Diario

La scrittura dell’annientamento

I sopravvissuti della Shoah stanno per lasciarci tutti. Quando loro non ci saranno più cosa succederà della memoria dello sterminio? L’unica possibilità è che diventi materia vivente non più testimonianza ma di romanzo

di Jorge Semprun

 

Parlando dei sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti che hanno accettato il rischio di testimoniare, Rachel Ertel ha scritto una frase che mi sembra assai pertinente e ricca di senso. La loro scrittura, ha affermato, «è insieme un doloroso sforzo di anamnesi e di veggenza che mescola ricordi reali e immaginari al mai visto, al mai detto». Senza dubbio, così definendo - straordinariamente - il lavoro della scrittura di testimonianza, Rachel Ertel aveva davanti l'esperienza concreta dei poeti ebrei che scrivevano in yiddish. Il saggio Dans la langue de personne nel quale questa esperienza è analizzata è proprio ammirevole. D'altra parte proprio nel sottotitolo di questo libro (Poesia yiddish dell'annientamento) trovo un'ulteriore ragione per rifiutare l'impiego dei termini usuali, dominanti, per dar nome allo sterminio degli ebrei d'Europa. «Olocausto» è, per parte sua, un controsenso quasi osceno, «Shoah», che si è imposto dopo la fiction testimoniale di Claude Lanzmann, continuerà probabilmente a essere usato perché il film è oggettivamente inaggirabile e perché questo termine si è affermato in un momento storico cruciale, dopo le vittorie israeliane del 1967; «Shoah» ha comunque il vantaggio mediatico della brevità, la sonorità di ciò che resta misteriosamente in sospeso. Ha anche però lo svantaggio concettuale, secondo me viziato all'origine, di un'evanescenza razionale e storica: nessuno conosce esattamente il significato di questo termine, se non che si rifà al sacro, al segreto di un disegno divino. Ora, Dio non ha nulla a che fare con lo sterminio degli ebrei, neppure di coloro ­ una piccola minoranza - che continuano ad avere a che fare con Lui. È tempo di saperlo e trame le debite conseguenze. «Abbiamo ricevuto la Torah nel Sinai / a Lublino l'abbiamo restituita / i cadaveri non cantano le lodi di Dio / La Torah ci fu data per vivere...». Questi versi sono di Jacob Glatstein, poeta yiddish di New York che ha condiviso profondamente l'Annientamento e che gli è spiritualmente sopravvissuto per attraversare i meandri della memoria collettiva. Altri poeti ebrei, tra coloro che Rachel Ertel ricorda e commenta nel suo saggio, hanno subìto la sorte comune dei campi e dei ghetti fino alla camera a gas. Come Itzhok Katzenelson - percorso esemplare il suo - il cui lungo poema epico yiddish Il canto del popolo ebraico sterminato è una testimonianza insostituibile, insieme circostanziata e sconvolgente. Cominciare queste brevi note sulla letteratura concentrazionaria dalla poesia yiddish - poesia dell'Annientamento in una lingua annientata ­ permette di stabilire in prima battuta una radicale distinzione tra deportazione e sterminio, tra queste due esperienze storicamente intrecciate, ma che bisogna distinguere per sottolinearne la specificità. Esiste in effetti un'antica confusione, frutto spesso di ignoranza ma talvolta anche di un pensiero equivoco o malevolo, tra la deportazione dei nemici del nazismo - oppositori tedeschi del regime hitleriano, resistenti europei - e lo sterminio che riguarda ebrei e zingari. I primi vengono deportati per la loro attività, quale che sia la loro origine sociale o la loro religione. I secondi vengono sterminati perché sono ciò che sono, anche se non hanno mai commesso un atto, un solo gesto di opposizione al regime. La differenza - anche se il numero dei morti «resistenti» fosse comparabile a quello degli ebrei annientati e non lo è neanche lontanamente - non è quantitativa ma ontologica. Ciononostante, malgrado l'assoluta priorità, in un certo senso fondante, dell'antisemitismo nel potpourri ideologico del nazismo, non è contro gli ebrei che Hitler organizza e dispiega in prima battuta il suo sistema concentrazionario: è contro gli oppositori politici, comunisti, socialdemocratici, cristiani. L'ultimo