Diario

Una forza che fa paura

C’è qualcosa di singolare fra gli ebrei, che non ne aumenta le simpatie da parte degli altri. Ma cos’è? Secondo il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane è l’eccezionale, paradossale capacità di sopravvivenza

di Amos Luzzatto

 

L' antisemitismo è un fenomeno composito, nel senso che esso si manifesta in forme non sovrapponibili in luoghi e in tempi diversi. Si pone il problema se questo dipenda dalla diversità delle genti e delle culture nelle quali esso si manifesta oppure dal carattere composito della cultura e della storia degli ebrei, oppure dall'interazione fra questi due elementi. In tutti i casi uno dei principi più sottilmente antisemitici, spesso alimentato dagli stessi ebrei, è rappresentato dall'affermazione che esso è sempre esistito, almeno dai tempi della schiavitù del Faraone, giù giù fino ai nostri giorni. Dire questo significa affermare che cambiano i popoli, i costumi, le culture, le religioni, ma gli ebrei e l'antiebraismo restano sempre presenti; in altre parole, per parafrasare Amleto, che «c'è del marcio negli ebrei». I fenomeni storici vanno accuratamente contestualizzati. Non credo però di scandalizzare nessuno affermando che certamente c'è qualcosa di singolare negli ebrei, che non ne aumenta le simpatie da parte degli altri. Si tratta, secondo me, della loro eccezionale sopravvivenza. Non della loro «invarianza», ma proprio della «sopravvivenza». Ma è possibile sopravvivere (quindi conservandosi, in un senso che cercheremo di capire fra breve) senza restare sempre gli stessi? Gli ebrei sono gli stessi dei tempi biblici? La lingua ebraica è la stessa che parlavano i patriarchi? Un poeta ebreo vivente ha fatto questa affermazione in mia presenza, in pubblico. È una stupidaggine che, fra l'altro, se fosse vera, non farebbe onore agli ebrei. Sì, è possibile modificarsi con continuità. Almeno, pare sia stato possibile per gli ebrei. Non direi che si sia verificato altrettanto per i greci, per i romani, per i galli e per i germani. È molto stimolante capire come ciò sia stato possibile, ma non lo faremo in questa sede; qui possiamo affermare che questa «forza di coesione», in sé e per sé, a molti non-ebrei (non necessariamente a tutti) fa paura, perché la avvertono come un fenomeno anomalo e paradossale. E abitualmente si tende a escludere dal proprio orizzonte ciò che si teme, a esorcizzarlo, a non farsene contaminare, possibilmente a eliminarlo. Che cosa si teme, esattamente? La religione ebraica? Il pensiero, la o le forme sociali degli ebrei? La loro presunzione? La loro umiltà e sottomissione? La loro incapacità militare o il loro eccesso di militarismo? La loro mistica? O la loro razionalità in opposizione alla mistica? Prima di tentare una risposta, devo ricordare, e non per la prima volta, la domanda fattami in pubblico da un amico non ebreo il quale, angosciato, mi chiedeva che cosa siamo noi ebrei; ed elencava una serie di categorie fra le quali ci offriva la scelta: un popolo, una nazione, una religione, una filosofia, una etnia. Erano tutti termini, definiti o meno, del suo linguaggio corrente, in altre parole erano la classificazione che la sua cultura adoperava per rappresentarsi (e dunque per capire) i gruppi umani con i quali aveva la ventura di incontrarsi; con un po' di fantasia si può dire che questo significa offrire al prossimo una serie di vestiti fra i quali scegliere il proprio, senza sognarsi di chiedere: quale tipo di abito tu sei solito vestire? Si trasforma così in proprietà ontologiche dell'osservato quello che è il limite della propria capacità di rappresentare la realtà. La caratteristica originale della civiltà ebraica è stata quella di operare una sintesi fra le relazioni intercorrenti fra «l'uomo e Dio» e fra «l'uomo e il suo simile» (in ebraico: beyn adam la-maqom e beyn adam la-chaverò), associando alla prima un Dio unico e creatore, ma non appartenente alla natura, la quale - come sistema chiuso che procede dal caos all'ordine - richiede l'intervento di una forza esterna ad essa, almeno secondo il secondo principio della