Diario

È difficile tornare normali

L’abrogazione delle leggi antiebraiche emanate dal fascismo non fu né immediata né facile, nei territori man mano liberati. La lentezza nella restituzione di beni e cariche portò a sgradevoli, lunghi contenziosi.

di Mario Toscano

 

L'abrogazione delle leggi razziali antiebraiche, emanate dal fascismo a partire dal 1938, costituisce un capitolo importante nella costruzione della nuova Italia democratica, per il suo svolgimento, le sue caratteristiche, i contenuti del dibattito politico e della riflessione culturale che hanno accompagnato questo specifico aspetto del superamento di una delle più laceranti eredità del fascismo. I tempi, le modalità, i contenuti, gli effetti del processo di abrogazione di questa normativa costituiscono infatti aspetti diversi ma strettamente connessi di una vicenda settoriale, che aiuta a comprendere la storia dell'Italia dalla crisi del regime all'edificazione della Repubblica. Va infatti innanzi tutto sottolineato che la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943 non comportò l'abrogazione della legislazione razziale: nonostante le isolate sollecitazioni di alcuni intellettuali come Guido de Ruggiero e Vincenzo Arangio Ruiz, il governo Badoglio, come avrebbe più tardi dichiarato lo stesso maresciallo, non intendeva realizzare in questo settore interventi radicali che potessero insospettire i tedeschi, anche se comunicava a esponenti dell'ebraismo italiano che quelle norme si dovevano considerare ormai «come inoperanti». In realtà, il clima di quelle settimane è testimoniato dalle annotazioni del Diario di Piero Calamandrei, secondo il quale negli ambienti politici romani nessuno parlava di abolizioni delle leggi razziali e dai documenti relativi all'attività della Santa Sede che, intervenendo presso il governo in favore delle famiglie e dei matrimoni misti successivi all'ottobre 1938, si asteneva «dal pure accennare alla totale abrogazione di una legge la quale, secondo i principi e la tradizione della Chiesa Cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma». Le leggi razziali, dunque, al di là di alcuni minori aspetti amministrativi, rimanevano intatte, con il loro complesso apparato di discriminazione, emarginazione, schedatura, dei cittadini ebrei, che avrebbe tragicamente fornito un'ampia base alle razzie operate dopo l'8 settembre 1943. Il processo di abrogazione si iniziò pertanto, lentamente e difficoltosamente, dopo l'armistizio, nel regno del Sud, anche sulla base di sollecitazioni alleate, formalizzate nell' «armistizio lungo» del 29 settembre 1943, nelle stesse settimane in cui - appare opportuno ricordarlo - la situazione si faceva più difficile nelle regioni del centro-nord, occupate dai tedeschi, ove si costituiva la Repubblica sociale: qui si avviavano i rastrellamenti degli ebrei e la deportazione nei lager nazisti, e si introducevano nuove misure politiche e legislative, che integravano con drammatici effetti peggiorativi la preesistente normativa emanata dal regime: il 14 novembre 1943, il manifesto del nuovo Partito fascista repubblicano dichiarava al punto 7 che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica»; il 30 novembre 1943, l'ordine di polizia n. 5 del ministro dell'Interno Buffarini Guidi disponeva l'arresto degli ebrei, il loro internamento in campi di concentramento, il sequestro di tutti i loro beni mobili e immobili. Il 4 gennaio 1944, un decreto legislativo stabiliva la confisca immediata di tutti i beni di qualsiasi natura degli appartenenti alla «razza ebraica». Queste misure, emanate mentre imperversava la caccia all' ebreo, avrebbero reso ancor più aspro e drammatico il processo di reintegrazione nei diritti dei sopravvissuti alle deportazioni e dei loro eventuali eredi. Contemporaneamente allo svolgimento di questi eventi, nella capitale del regno del Sud, gli uffici ministeriali avviavano un lento e difficoltoso lavorio preparatorio per l'eliminazione della normativa antisemita, nel corso del quale non mancavano significative indicazioni di quanto il veleno razzista fosse penetrato nella mentalità burocratica: nella relazione al primo testo predisposto per «la reintegrazione