grande campo di questo sistema «di internamento e rieducazione» degli avversari politici viene edificato nel 1937, ed è Buchenwald. Solo nel novembre del 1938 - dopo la Notte dei Cristalli, notte di violenze e di pogrom in tutto il Paese - comincia la deportazione massiccia degli ebrei tedeschi. All'inizio Hitler interna gli ebrei nei campi già esistenti. Ma sin da subito essi furono sottoposti a un regime speciale, particolarmente barbaro. Così la maggior parte degli ebrei di Francoforte morirono a Buchenwald, nel mese che seguì la Notte dei Cristalli. Cinque anni dopo, il ricordo del loro martirio perdurava nella memoria dei resistenti tedeschi. A partire dal 1939, dall'inizio della Seconda guerra mondiale, parallelamente all'estendersi dell'impero hitleriano sull'Europa, le autorità naziste cominciarono a svuotare i campi esistenti dai deportati ebrei e a concentrarli in un nuovo arcipelago di campi, creato in Polonia e specificamente concepito per lo sterminio (camere a gas). All'epoca della tristemente celebre conferenza di Wannsee, nel 1942, questa politica viene sistematizzata, razionalizzata e accelerata, con l'obiettivo di completare «la soluzione finale della questione ebraica» in Europa. Al livello del quotidiano, dell'esperienza vissuta, questa radicale singolarità dell'Annientamento, nel quadro storico generale della deportazione, non può essere trascurata né sottostimata. Ed è peraltro immediatamente avvertibile nella letteratura di testimonianza. Per quanto superficiale possa essere, qualunque analisi de La notte di Elie WieseI o di Se questo è un uomo di Primo Levi da una parte, o di La specie umana di Robert Antelme dall'altra basterebbe a mostrare quale abisso separi la vita verso la morte in un campo di lavoro come quello che Antelme descrive meticolosamente - senza pathos aggiuntivo, fenomenologicamente si potrebbe dire ­ da quella evocata da Levi e Wiesel. Per sintetizzare metaforicamente questa differenza, mi sembra che si possa spiegarla in questo modo. In un campo di sterminio - denominazione che bisognerebbe riservare ai campi nazisti in Polonia, quelli del complesso Auschwitz-Birkenau - l'esistenza dei deportati si articola intorno al pericolo, alla paura, alla selezione. Con regolarità, in effetti, alcune categorie di deportati - i più malati, i più inabili al lavoro, o piuttosto coloro che appartenevano a delle categorie votate all'eliminazione - vengono selezionate per la camera a gas. Ma dall'inizio, sin dall’arrivo in uno di questi campi, la lunga corte dei deportati appena scesi dal treno, sulla rampa stessa d'accesso all’ingresso del campo, subisce una prima selezione. Un ufficiale delle Ss, angelo della morte, manda gli uni da una parte, gli altri dall'altra. Dalla parte del campo, dove resta una possibilità, minima ma reale, di sopravvivenza; dalla parte della morte immediata, verso la camera a gas. Questa esperienza di selezione ­ esclusivamente per gli ebrei - nessun deportato della resistenza infatti ha mai dovuto subirla, né dovrà ricordarla - viene aggravata dalle condizioni in cui si svolge. Gli ebrei vengono infatti deportati in gruppo: famiglie, interi villaggi. Le persone che il deportato ebreo vede andare, spinte dal frustino nazista verso un luogo sconosciuto, non sono anonimi, ignoti compagni di un viaggio verso l'ignoto: sono madri, sorelline, nonni anziani. È la carne della propria carne che il deportato vede scomparire verso la camera a gas ­ perché saprà presto che di ciò si tratta. E una domanda lo ossessionerà per tutta la vita, se sopravvivrà alle prove ulteriori: perché a me? Perché a loro? Da qui il sentimento d'ingiustizia, di rivolta unita al senso di colpa che lo accompagnerà forse per sempre. La selezione, che per di più si apre sul glaciale orizzonte della camera a gas, è dunque l'esperienza esistenziale che rende unica la memoria ebraica in un modo tale che il rigore in­tellettuale e la «comune decenza» ca­ra a Orwell non consentono di bana­lizzare. Ecco il trasparente mistero di Israele negli anni terribili