termodinamica. L'ebraismo collega le due relazioni con l'equilibrio fra il principio nomico (middat ha-din) e quello della middat ha-rachamim che si potrebbe tradurre come il principio della misericordia e della clemenza (in ebraico chemlà). Ciò che più conta, sforzandosi di far maturare questa esigenza di sintesi in ciascun ebreo. Proprio per questo sforzo di sintesi la civiltà ebraica si manifesta, nel tempo e nello spazio, in forme diverse. Nella Bibbia, il libro del Levitico e i libri dei Profeti esprimono esigenze non uniformi. Il trattato talmudico di Yomà e quello di Bava Qama altrettanto. Il rabbinato di Israele e il governo dello Stato, altrettanto. Con un termine molto europeo si potrebbe dire che i primi esprimono esigenze di culto, i secondi invece necessità «secolari». Eppure, sono tutti parte della stessa civiltà ebraica. Per un amico sincero, che voglia approfondire, si tratta, credo, di temi affascinanti. Per un indifferente o un superficiale è un po' come dire che l'ebraismo è un mostro a più teste. Dunque, l'antiebraismo si combatte con la cultura. Esso, soprattutto oggi (ma forse è sempre stato così) non appartiene in esclusiva a questo o a quel popolo: non si racchiude entro ipotetici confini «naturali», che sono piuttosto decisi dagli uomini con l'arbitrio e con la forza, ma tende a essere universale. Ho detto altrove che sono solito distinguere tre fasi nell'odio antiebraico (mai nettamente separate l'una dalle altre): una fase teologica, meglio conosciuta come antigiudaismo, una razzistica (che ha coniato il termine di antisemitismo) e una politica (che ha privilegiato quello di antisionismo). Quest'ultima, in verità, attinge a piene mani dall'eredità delle sue sorelle maggiori. In realtà, la componente politica è sempre stata fortemente presente nell'odio antiebraico, se non altro per la condizione degli ebrei che è stata di una permanente minoranza numerica, con le conseguenti penalizzazioni giuridiche, economiche e sociali, discriminazioni de jure nelle società illiberali, molto spesso de facto persino in quelle liberali. È indubbio che il suo peso è stato particolarmente avvertito nella nostra generazione, che è quella della guerra fredda. Siamo stati testimoni di un lungo conflitto fra blocchi di Stati che non hanno mai avuto un confronto armato diretto, ma molti confronti indiretti; l'Unione Sovietica contrastava l'egemonia economica degli Usa, cercando di egemonizzare a sua volta i movimenti anticoloniali di popoli ricchi di materie prime e poveri di industria. Nel Medio Oriente, dove Israele è - come popolazione e come Stato - ancora una volta minoranza, questo diventava un antisionismo acritico ed estremizzante, cui si uniformava purtroppo, in forma altrettanto acritica, una parte importante della sinistra europea. La punta di diamante di questo antisionismo diventava il mondo arabo-islamico che non esitava a risalire fino agli ebrei dell'antichità per giustificare il proprio odio per gli israeliani, trasformando un problema politico, per quanto grave, in una istigazione antiebraica totale, da diffondere in tutti i Paesi. Si tentava così di sollecitare alleanze fra tutti i non ebrei contro gli ebrei in quanto tali. Questo antisemitismo globale non può essere combattuto con testimonianze locali, garantendo almeno a parole l'amore totale per gli ebrei in alcuni Paesi ed entro alcuni confini. Esso va contrastato in maniera coordinata in tutti i Paesi, a partire dal ricordo e dall'insegnamento corretto della Shoah, delle sue radici, delle relative responsabilità, del rifiuto di omologarla ad altre tragedie, perché ciò significherebbe mistificarla. Soprattutto non permettere di renderla attuale per denunciare quanto di queste radici esiste ancora nelle nostre società, nelle nostre culture, e quanto va eliminato con una paziente, permanente, equilibrata operazione culturale ed educativa. Se si rinuncia a questo impegno, si finisce con l'essere trascinati dagli eventi. Con il rischio di reagire troppo tardi.

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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