nei diritti civili, politici, patrimoniali dei cittadini italiani appartenenti alla razza [sic] ebraica», per esempio, veniva proposto il mantenimento dell'obbligo di dichiarare nei registri dello stato civile l'appartenenza alla «razza ebraica», considerato non offensivo per gli ebrei e rispondente «all'interesse dello Stato». A conclusione di questo lungo e tortuoso itinerario, il Rdl 20 gennaio 1944 n. 25, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 9 febbraio 1944, disponeva la «reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica», decretava l'abrogazione delle disposizioni emanate dal regime fascista per la difesa della razza, stabiliva la riammissione in servizio d'ufficio per i dipendenti delle amministrazioni dello Stato, a domanda per quelli delle altre amministrazioni. Veniva invece rinviata la pubblicazione del Rdl 20 gennaio 1944 n. 26, che conteneva disposizioni per la «reintegrazione nei diritti patrimoniali», con la motivazione che si intendevano evitare rappresaglie tedesche nei confronti degli ebrei viventi nelle regioni occupate, giustificazione invero assai singolare, vista la situazione degli ebrei in quei territori, certamente non ignota alle autorità alleate e a quelle italiane del Sud. Era stato compiuto un primo passo, ma molti problemi rimanevano ancora aperti, come avrebbero mostrato gli avvenimenti successivi. Anche nella vicenda dell'abrogazione delle leggi razziali, la liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, segna una svolta decisiva per molte ragioni: la formazione del governo Bonomi, leader moderato del Comitato di liberazione nazionale; la maggiore vivacità politica, giornalistica, culturale della capitale, ove risiedeva la più grande comunità ebraica italiana e aveva sede l'Unione delle comunità israelitiche italiane, organo rappresentativo degli ebrei italiani, capace, pur frammezzo a innumerevoli difficoltà e ostacoli, di avviare un'intensa azione di pressione nei confronti dei governi succedutisi nell’immediato dopoguerra per affrontare in modo incisivo e organico i guasti e le lacerazioni arrecati dalle leggi razziali. Tra il 1944 e il 1947, si avviava il periodo più intenso e fecondo di azione politica e legislativa per un'effettiva reintegrazione degli ebrei nei diritti conculcati dal regime fascista. La legislazione razziale era stata oltremodo pervasiva; nel corso degli anni successivi al 1938, numerose disposizioni amministrative avevano integrato le leggi, disciplinando gli aspetti più diversi della realtà sociale, economica, professionale. Conseguentemente, da parte ebraica si auspicava a più riprese un perfezionamento della normativa, che affrontasse tutte le complesse questioni generate dalla legislazione razziale e dalle condizioni di emergenza provocate dalla caccia all’ebreo, protrattasi nelle varie zone del Paese fino al momento della liberazione dai nazisti e dai fascisti. A questa esigenza si affiancava, dopo il 25 aprile, la richiesta, formulata dal commis­ario dell'Unione delle comunità israelitiche al presidente del Consiglio Ferruccio Parri, di «una parola di riconoscimento e di conforto», affinché «un'autorevole parola» dicesse agli ebrei «con qual animo, con qual disposizione di cuore, essi sono riaccolti là donde furono cacciati». Quest'ultima richiesta era destinata a confondersi con i problemi drammatici della ricostruzione materiale e morale del Paese e a intrecciarsi con il dibattito generale sull'eredità del fascismo. Sul piano normativo, mentre venivano progressivamente emanate misure miranti a sanare situazioni particolari, si rendeva indispensabile la pubblicazione e l'entrata in vigore del decreto sulla reintegrazione degli ebrei nei diritti patrimoniali, preparato sin dal gennaio 1944. Si trattava non solo di soddisfare un' esigenza di completezza normativa e di rispettare elementari principi di giustizia, ma di predisporre strumenti legislativi adeguati a fronteggiare, in una situazione generale di emergenza, gli ancor più tragici problemi di sopravvivenza quotidiana degli scampati alle persecuzioni in Italia. Il problema si poneva soprattutto all'indomani della liberazione di Roma, a causa della difficoltà