dell'Annientamento. Possiamo chiamare «letteratura dei campi» un insieme abbastanza disparato in cui si rintracciano testimonianze dirette, fattuali, puramente enumerative che si contano a migliaia e alle quali bisogna aggiungere qualche decina di tentativi più elaborati di una scrittura che Primo Levi definiva «scrittura filtrata» o «depurata»? Qualunque sia la risposta degli specialisti, se di letteratura si tratta, essa ha un evidente carattere testimoniale. Ora la testimonianza è un genere che solleva domande e che si interroga volentieri. Perché i testimoni, di questi tempi, e soprattutto quelli della deportazione, non godono di buona stampa. In un saggio recente di Regina Waintrater, Uscire dal genocidio, il cui sottotitolo Testimoniare per reimparare a vivere potrebbe essere rovesciato senza perdere né senso né pertinenza teorica: reimparare a vivere per testimoniare, la questione della validità della testimonianza è perfettamente posta: «Allorché il testimone testimonia più vicino possibile alla nuda esperienza si vede accusato di essere troppo coinvolto e dunque troppo soggettivo. Da lì al sospetto non è che un passo e presto superato. Oppure elabora la propria testimonianza, lavorando a renderla più chiara, ed è allora questo riordinare che lo accusa, rendendo il suo racconto troppo distante, quasi costruito. E anche in questo caso, il sospetto non è lontano, per le ragioni inverse a quelle evocate prima...». Si potrebbero scrivere decine di pagine su questo sospetto e sulle sue evoluzioni. Mi limiterò a segnalarne qualcuna. Per prima, la forma negazionista. Da Paul Rassinier, fondatore di una corrente e autore dell'opera chiave La menzogna di Ulisse in poi, la critica di una testimonianza parziale, chiaramente erronea serve a screditare la testimonianza nel suo insieme e di conseguenza lo stesso testimone. Ora, la testimonianza storica delle grandi catastrofi è, dalla Guerra di Troia, a volte appunto «omerica». Esagerare l'orrore del dettaglio per far comprendere l'orrore dell'insieme è una tentazione umana, troppo umana che bisognerebbe evitare a ogni costo nella letteratura testimoniale dei campi nazisti. Dovrebbe, in questo caso specifico, essere una regola morale della scrittura. Poi esiste la forma stalinista del sospetto. Si sa, ma è utile ricordarlo, che per il regime di Stalin, ogni sopravvissuto è oggettivamente colpevole. Così i giovani russi sopravvissuti ai campi nazisti e rimpatriati nel «paradiso del socialismo» hanno fatto direttamente il viaggio dalla Germania centrale al grande Nord siberiano: da Buchenwald o Dachau al gulag della Kolyma. Delle sconvolgenti tracce di questo dramma compaiono nei Racconti di Varlam Salamov. Ma senza dubbio la forma più subdola di sospetto appare di recente, qua o là, in autori assai diversi ma sempre incentrata sullo stesso tema, la deformazione di una frase tagliente, ma concettualmente stupida, dell'ineguagliabile Primo Levi. Secondo lui, noialtri, sopravvissuti per caso o per abilità, non saremmo che falsi testimoni; i veri di quell' esperienza sarebbero morti. Di certo Primo Levi, amante di un pensiero chiaro e netto, razionale, sapeva perfettamente che soltanto i sopravvissuti possono testimoniare. La sua frase incisiva non è che una frase. Perché avrebbe infatti tanto scritto di Auschwitz se fosse stato convinto di essere, in quanto sopravvissuto, un falso testimone? Comunque sia, alcuni, commentando questa rude dichiarazione di Levi, sviluppando alcune terroristiche tesi di Maurice Blanchot sull'indicibile e il disastro della scrittura, gettano il sospetto metafisico sui sopravvissuti, di per sé falsi testimoni. Ma la questione della testimonianza, della letteratura testimoniale dei campi nazisti, ben presto cambierà natura. Tra qualche mese, qualche anno, comunque in un vicinissimo futuro, non ci sarà più memoria personale dei campi. Anche la memoria degli ebrei, la più duratura per definizione in quanto furono migliaia i bambini ebrei deportati e nessun bambino «resistente», anche quella memoria sta per svanire in quanto memoria di sopravvissuti. In