Diario
L’incauta
zia C. J.
Era
una ragazza ebrea bella, ingenua, con una vitalità esuberante, e per questo finì
ad Auschwitz. Riuscì ad uscirne, per scoprire che la famiglia l’avrebbe
difficilmente perdonata
di Roberto Finzi
«La
memoria non è un'entità stabile, immutabile nel tempo, impervia a successive
contaminazioni e ristrutturazioni». Alberto
Oliviero - Ricordi
individuali, memorie collettive, Torino
1994
Ouverture.
C'è un film Il portiere di notte
di
Liliana Cavani – che da oltre un quarto di secolo ho sempre accuratamente
evitato di vedere. Tanto - ho negli anni argomentato, soprattutto con me
stesso - il succo di quella storia l'avevo «visto in presa diretta» e ne ero
stato una delle figure di contorno. Sapevo e so che è un esorcismo, per non
guardare oltre il ciglio e vedere il gorgo dove ancor oggi pulsa una storia
familiare «irrisolta». O anche, e al contrario - mi sono chiesto e mi chiedo
sempre più spesso - per
darle una soluzione
tranquillizzante, rendere lineare un percorso che tale non parrebbe davvero. La
storia è quella di C.J., la cui vecchiaia si sta consumando nell’apparente
serenità d'un luogo turistico della costa californiana. Una zia, C.J., che
lungo gli oltre sessanta anni della mia vita ho visto sì e no due o tre decine
di volte, spesso in maniera rapida. E tuttavia una presenza sempre incombente.
Il ricordo più vivace che ho di lei è legato all'Eden della mia infanzia: la
Valle del Lognola, un vero e proprio rigagnolo ricolmo però di luoghi
misteriosi
e affascinanti, nell'Appennino bolognese fra Loiano e Monghidoro, a destra, procedendo
verso Firenze, della statale della Futa. Là ci eravamo salvati; là bambino
tornavo l'estate nella casa dei mezzadri che durante guerra e persecuzione ci
avevano accolti e protetti; là era ancora vitale - e lo sarebbe stato per pochi
anni ancora - un universo agricolo che poi, adulto, avrei ritrovato nelle
pagine degli agronomi non ottocenteschi, ma del secolo XVI e precedenti. Buoi,
vacche, carri, attrezzi per buona parte ancora in legno. La modernità irrompeva
una volta all'anno con la trebbiatrice: giungeva sul far della sera, preceduta
d'un tempo che pareva lunghissimo dallo sferragliare del trattore che la
trainava e le forniva energia. Se sulla strada nazionale, a un paio di
chilometri di distanza, le automobili erano una presenza costante e crescente,
giù nella piccola valle erano una rarità; la sera le stanze erano illuminate
da fioche candele; nella grande cucina forniva la luce una lampada «a
carburo»,
all'acetilene. Là, all'improvviso, un certo giorno di non so quale estate,
comparve C.J. E rimasi a bocca aperta. Non solo sull’Appennino, ma né a
Sansepolcro dove ero nato ed ero tornato nel tardo 1944 né a Bologna, dove ci
eravamo stabiliti in via definitiva nel 1946, né a Galliera - nella Bassa -
dove abitavano i nonni materni, insomma in nessun luogo del mondo a me noto
avevo mai visto una donna in calzoni. C.J. mi svelò d'un colpo che quel simbolo
di mascolinità poteva essere
usato anche da una femmina». Portava
quei calzoni anni Quaranta, larghi e morbidi che poi avrei visto nei film
americani superbamente indossati dalle dive del cinema e, per tutte e
sopra tutte da Katharine Hepburn. Quella rivelazione, piena di suggestioni, non
l'ho più scordata. Non rammento invece molti particolari del giorno -
si era, credo, nel 1946 - in cui
C.J. tornò, sopravvissuta da Auschwitz. Se i particolari sono sfocati
intatta è l'emozione. Qualcosa sapevo - di morti e orrori - ed ero agitato di
vedere quella zia tornata da luoghi così brutti. E poi … i grandi - mio
padre, soprattutto - piangevano,
sembravano incapaci di potere smettere di farlo, e io da sotto in su, in
quell'intrico di gambe, sentivo come un peso e una liberazione, a un tempo. Meno
vivace e preciso, è questo però il ricordo più intenso che ho di lei. Poi ...