di restituire a molti cittadini ebrei le abitazioni da essi forzatamente abbandonate nei mesi dell'occupazione nazista e alla necessità di procedere a una sistemazione delle situazioni irregolari create dalle persecuzioni, restituendo ai legittimi proprietari beni e attività di lavoro a essi ingiustamente sottratti dalla legislazione razziale. Il 29 settembre 1944, il Consiglio dei ministri approvava finalmente il decreto (pubblicato il 20 ottobre) che rendeva operanti queste disposizioni, ponendo le prime (ma incomplete) basi per una reintegrazione nei diritti patrimoniali. Questa operazione, complicata e difficile per il groviglio di interessi coinvolti e la vastità delle spoliazioni effettuate (dalle proprietà immobiliari ai più modesti oggetti della vita quotidiana) dopo l'8 settembre 1943, impostata in Roma liberata, si proponeva in tutta la sua drammatici­tà all'indomani del 25 aprile del 1945 in quelle regioni ove più a lungo avevano imperversato i tedeschi e i fascisti di Salò. In queste aree, all'indomani della liberazione, veniva immediatamente avviato, accanto alla reintegrazione nella vita politica e civile, il meccanismo di restituzione dei beni sottratti agli ebrei nel periodo della Rsi. La tardiva (e controversa) definizione della cornice normativa di questo processo, regolata solo con il Dllgt n. 393 del 5 maggio 1946, era destinata a ingenerare uno sgradevole e prolungato nuovo contenzioso. L'andamento della guerra di liberazione e talune scelte politiche contribuivano quindi a diversificare tempi e impostazione dell'attività legislativa, sottraendo organicità alla normativa e creando talora situazioni diffici­li e contraddittorie. La legislazione abrogatrice e riparatrice, nonostante i favorevoli orientamenti diffusi nella classe politica del tempo, non riusciva ad affrontare sempre incisivamente i guasti creati dalle leggi razziali. Una significativa esemplificazione è fornita dalla questione della «successione delle persone decedute per atti di persecuzione razziale dopo l'8 settembre 1943 senza lasciare eredi successibili»: dopo complesse trattative, l'Unione delle comunità israelitiche otteneva la promulgazione del decreto II mag­gio 1947 n. 364, che stabiliva il principio del trasferimento di questi beni all'Unione stessa. La misura, dall'indubbio significato etico e politico, si rivelava però di assai difficile applicazione, cosicché, ancora alla metà degli anni Cinquanta, come ha messo in evidenza il Rapporto generale pubblicato nel 2001 dalla «Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni di cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati» (Commissione Anselmi) numerosi beni di provenienza ebraica rimanevano giacenti presso l'Egeli (Ente di gestione e liquidazione immobiliare), l'ente creato dal fascismo per la gestione dei beni sottratti agli ebrei e incaricato, successivamente, della loro restituzione. Un altro motivo di disagio era rappresentato dalla norma, stabilita dal Dllgt n. 393 del 5 maggio 1946, secondo la quale i proprietari dei beni confiscati o sequestrati per motivi razziali nel periodo della Repubblica sociale italiana dovevano pagare le spese di gestione e i compensi agli istituti gestori. Queste richieste di pagamento, formulate a notevole distanza di tempo dai fatti, provocavano, per il loro carattere iniquo, una decisa resistenza dei cittadini ebrei proprietari dei beni confiscati e davano vita a dispute trascinatesi fino alla fine degli anni Cinquanta, allorché, come illustra un promemoria del ministero del Tesoro del 16 maggio 1958, si giudicava opportuno rinunciare a esigere questi crediti e si avviavano le procedure per l'incameramento da parte dello Stato di alcuni beni di origine ebraica non reclamati, anche sulla base di un parere dell'Avvocatura generale dello Stato del 23 marzo 1960. Secondo una valutazione formulata dal giurista ebreo Andrea Tabet all'inizio degli anni Sessanta, la normativa dell'immediato dopoguerra ottenne risultati diseguali: «Mentre le pubbliche amministrazioni ottemperarono prontamente e spontaneamente alle leggi reintegrative, molte resistenze si ebbero da parte di privati, individui o enti, i cui interessi si