quanto memoria, immediata e vivente. Nessuno più, quando noi tutti saremo morti, potrà tentare di richiamare per condividere o lanciare in faccia al mondo, il ricordo dell'adunata d'appello - una qualunque, si somigliavano tutte - alle 5 del mattino, estate e inverno, all' ora in cui si formavano le brigate di lavoro, nel chiasso, nella confusione, tra le urla dei sottoufficiali delle Ss e la musica da circo delle orchestre dei campi. Nell'ora in cui si mostrava la tenace ingegnosità, eroica per un certo verso, disperata in ogni caso, dei solitari scansafatiche, degli sfiniti, dei «musulmani» che cercavano di evitare i lavori più faticosi. Nessuno più potrà avventurarsi a descrivere ciò che erano le infermerie o le baracche degli invalidi; a cercare di far comprendere, almeno di suggerire, attraverso l'artificio della narrazione, l'odore dei forni crematori, i loro nugoli di impalpabile cenere sui campi di Germania e Polonia. E peraltro quale potrebbe essere il ricordo più pregnante dei campi, più emblematico se non questo odore di crematorio, evanescente ma incancellabile; indescrivibile ma riconoscibile tra tutti? Alcuni, probabilmente - la letteratura di secondo piano, di commento - continueranno questo lavoro della memoria. Ma non ce ne sarà più di viva, di vera se la finzione del romanzo non farà suo questo materiale. Ciò che è accaduto è ancora troppo vicino, e troppo sacralizzato da alcuni, perché questa idea, peraltro ovvia, non provochi rigetto e rifiuti, forse anche offesa. Ma non vi è altra via d'uscita, altra possibilità di memoria vivente e capace di arricchirsi incessantemente. In fin dei conti, e senza andare troppo indietro nel tempo, cosa sarebbe stato della memoria della Grande Guerra, le cui conseguenze materiali e morali sono state determinanti per il secolo trascorso, se non se ne fossero impadroniti i romanzieri, se fosse rimasta appannaggio esclusivo degli storici? In ogni modo, il ricorso alla finzione narrativa per prolungare la memoria testimoniale, esaurita, spesso chiusa, non sarebbe che un ritorno alle origini. Il primo grande libro sull' esperienza concentrazionaria, I giorni della nostra morte di David Rousset, è in effetti un romanzo. Dal suo ritorno dalla deportazione, subito dopo aver pubblicato un breve acuto saggio, L'universo concentrazionario, David Rousset scelse, con audacia inaudita, la forma romanzata di una scrittura polifonica per cogliere l'esperienza della vita mortifera e della resistenza nel campo, in una visione d'insieme fondata non soltanto sulla propria esperienza di deportato ma in egual misura su una assai ricca inchiesta documentaria. Così I giorni della nostra morte grande libro complesso e caotico, nel quale vengono poste - e spesso risolte - tutte le domande che da allora hanno occupato i commentatori, capolavoro della letteratura dei campi, non ha avuto il pubblico di lettori che meritava. La sordità della società era ancora troppo forte nel 1947? La forma romanzata ha scioccato, è sembrata minare la validità della testimonianza? Queste domande, altre ancora, più precise, dovrebbero emergere dalla lettura di questo libro fondamentale e misconosciuto. «È attraverso il quadro di Goya che le esecuzioni del Tres de Mayo resistono, è attraverso il quadro di Picasso che conserviamo memoria del bombardamento di Guernica», scrive Rachel Ertel nell'ottimo saggio che ho già citato. Si potrebbero, in questo senso, aggiungere altri esempi. Il libro che perpetuerà la memoria della deportazione, dell'Annientamento, sarà uno di quelli che si inserivano nell'ordine della testimonianza? O piuttosto bisognerà che la scrittura testimoniale sia esaurita affinché la finzione narrativa crei quest'opera emblematica? È una questione aperta sul futuro di questa antica morte. E, sia chiaro, non è soltanto una questione letteraria: è anche una questione storica e politica.

Dal numero speciale Memoria della  Shoah del Nouvel Observateur (dicembre 2003/gennaio 2004)

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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