoperta da boschi rigogliosi e parte del sottobosco era difeso da cespugli impraticabili, o estensioni di altissime felci sotto le quali avevo ricavato delle grotte verdi che conoscevo solo io e dove nascondevo i miei giocattoli: bastoni, corone e cappelli costruiti cucendo foglie di castagno con ramoscelli, pietre dalle forme attraenti, alcune vecchie pentole di rame, panche e tavolini costruiti con pietre e assicelle. Avevo assegnato a ogni sito il nome di un bambino. Poi c'erano i partigiani, che papà chiamava «patrioti», con cui avevo un rapporto che consideravo fieramente «cameratesco». Altri individui più o meno misteriosi ogni tanto frequentavano la montagna, ma li evitavo. In cima al monte Laione, nella sua cascina isolata presso una quercia secolare, abitava Secondo, e ci accoglieva sempre con la massima disponibilità quando scappavamo dai rastrellamenti: i tedeschi e i miliziani raramente osavano arrivare fin lassù. In cima al Laione, ci sono tornato l'anno scorso: la cascina di Secondo è abbandonata, mezza diroccata e invasa dai rovi ma mi è parsa riconoscermi e accogliermi con affetto. «La quercia», ancor oggi venerata da tutto il paese, anche se pochi la vanno ancora a trovare, mi è apparsa a un tratto in tutta la sua maestà protettiva e in tutto il suo vigore, sentinella di un passato che non voglio più dimenticare. Le frazioni più grandi del Comune, molto distanti, erano allora per noi considerate off limits, salvo rare uscite sotto stretta sorveglianza dei nostri genitori. Le notizie dal mondo arrivavano da poche fonti locali o in seguito all'arrivo di «alieni». Le fonti normali erano i racconti dei nostri vicini di casa, una radio-galena con la quale papà captava qualche bugiarda notizia dalle trasmissioni del regime o le poche informazioni intercettate su radio Londra, volantini propagandistici arrivati dal cielo, pagliette di stagnola anch'esse arrivate dal cielo per disturbare le trasmissioni di radio Londra (di solito venivano lanciate in occasione di vittorie alleate) ma che erano una festa per noi bambini che ci precipitavamo a raccoglierle come fossero fiocchi di manna. Poi c'erano le fonti speciali: frequentissime sparatorie di partigiani, tedeschi e militi fascisti per battaglie ufficiali, oppure private, per saccheggi e vendette su e tra civili. Sì, anche queste sparatorie erano importanti fonti di comunicazione, perché la direzione di provenienza dei colpi ci segnalava il rischio e ci suggeriva in quale direzione scappare. Infine le notizie sui parenti, sparpagliati in varie zone d'Italia, ci arrivavano da misteriosi individui vestiti da fascisti o da preti (ma con simboli e segnali convenzionali riconoscibili da lontano), provenienti da Genova, inviati dallo zio Massi­mo, che ci portavano le novità accompagnate da qualche confezione di caffé, di zucchero, sigarette e altri beni preziosi, che papà si affrettava a barattare presso gli indigeni con beni più modesti ma utili: latte, uova, verdura e formaggio. Prima di concludere la storia di questa lunga villeggiatura vorrei raccontare ancora due episodi nati dall'incontro-scontro del nostro piccolo mondo con il mondo esterno.