trovarono in contrasto con le norme reintegrative e riparatorie, fra l'altro oscure e difettose». Ricerche più recenti hanno messo in luce anche incoerenze, contraddizioni, resistenze delineatesi nel settore pubblico. Dopo il notevole impegno degli anni 1944-1947, la produzione normativa si arrestò per alcuni anni. Solo nel 1955, veniva emanata la cosiddetta «legge Terracini» che stabiliva Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti, redatta però, secondo una valutazione coeva dell'organo rappresentativo degli ebrei italiani, «in modo tale da perdere molto della sua efficacia e possibilità di attuazione pratica». Base di molte disposizioni successive, le controversie sull'interpretazione e applicazione di questa legge sono continuate fino al 2003. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, venivano emanate ulteriori norme soprattutto di carattere previdenziale e assistenziale, che recepivano talora una visione più ampia e sensibile del significato e dell'impatto delle leggi razziali; si affermava il principio che le leggi razziali avevano rappresentato un atto discriminatorio e persecutorio contro gli ebrei in quanto tali, che il danno patito aveva potuto essere di carattere fisico, economico o morale, e che questo era «comprovato anche dall'avvenuta annotazione di "razza ebraica" sui certificati anagrafici» (legge 16 gennaio 1978, n. 17). La nuova attenzione culturale e storiografica per i temi del razzismo e dell’antisemitismo fascista emersa nel corso degli anni Ottanta, gli inizi della riflessione sui limiti e le contraddizioni dell'azione reintegratrice svolta nell’immediato dopoguerra, contribuivano a uno sforzo di miglioramento della normativa capace di porre, anche se tardivamente, rimedio ai guasti delle leggi razziali e di esprimere una significativa ripulsa dei loro contenuti e della loro logica da parte della classe dirigente della Repubblica italiana: nel 1997, una nuova legge tornava, a distanza di 50 anni, sulla questione dell'eredità dei deportati, stabilendo che «I beni sottratti per ragioni di persecuzione razziale a cittadini ebrei o a persone ritenute tali, che non sia stato possibile restituire ai legittimi proprietari per la scomparsa o l'irreperibilità degli stessi e dei loro eredi e che sono tuttora eventualmente custoditi o detenuti dallo Stato italiano a qualsiasi titolo, sono assegnati all'Unione delle Comunità ebraiche italiane, che provvede ad attribuirli alle singole Comunità tenuto conto della provenienza dei beni stessi e dei luoghi in cui fu compiuta la sottrazione». Non è comunque possibile limitare la storia e la valutazione dell'abrogazione delle leggi razziali solamente al piano delle misure di reintegrazione, riparazione, risarcimento. Sotto il profilo storico, infatti, il bilancio appare assai più grave e complesso: il razzismo fascista ha provocato irrimediabili distorsioni nel processo di evoluzione demografica, culturale, sociale, di una minoranza profondamente integrata nella società italiana; la cultura, la società, il Paese nel suo complesso, al di là dell'azione normativa volta a reintegrare gli ebrei nei propri diritti, hanno avviato con lentezza la riflessione sulla persecuzione razziale, faticando a individuare la specificità dell'esperienza ebraica, a studiarne gli aspetti e le conseguenze, nell'ambito della difficile rielaborazione del passato fascista. Sotto il profilo istituzionale, comunque, meritano di essere ricordati due passaggi significativi: l'iniziativa promossa nel 1988 dall'allora presidente del Senato Spadolini di promuovere la prima indagine storico­ documentaria sull'abrogazione delle leggi emanate contro gli ebrei in Italia e quella promossa un decennio più tardi dalla presidenza del Consiglio con la costituzione della «Commissione Anselmi», culminata nel 2001 nella pubblicazione di un articolato Rapporto generale che apportava nuovi elementi di conoscenza di una vicenda che, al di là di ogni retorica della memoria, ha arrecato incommensurabili devastazioni nella coscienza civile del Paese e dei suoi cittadini ebrei.

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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