ma è venuto il momento di raccontare in modo ordinato la storia così come io
l'ho saputa, introiettata, insomma: vissuta. Un’ordinaria storia di sterminio.
La tragedia si era consumata il 19 marzo 1944. Fu quello il giorno in cui prima
CJ. e poche ore dopo i suoi genitori, miei nonni paterni, vennero arrestati a
Bologna da nazisti e repubblichini insieme. Portati nel carcere di San Giovanni
in Monte vennero in seguito trasferiti a Fossoli. Di qui partirono per Auschwitz
il 16 maggio. Furono stipati nel convoglio che -
ha ricordato Liliana Picciotto
- fra tutti impiegò più tempo ad arrivare al campo di sterminio. Vi giunsero
i1 23 maggio, ultimo giorno di vita dei nonni subito avviati alla camera a gas.
C.J., una bellezza ventitreenne dai capelli rossi, gli occhi verdi e la pelle
candida fu risparmiata. Della vita del lager e di come sia
riuscita a sopravvivere in casa non si è mai parlato. Sono certo che quando
ricomparve, lei raccontò. Allora però non ero ammesso a sentire. E dopo nulla
mi fu raccontato né io nulla chiesi.
Qualche frammento mi arrivò, molto
presto, ma non saprei più
dire da chi. E mi si piantò in testa come una pallottola. Ai prigionieri, a un
dato punto, non era stato dato più niente, nemmeno da bere e allora, avendo
piovuto, si gettarono avidi su di una grande pozza che, spenta la loro arsura,
si rivelò piena di cadaveri. Mentre i russi s'avvicinavano e i nazisti
cercavano febbrilmente di fare sparire le prove del massacro degli ebrei, una «politica»
era morta nella baracca di C.J. e lei con prontezza ne aveva indossato la
divisa. Così, quando i tedeschi fecero partire i non ebrei lei poté far parte
della lunga colonna che s'allontanava dal campo (ma qui la memoria familiare
pare divergere dalle carte poi compulsate dai ricercatori storici). La marcia
era sfibrante, il cibo quasi inesistente, chi si fermava era perduto, abbattuto
seduta stante con un colpo alla nuca. Di C.J. si era preso cura una SS che le
allungava un po' di pane, forse qualche sorso di minestra calda. Era preso da
quella giovane. La intuiva bella o C.J. aveva mantenuto le sue grazie e come?