L'automobile del papa. Una limpida mattina d'inverno, fine 1943, credo. Papà già è in giro a scambiare le sue merci, io e mio fratello Sergio siamo in casa con la mamma che ci legge un racconto tratto da uno dei tre libri per ragazzi che lo zio Massimo ci ha fatto recapitare dai suoi «alieni». La mamma ci propone di farne un riassunto (era la nostra scuola elementare). Il nonno è di là che brontola e, visto che non lo ascoltiamo, se la prende con la nonna che è completamente sorda e fa finta di ascoltarlo. Di colpo sentiamo un gran vocio là in basso sulla strada maestra. Guardiamo dal finestrino: una macchina lussuosa sta arrivando dalla frazione Piazza. Mai visto una macchina privata in paese e tanto meno così bella, che viene proprio verso di noi! Siamo sconvolti dal terrore: dev' essere un comandante delle Ss che viene a prenderci. Come mai la consueta rete protettiva non ha funzionato? Qualche spia ci ha denunciato? Dietro alla macchina un codazzo di bambini festanti e poi alcuni contadini, amici fidati. Ci tranquillizziamo un po'... La macchina si ferma: sui parafanghi anteriori sventolano le bandierine gialle dello Stato Vaticano. Lo zio Massimo, la Primula Rossa in persona esce da una portiera, mentre l'autista scende dall'altra parte... è un prete! Pensiamo persino che sia finita la guerra. Scendiamo in strada a salutare lo zio che ci abbraccia con il suo sorriso buono e ci porge due pacchi regalo. Papà ritorna dalle sue peregrinazioni. Mentre lo zio sale in casa con i grandi, accompagnato dall' «autista», i bambini ci assalgono con le loro domande. lo e Sergio ci sentiamo molto, molto importanti. Questa volta siamo tanto fieri dell'accaduto che abbandoniamo tutte le difese tradizionali: non sfuggiamo al colloquio. «Questa è la macchina del papa», dice uno grandicello, «e quel signore chi è?». «Mio zio, e questa è la SUA macchina», rispondo con fierezza. lo non conoscevo i simboli del Vaticano, ma in casa avevo sentito parlare delle gesta dello zio e sentivo che solo lui avrebbe potuto far terminare le nostre tribolazioni. «Ma come è possibile? Ci sono le bandierine del Papa». «Beh, la macchina è metà di mio zio e metà del Papa!», rispondo con fierezza. I genitori da casa ci chiamano, ci fanno capire che non dobbiamo più stare con i bambini che «vengono da fuori». Rientriamo in casa, troviamo i parenti ammutoliti. Anche lo zio, che prima mi aveva accolto con un bel sorriso, ora ha il viso triste e dice: «Devo andare». Mi prende in braccio, mi bacia e sento le lacrime scorrergli sul viso. «Allora la guerra non è finita?!» grido, e vado a rifugiarmi sul mio pagliericcio. Poi con calma i genitori mi racconteranno. I miei cuginetti Claudio, di sei anni, Lia, di un anno e mezzo, i loro genitori e i loro nonni sono «andati in Germania a lavorare». Avevo sei anni appena compiuti e il trauma fu grave. Nessuno tornerà più: i bambini e gli anziani, che non servivano a nulla, verranno uccisi all'arrivo ad Auschwitz, lo zio e la zia verranno sfruttati fino alla morte. Fine della loro villeggiatura. Tutti catturati dalle autorità italiane, in accompagnamento alle Ss.

Il bottino. Come ho accennato, la nostra rete protettiva ha quasi sempre funzionato, almeno nei suoi aspetti informativi (allarmi tempestivi sull'arrivo di truppe blindate o di manipoli pericolosi), e non solo per noi, ma anche in difesa dei partigiani che a volte, in periodi di calma, scendevano a dormire nelle loro case: le staffette passavano le informazioni che dalle città, Acqui da una parte, Ovada dall' altra, venivano trasmesse di paese in paese e arrivavano da noi prima delle truppe addette ai rastrellamenti. Ciò non toglie che quando arrivavano, le truppe non arrecassero grandi danni e violenze, ma... con il vantaggio del preavviso. Era il febbraio del 1945. Da giorni nevicava. Morbello era isolato dal mondo. Per noi bambini era una pacchia. Potevamo giocare a palle di neve ed eravamo tranquilli che nessuna colonna blindata potesse arrivare e tanto meno truppe appiedate: lo avevano confermato i partigiani che erano scesi in massa a dormire presso le loro famiglie in tutte le frazioni del paese. Una mattina presto, impaziente di andare a giocare nella neve, mi ero precipitato fuori, sulla scaletta all'aperto che scendeva verso una stradina della nostra frazione. «Chiudi la porta», gridava il nonno. Ma appena chiusa la porta mi trovai la pistola puntata sulla tempia e un «fantoccio» (così noi bambini chiamavamo i soldati tedeschi quando li vedevamo con l'elmetto calato sul viso) che mi ingiungeva di far silenzio. In alto, sul tetto della nostra casupola, era installata una mitragliatrice puntata verso la porta, quindi verso di me. Due scalini sotto un altro milite stava salendo con il fucile mitragliatore puntato. Devo confessare che in quel momento mi sentii molto importante. Mi resi conto del pericolo solo qualche secondo dopo, quando i militi entrarono in casa sfondando la porta che peraltro non era chiusa a chiave. «È finita», pensai. Ma rimanevo sereno. Non sentivo il terrore che mi sarei aspettato. Le truppe tedesche erano arrivate completamente inattese. Le spie avevano lavorato bene. Il rastrellamento e le violenze furono estese a tutte le frazioni di Morbello e durarono tutta la giornata. Ci arrivò una notizia che per noi bambini appariva spaventosa: c'erano anche i mon­goli al seguito dei tedeschi, e c'erano le brigate nere e c'era anche un uomo, forse un paesano, con il viso coperto da un passamontagna nero che sapeva tutto e faceva loro da guida. Il bottino fu notevole: maiali, pecore, capre, oche, mucche, altri preziosi generi alimentari e inoltre (se non mi sbaglio) 39 persone, tra cui il mio amato papà. Devo ammettere che qui i miei ricordi si fanno confusi e mi sono fatto aiutare, oltre che dalla memoria, da alcune testimonianze dirette raccolte lo scorso anno, alcune letture, alcuni sogni ricorrenti. Tutto il bottino fu ammassato all'aperto, forse in frazione Piazza. Poi iniziò la triste colonna diretta verso Ovada (una quindicina di chilometri nella neve). Noi eravamo chiusi in casa, angosciati per la sorte di papà. Dissi alla mamma: «Se lo spogliano, vedranno il pipì da ebreo». Papà ci aveva sempre raccomandato di non fare mai vedere agli altri bambini la nostra circoncisione. Nel pomeriggio arrivò da noi un uomo (un contadino? il tabaccaio? il podestà fascista? Non sono ancora riuscito a scoprirlo). «Stanno partendo, inseguiteli subito! Presto! Presto». Mi mise in mano una stecca completa di sigarette (un grande lusso, in quell'epoca). «Seguitemi!». Mio nonno rimase lì abulico, anzi mugugnò qualcosa come: «Meglio uno che tutti». La mamma reagì, ci prese per mano e seguimmo l'uomo. La nonna voleva seguirci, ma venne trattenuta in casa. Raggiungemmo la colonna che lentamente procedeva nella neve verso Ovada. L'uomo ci lasciò dando a mia madre molti consigli. Trovammo subito papà che era a piedi, alla fine della colonna (mi pare con le mani legate) tra due tedeschi: erano della Wehrmacht e non delle Ss. Camminammo dietro la colonna cercando di far coraggio a papà e far compassione ai soldati. Il loro viso, viso di tedeschi, per la prima volta ora mi appariva più umano, gli elmetti erano rialzati e quando si voltavano indietro vedevo i loro occhi: ci guardavano. Tendevo loro la stecca di sigarette. Facemmo molti, molti chilometri ma non sentivamo la stanchezza. Percorrevamo una strada tra le montagne, e sentivamo qualche sparo dai due lati: erano forse i partigiani che non erano caduti nella trappola. A un tratto gli spari si intensificarono, il gruppo di mio padre era rimasto indietro rispetto alla colonna motorizzata, e uno dei due militi si girava continuamente indietro: mi guardava in faccia, lo guardavo in faccia, ormai ci conoscevamo. Gli tesi ancora una volta le sigarette. Il gruppetto si fermò, lo raggiungemmo subito. Presero le sigarette e ci restituirono papà, senza dire una parola. Quindi raggiunsero la colonna. Non ricordo bene, ma ho l'impressione che fosse già quasi buio quando facemmo dietro-front. Noi tornammo indietro in quattro, felici, nella sera, nella neve. Evviva, noi quattro ancora tutti insieme! A noi i partigiani non sparano! Per quella sera non si fecero vedere. Ci rimasi molto male, avrei voluto che scendessero in strada ad abbracciarci e a partecipare alla nostra infinita gioia. Non so che fine abbia fatto il resto del «bottino umano», ma qualcuno è tornato. Uno l'ho visto forse due anni fa, era molto vecchio, e in quel momento non stava bene, si ricordava di noi, non se la sentiva di parlare. La figlia mi pregò di ritornare un'altra volta. Sono ritornato troppo tempo dopo, lui era mancato. Ma ne ho trovato un altro di oltre 80 anni e mi ha raccontato molte cose, prima con difficoltà, poi pian piano le idee si chiarivano, e alla fine si ricordò anche di mio padre. Mi raccontò per ore, forse era la prima volta che raccontava e io rimanevo lì incantato ad ascoltare. Ci siamo lasciati con un abbraccio stretto.

Il ritorno. Dopo la guerra ritornammo a Genova dove mio padre fu reintegrato in servizio con tutti gli onori, ma con una grande depressione. Se ben ricordo, il primo incarico fu una missione per coordinare lo sminamento dei laghi di Avigliana. Papà lavorò con passione per qualche anno. Ci volle molto bene, ma ci lasciò presto: il suo suicidio risale al settembre 1949. La mamma si mise a lavorare subito dopo la morte di papà e riuscì a mantenerci agli studi con grandi sacrifici, ma divenne molto ansiosa, quasi soffocante con i figli. lo mi allontanai dalla famiglia a 14 anni e andai a vivere da solo a Ivrea. Sergio si allontanò dalla famiglia a 17 anni e si suicidò a 22 anni, dopo aver conseguito una brillante laurea in Fisica nucleare alla Scuola normale di Pisa.

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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