L'aveva forse conosciuta e posseduta prima? Si sa solo delle sue attenzioni e
della sua fine. Sorpreso a passare qualcosa a C.J. fu assassinato seduta
stante da un superiore di fronte agli occhi di lei, ancora capaci di pietà o
ormai in grado solo di registrare l’orrore e il sollievo di essere una volta
ancora sopravvissuta? Decimata, la colonna arrivò sul Baltico; lì i pochi
rimasti furono scambiati con prigionieri tedeschi tramite la Croce Rossa
Svedese. C.J. fu accolta da una famiglia in Svezia. Una terribile ma ordinaria
storia di Shoah. Con un che di meno usuale nel prologo e nel lungo epilogo del
dopoguerra. C.J. e la sua famiglia erano di Trieste, d'una schiatta di ebrei
commercianti di Ferrara migrati nei primi decenni
del secolo XIX dallo Stato pontificio, ancora ammorbato da leggi discriminatorie
nei confronti degli ebrei, verso
i più tolleranti lidi del litorale asburgico. Nel tempo si erano sentiti sempre
più italiani e irredentisti e sempre meno ebrei mentre diversificavano le loro
attività anche per mantenere unita e solida la «ditta». Il padre di C.J. - il
maggiore della seconda generazione dei nati a Trieste - era così divenuto uno
stimato maestro elementare e degli altri quattro fratelli, se due praticavano
ancora il commercio, uno era professore di violino nell’orchestra del Teatro
Verdi e uno era docente di lettere classiche nei licei. Durante la Grande
guerra qualcuno dei ragazzi era accorso volontario e anche il vecchio patriarca
- mi par di ricordare - aveva scelto, con la moglie «grega», che per sposarlo
da ortodossa s'era fatta ebrea, di trascorrere i tempi del conflitto e
aspettarne la conclusione in terra italiana. Mio nonno, padre di C.J., era già
ammogliato e aveva due figli maschi in tenera età; per questo era rimasto a
Trieste ma poi - vogliono le memorie concordanti dei due figli maschi -
era stato fra i primi a
simpatizzare per il movimento fascista. Se ne era però staccato : - secondo la
testimonianza del primogenito - dopo l'assassinio di Matteotti. Forse afascista,
amava l'ordine, era patriota ed era soddisfatto che il Paese sapesse farsi
valere nel mondo. Secondo quanto poi fu sempre raccontato, la famiglia si divise
nel giudizio sull'uragano del 1938. I figli maschi, ormai uomini e laureati
furono
i più preveggenti. Il più anziano, tiepidamente sionista, e per il patrimonio
della moglie in grado di migrare ufficialmente, partì per la Palestina, da
cui poi tornò alla vigilia o al momento della proclamazione dello Stato
d’Israele, evitando in tal modo ben due guerre. Il secondogenito, mio padre,
aveva studiato a Bologna a stretto contatto con molti studenti ebrei provenienti
dal centro e dall'est Europa, presenza frutto della fase «filosionista», per
così dire, del cavalier Benito Mussolini. Da loro aveva sentito molti racconti
d'antisemitismo ordinario e straordinario. E ne aveva vissuto qualche traumatica
esperienza concreta. Come quella della rottura per motivi «razziali» d'una
intensa storia d'amore (per uno almeno dei protagonisti): al momento dell'ascesa
di Hitler al potere lei, tedesca, aveva seccamente troncato perché lui, di
nazionalità ceca, era ebreo, cosa che la ragazza sapeva benissimo fin dal primo
momento. Una vicenda per molti versi simile accadde poi al momento
dell'Anschluss nel marzo 1938 a una delle «viennesi», due sorelle della nonna
che nell’ex capitale imperiale abitavano da decenni. La più giovane delle
due rimasta vedova, ancora quasi ragazza, di un funzionario della direzione
del partito socialdemocratico austriaco aveva trovato da lavorare quale
bibliotecaria in una istituzione culturale popolare socialista. E lì aveva
intrecciato una relazione con un tranviere, militante della Spö. Al momento
dell'invasione nazista aveva perso i contatti con quel suo uomo e, disperata,
temeva gli fosse successo qualcosa di grave. Quando, casualmente, lo vide in
lontananza in una strada gli si gettò incontro, sollevata e felice. E lui di
contro, mostrando la croce uncinata che portava all'occhiello: «Vattene puttana
ebrea!». Non fu dunque difficile per mio padre credere a questo e ai molti
altri racconti di persecuzione delle «viennesi», che erano potute ritornare in
Italia senza particolari
difficoltà perché l'una - la più anziana, nubile e molto benestante - aveva
sempre mantenuto la cittadinanza italiana e l'altra per via di un matrimonio
proforma con un Ascoli poi scomparso. Secondo la memoria familiare, il nonno le
interpretò come esagerazioni di «babe» un po' isteriche … E dire che
Trieste, «porta di Sion», aveva visto passare migliaia e migliaia di profughi
ebrei, che le loro storie non avevano taciuto. Ma l'Italia era un'altra cosa! Il
nonno, la nonna e con essi C.J. - come molti e troppi ebrei italiani -
all'emanazione dei provvedimenti antiebraici del 1938 s'illusero, vollero
illudersi che si sarebbe trattato di un temporale passeggero, che - tutto
sommato - si sarebbe permesso agli ebrei italiani di evitare il rigore della
persecuzione se solo avessero fatto qualche gesto di buona volontà, abbastanza
innocuo per persone la cui appartenenza all'ebraismo era più che altro un
omaggio alla tradizione dei maggiori. Così nonno, nonna, C.J. e pure l'assai
più scettico mio padre, per la pietà o l'interesse di qualche sacerdote
cattolico, si procurarono un certificato di battesimo, regolarmente
retrodatato. Una «apertura di credito» al regime cui i nonni e la loro figlia
convivente rimasero aggrappati a lungo, persino,
sotto certi versi, all'indomani dell'occupazione nazista. Certo, il pericolo
esisteva, ma veniva dai tedeschi, ché fra gli italiani solo qualche esagitato
li seguiva. A Trieste però la situazione diveniva di giorno in giorno più
pericolosa. Così il maestro decise di raggiungere assieme alla moglie e alla
figlia le «viennesi» che avevano trovato rifugio sulla costa romagnola nei
pressi di Viserba. Pure lì ben presto le cose si complicarono. A questo punto
il gruppo si divise: le zie di Vienna trovarono un altro rifugio sopra Porretta
Tenne, dove trascorsero il tempo che le separava dalla Liberazione; i nonni
furono ospitati nella casa alla periferia di Bologna di un cugino, sfollato, di
mia madre, moglie del loro figlio di mezzo. E C.J.? Qualcuno - non saprei dire
chi - evidentemente pensò che due anziani coniugi «forestieri» avrebbero
dato meno nell'occhio se soli, non accompagnati da una giovane e bella donna. Fu
così che attraverso un complicato giro di conoscenze e complicità (in cui
entravano pure famiglie tagliate a metà dalla situazione italiana perché un
figlio aveva scelto la Resistenza e l'altro Salò) C.J. venne sistemata a
Suzzara presso delle suore che avevano un collegio per ragazzine. C.J. poteva
passare per loro istitutrice, e in parte anche farlo. Le buone monachelle la
mandavano a sorvegliare le ragazze quando queste uscivano a passeggiare. Lungo
quelle strade di campagna, sotto il
grande argine del Po, un giovane
cominciò a corteggiare C.J., che non fu
insensibile
alle sue attenzioni e gli si concesse - si raccontava in famiglia con evidente
riprovazione non di rado (era mia madre a primeggiarvi) accompagnata da
adeguate, crasse espressioni sulla sua morale sessuale. Nell' intimità di
momenti strappati alla sorveglianza delle suore non seppe tacere la sua vera
storia a quel dolce giovane italiano... che aveva scelto d'essere confidente
dei nazisti. I tedeschi arrivarono al convento. Lo perquisirono meticolosamente
mettendolo a soqquadro da cima a fondo. Quel luogo di preghiera e di studio
seppe però custodire il suo segreto. Come in qualsiasi racconto di conventi che
si rispetti c'era un anfratto noto solo alle suore che riuscì a proteggere C.J.
Il suo nascondiglio però era ormai bruciato. Doveva andarsene. E dove se non
dai genitori con cui aveva sempre vissuto? Le suore l'accompagnarono a Parma.
Qui salì sul treno per Bologna. Le linee erano sconvolte dai
bombardamenti e dagli attentati della Resistenza, gli orari inesistenti, si
restava fermi sui binari in attesa, una volta o l'altra si sarebbe partiti. Il
tempo scorreva lento, la noia cresceva. A un certo momento un distinto signore
rivolge la parola a C.J.; fra una chiacchiera e l'altra la invita a prendere
qualcosa al caffè della stazione. Perché mai rifiutare? Scendono e mentre C.J.,
sorseggiando qualcosa, minuetta con quel nuovo corteggiatore il treno
d'improvviso parte con su tutto il bagaglio di C.J. «Ingenuamente» - si leggerà
in una dichiarazione postbellica della più giovane delle «viennesi» conservata
nel fondo di prefettura dell’Archivio di Stato di Bologna – C.J.,
agitatissima per la perdita delle sue cose, si reca al posto di polizia
ferroviaria per denunciare il fatto. Il bagaglio è recuperato a Borgo
Panigale, dove il treno si ferma per i danni subiti dalla stazione centrale di
Bologna. Inconsapevole in modo assolutamente incredibile della sua situazione
C.J., quando a sua volta giunge a Bologna, si presenta per reclamarli esibendo i
documenti di cui è in possesso: falsi e intestati a una persona inesistente.
Non ci vuole molto a chi li esamina per scoprire che non sono autentici. Fino a
quel momento scherzosi e un po' galanti, tedeschi e repubblichini si fanno
minacciosi: la percuotono, la spogliano, le spengono addosso qualche cicca di
sigaretta. Sospettano possa trattarsi di un partigiana e glielo gridano in
faccia. Lei è sollevata e li rassicura: macché partigiana! È solo una ragazza
ebrea che sta cercando di raggiungere i genitori nascosti nel tal posto
sotto il tal nome; ha anche - continua
- due fratelli,
uno nascosto sull'Appennino bolognese in
una località a lei ignota, l'altro emigrato in Palestina. Quando si rese
conto di quel che aveva realmente fatto? Le molte volte che le sentii
rinfacciare, specie da mia madre, questa vicenda lei si chiudeva sempre in un
ostinato mutismo. Il ritorno fu
lento. Liberata, presa in
consegna dalla Croce Rossa svedese fu
poi accolta da una
famiglia, di non so più quale città di quel Paese. La tradizione orale
familiare vuole che da quella casa che
l'aveva accolta come una figlia fu
allontanata perché trovata a
letto con il capo della famiglia che l'ospitava. Evidente riprova - che lo si
dicesse in modo aperto o meno poco importa - della sua assoluta amoralità.
Insomma, commentavano per lo più mia madre e mia nonna materna, era una «troia»
congenita. Divenuto adulto e conosciuto il sesso anche quest'episodio della vita
narrata di quell'ingombrante zia mi cominciò a porre degli interrogativi: era
stata un'inarrestabile eruzione di vitalità dopo una così lunga convivenza
con la morte? Era stato bisogno di amore o forse il solo modo che il lager le
aveva lasciato nella testa per esprimere riconoscenza? O, ancora, una sorta di
automatica sottomissione per sopravvivere comunque? La sua, la nostra famiglia
la riaccolse. Forse più in modo istintivo che per e con vera pietas. In
realtà, ch'io mi ricordi, mai ci si preoccupò di scavare oltre gli orrori
dei suoi pochi, scarni e faticosi racconti. Forse non poteva darsi altrimenti.
Appena tornata si fece asportare il numero, il marchio impressole
sull'avambraccio nel lager. Poi, per poco, visse con noi e a ogni istante
incombeva lo scoppio di una lite con l'inevitabile, inutile e doloroso corteo di
recriminazioni. Partì per Roma per frequentare una scuola per infermiere,
indirizzatavi - credo - da mio padre, medico. Forse aveva potuto darle una mano
per entrare, soprattutto era certo d'instradarla a un lavoro che, come era
stato per lui durante la guerra, non l'avrebbe mai «lasciata per strada».
Diplomatasi, tornò a Trieste nella casa
in cui aveva vissuto con i genitori. In quegli anni, ch'io ricordi, la
si vedeva poco. A volte arrivavano sue lettere scritte con una inconfondibile
grafia larga: il loro contenuto non veniva «socializzato». Un poco più spesso
la si vide dal 1955 in poi: Trieste era tornata all'Italia e lei si era
trasferita a Milano dipendente, mi pare, dell’Inps. Intanto ero cresciuto e mi
ero fatto meno ignaro di quanto era in concreto successo nei campi di sterminio.
Cominciai così a guardarla, le poche volte che la vedevo, con uno sguardo meno
ingenuo. Urgevano molte domande. Mai, però, seppi esplicitarle né con lei né
con mio padre. Oggi tendo ad attribuire a questo mio rimuginare - che si sfogava
in precoci letture storiche (ma non di memorialistica che mi provocava emozioni
insopportabili) - l'essere stato meno colpito dei miei a un annuncio INAUDITO.
Forse però fu semplicemente
per giovanile distrazione,
perduto come ero nei primi amori e nella prima scoperta dell'emozione del
conoscere. Fu, direi, nella seconda metà degli anni Cinquanta. Un giorno arrivò
da Milano con l'annuncio del suo prossimo matrimonio. Quando cominciò a dire
del futuro sposo l'aria si raffreddò: era uno squattrinato violinista di poco
talento che sbarcava il lunario suonando in orchestrine da caffé. Ogni fiato
si sospese e la tensione divenne via via più insostenibile allorché ne
pronunciò il nome e ne raccontò la storia: un cognome tedesco, di un
altoatesino che aveva optato per la Germania hitleriana e aveva servito, fu poi
sostenuto sempre da mio padre, nelle SS. Dopo lo sconcerto, inevitabili pianti e
altrettanto inevitabili maledizioni nel nome dei poveri nonni, una volta di più
trionfò una rassegnata, ma equivoca, accettazione del fatto compiuto. Per un
po' di tempo comparve quindi saltuariamente a casa quel nuovo zio Fritz: non è
una boutade, si chiamava proprio così. Il matrimonio naufragò
rapidamente, con non celata soddisfazione specie di mia madre. Ancora una volta C.J. si salvò, sia pure da una situazione incomparabilmente meno terribile.
Fritz, per la sua opzione hitleriana, aveva perso la cittadinanza italiana né
la Germania gli aveva riconosciuto la propria: era dunque apolide. A un certo
momento però il governo di Bonn decise di accogliere quei figli della Germania
per scelta. Divenuto cittadino tedesco, Fritz ottenne il divorzio. Un giudice
milanese, allora famoso e di cui ho dimenticato il nome, deliberò la sentenza
in Italia. E nell'Italia in cui sui giornali laici comparivano battute satiriche
del tipo beatus monogamus in terra pretorum C.J. tornò a essere libera.
Da vincoli matrimoniali. Continuava a comparire di quando in quando a casa
nostra, mai in realtà bene accolta nel profondo dai miei. In occasione di un
viaggio a Milano - direi
fosse il 1961 - andai
a trovarla: in un anonimo monolocale dove i suoi racconti, rassegnati, mi fecero
intravedere brevi, spesso furtivi e fors’anche un po' sordidi, amori,
suggellati da modesti doni, di una donna ormai quarantenne, sul cui volto i
segni della vita si cominciavano a leggere senza difficoltà. Tornando da quella
visita non riuscivo a smettere di chiedermi cosa avesse subito nel lager una
donna giovane e indubbiamente bella. Forse era stata usata in un postribolo,
forse era stata scelta come cavia per qualche esperimento. Conclusi che la
sterilità dei suoi diversi amori
non doveva essere casuale. Se per devastazioni
fisiche o psichiche non lo sapevo allora e non lo so oggi. L'epilogo non ha
termine con questa struggente luce di tramonto. Ha ancora un capitolo,
mirabolante. Quando ci veniva a trovare arrivava per lo più nel tardo
pomeriggio, cenava con noi e poi si chiacchierava, in un'atmosfera sempre di
percepibile tensione.
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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione |