Diario

L’incauta zia C. J.

Era una ragazza ebrea bella, ingenua, con una vitalità esuberante, e per questo finì ad Auschwitz. Riuscì ad uscirne, per scoprire che la famiglia l’avrebbe difficilmente perdonata

di Roberto Finzi

 

«La memoria non è un'entità stabile, immutabile nel tempo, impervia a successive contaminazioni e ristrutturazioni». Alberto Oliviero - Ricordi individuali, memorie collettive, Torino 1994

Ouverture. C'è un film ­ Il portiere di notte di Liliana Cavani – che da oltre un quarto di secolo ho sempre accuratamente evitato di vedere. Tanto - ho negli anni argomentato, soprattutto con me stesso - il succo di quella storia l'avevo «visto in presa diretta» e ne ero stato una delle figure di contorno. Sapevo e so che è un esorcismo, per non guardare oltre il ciglio e vedere il gorgo dove ancor oggi pulsa una storia familiare «irrisolta». O anche, e al contrario - mi sono chiesto e mi chiedo sempre più spesso - per darle una soluzione tranquillizzante, rendere lineare un percorso che tale non parrebbe davvero. La storia è quella di C.J., la cui vecchiaia si sta consumando nell’apparente serenità d'un luogo turistico della costa californiana. Una zia, C.J., che lungo gli oltre sessanta anni della mia vita ho visto sì e no due o tre decine di volte, spesso in maniera rapida. E tuttavia una presenza sempre incombente. Il ricordo più vivace che ho di lei è legato all'Eden della mia infanzia: la Valle del Lognola, un vero e proprio rigagnolo ricolmo però di luoghi misteriosi e affascinanti, nell'Appennino bolognese fra Loiano e Monghidoro, a destra, procedendo verso Firenze, della statale della Futa. Là ci eravamo salvati; là bambino tornavo l'estate nella casa dei mezzadri che durante guerra e persecuzione ci avevano accolti e protetti; là era ancora vitale - e lo sarebbe stato per pochi anni ancora - un universo agricolo che poi, adulto, avrei ritrovato nelle pagine degli agronomi non ottocenteschi, ma del secolo XVI e prece­denti. Buoi, vacche, carri, attrezzi per buona parte ancora in legno. La modernità irrompeva una volta all'anno con la trebbiatrice: giungeva sul far della sera, preceduta d'un tempo che pareva lunghissimo dallo sferragliare del trattore che la trainava e le forniva energia. Se sulla strada nazionale, a un paio di chilometri di distanza, le automobili erano una presenza costante e crescente, giù nella piccola valle erano una rarità; la sera le stanze erano illuminate da fioche candele; nella grande cucina forniva la luce una lampada «a carburo», all'acetilene. Là, all'improvviso, un certo giorno di non so quale estate, comparve C.J. E rimasi a bocca aperta. Non solo sull’Appennino, ma né a Sansepolcro dove ero nato ed ero tornato nel tardo 1944 né a Bologna, dove ci eravamo stabiliti in via definitiva nel 1946, né a Galliera - nella Bassa - dove abitavano i nonni materni, insomma in nessun luogo del mondo a me noto avevo mai visto una donna in calzoni. C.J. mi svelò d'un colpo che quel simbolo di  mascolinità poteva essere usato anche da una femmina». Portava quei calzoni anni Quaranta, larghi e morbidi che poi avrei visto nei film  americani superbamente indossati dalle dive del cinema e, per tutte e sopra tutte da Katharine Hepburn. Quella rivelazione, piena di suggestioni, non l'ho più scordata. Non rammento invece molti particolari del giorno - si era, credo, nel 1946 - in cui  C.J. tornò, sopravvissuta da Auschwitz. Se i particolari sono sfocati intatta è l'emozione. Qualcosa sapevo - di morti e orrori - ed ero agitato di vedere quella zia tornata da luoghi così brutti. E poi … i grandi - mio padre, soprattutto - piangevano, sembravano incapaci di potere smettere di farlo, e io da sotto in su, in quell'intrico di gambe, sentivo come un peso e una liberazione, a un tempo. Meno vivace e preciso, è questo però il ricordo più intenso che ho di lei. Poi ... ma è venuto il momento di raccontare in modo ordinato la storia così come io l'ho saputa, introiettata, insomma: vissuta. Un’ordinaria storia di sterminio. La tragedia si era consumata il 19 marzo 1944. Fu quello il giorno in cui prima CJ. e poche ore dopo i suoi genitori, miei nonni paterni, vennero arrestati a Bologna da nazisti e repubblichini insieme. Portati nel carcere di San Giovanni in Monte vennero in seguito trasferiti a Fossoli. Di qui partirono per Auschwitz il 16 maggio. Furono stipati nel convoglio che - ha ricordato Liliana Picciotto - fra tutti impiegò più tempo ad arrivare al campo di sterminio. Vi giunsero i1 23 maggio, ultimo giorno di vita dei nonni subito avviati alla camera a gas. C.J., una bellezza ventitreenne dai capelli rossi, gli occhi verdi e la pelle candida fu risparmiata. Della vita del lager e di come sia riuscita a sopravvivere in casa non si è mai parlato. Sono certo che quando ricomparve, lei raccontò. Allora però non ero ammesso a sentire. E dopo nulla mi fu raccontato né io nulla chiesi. Qualche frammento mi arrivò, molto presto, ma non saprei più dire da chi. E mi si piantò in testa come una pallottola. Ai prigionieri, a un dato punto, non era stato dato più niente, nemmeno da bere e allora, avendo piovuto, si gettarono avidi su di una grande pozza che, spenta la loro arsura, si rivelò piena di cadaveri. Mentre i russi s'avvicinavano e i nazisti cercavano febbrilmente di fare sparire le prove del massacro degli ebrei, una «politica» era morta nella baracca di C.J. e lei con prontezza ne aveva indossato la divisa. Così, quando i tedeschi fecero partire i non ebrei lei poté far parte della lun­ga colonna che s'allontanava dal campo (ma qui la memoria familiare pare divergere dalle carte poi compulsate dai ricercatori storici). La marcia era sfibrante, il cibo quasi inesistente, chi si fermava era perduto, abbattuto seduta stante con un colpo alla nuca. Di C.J. si era preso cura una SS che le allungava un po' di pane, forse qualche sorso di minestra calda. Era preso da quella giovane. La intuiva bella o C.J. aveva mantenuto le sue grazie e come? L'aveva forse conosciuta e posseduta prima? Si sa solo delle sue attenzioni e della sua fine. Sorpreso a passare qualcosa a C.J. fu assassinato seduta stante da un superiore di fronte agli occhi di lei, ancora capaci di pietà o ormai in grado solo di registrare l’orrore e il sollievo di essere una volta ancora sopravvissuta? Decimata, la colonna arrivò sul Baltico; lì i pochi rimasti furono scambiati con prigionieri tedeschi tramite la Croce Rossa Svedese. C.J. fu accolta da una famiglia in Svezia. Una terribile ma ordinaria storia di Shoah. Con un che di meno usuale nel prologo e nel lungo epilogo del dopoguerra. C.J. e la sua famiglia erano di Trieste, d'una schiatta di ebrei commercianti di Ferrara migrati nei primi decenni del secolo XIX dallo Stato pontificio, ancora ammorbato da leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, verso i più tolleranti lidi del litorale asburgico. Nel tempo si erano sentiti sempre più italiani e irredentisti e sempre meno ebrei mentre diversificavano le loro attività anche per mantenere unita e solida la «ditta». Il padre di C.J. - il maggiore della seconda generazione dei nati a Trieste - era così divenuto uno stimato maestro elementare e degli altri quattro fratelli, se due praticavano ancora il commercio, uno era professore di violino nell’orchestra del Teatro Verdi e uno era docente di lettere classiche nei licei. Durante la Grande guerra qualcuno dei ragazzi era accorso volontario e anche il vecchio patriarca - mi par di ricordare - aveva scelto, con la moglie «grega», che per sposarlo da ortodossa s'era fatta ebrea, di trascorrere i tempi del conflitto e aspettarne la conclusione in terra italiana. Mio nonno, padre di C.J., era già ammogliato e aveva due figli maschi in tenera età; per questo era rimasto a Trieste ma poi - vogliono le memorie concordanti dei due figli maschi - era stato fra i primi a simpatizzare per il movimento fascista. Se ne era però staccato : - secondo la testimonianza del primogenito - dopo l'assassinio di Matteotti. Forse afascista, amava l'ordine, era patriota ed era soddisfatto che il Paese sapesse farsi valere nel mondo. Secondo quanto poi fu sempre raccontato, la famiglia si divise nel giudizio sull'uragano del 1938. I figli maschi, ormai uomini e laureati furono i più preveggenti. Il più anziano, tiepidamente sionista, e per il patrimonio della moglie in grado di migrare ufficialmente, partì per la Palestina, da cui poi tornò alla vigilia o al momento della proclamazione dello Stato d’Israele, evitando in tal modo ben due guerre. Il secondogenito, mio padre, aveva studiato a Bologna a stretto contatto con molti studenti ebrei provenienti dal centro e dall'est Europa, presenza frutto della fase «filosionista», per così dire, del cavalier Benito Mussolini. Da loro aveva sentito molti racconti d'antisemitismo ordinario e straordinario. E ne aveva vissuto qualche traumatica esperienza concreta. Come quella della rottura per motivi «razziali» d'una intensa storia d'amore (per uno almeno dei protagonisti): al momento dell'ascesa di Hitler al potere lei, tedesca, aveva seccamente troncato perché lui, di nazionalità ceca, era ebreo, cosa che la ragazza sapeva benissimo fin dal primo momento. Una vicenda per molti versi simile accadde poi al momento dell'Anschluss nel marzo 1938 a una delle «viennesi», due sorelle della nonna che nell’ex capitale imperiale abitavano da decenni. La più giovane delle due rimasta vedova, ancora quasi ragazza, di un funzionario della direzione del partito socialdemocratico austriaco aveva trovato da lavorare quale bibliotecaria in una istituzione culturale popolare socialista. E lì aveva intrecciato una relazione con un tranviere, militante della Spö. Al momento dell'invasione nazista aveva perso i contatti con quel suo uomo e, disperata, temeva gli fosse successo qualcosa di grave. Quando, casualmente, lo vide in lontananza in una strada gli si gettò incontro, sollevata e felice. E lui di contro, mostrando la croce uncinata che portava all'occhiello: «Vattene puttana ebrea!». Non fu dunque difficile per mio padre credere a questo e ai molti altri racconti di persecuzione delle «viennesi», che erano potute ritornare in Italia senza particolari difficoltà perché l'una - la più anziana, nubile e molto benestante - aveva sempre mantenuto la cittadinanza italiana e l'altra per via di un matrimonio proforma con un Ascoli poi scomparso. Secondo la memoria familiare, il nonno le interpretò come esagerazioni di «babe» un po' isteriche … E dire che Trieste, «porta di Sion», aveva visto passare migliaia e migliaia di profughi ebrei, che le loro storie non avevano taciuto. Ma l'Italia era un'altra cosa! Il nonno, la nonna e con essi C.J. - come molti e troppi ebrei italiani - all'emanazione dei provvedimenti antiebraici del 1938 s'illusero, vollero illudersi che si sarebbe trattato di un temporale passeggero, che - tutto sommato - si sarebbe permesso agli ebrei italiani di evitare il rigore della persecuzione se solo avessero fatto qualche gesto di buona volontà, abbastanza innocuo per persone la cui appartenenza all'ebraismo era più che altro un omaggio alla tradizione dei maggiori. Così nonno, nonna, C.J. e pure l'assai più scettico mio padre, per la pietà o l'interesse di qualche sacerdote cattolico, si procurarono un certificato di battesimo, regolarmente retrodatato. Una «apertura di credito» al regime cui i nonni e la loro figlia convivente rimasero aggrappati a lungo, persino, sotto certi versi, all'indomani dell'occupazione nazista. Certo, il pericolo esisteva, ma veniva dai tedeschi, ché fra gli italiani solo qualche esagitato li seguiva. A Trieste però la situazione diveniva di giorno in giorno più pericolosa. Così il maestro decise di raggiungere assieme alla moglie e alla figlia le «viennesi» che avevano trovato rifugio sulla costa romagnola nei pressi di Viser­ba. Pure lì ben presto le cose si complicarono. A questo punto il gruppo si divise: le zie di Vienna trovarono un altro rifugio sopra Porretta Tenne, dove trascorsero il tempo che le separava dalla Liberazione; i nonni furono ospitati nella casa alla periferia di Bologna di un cugino, sfollato, di mia madre, moglie del loro figlio di mezzo. E C.J.? Qualcuno - non saprei dire chi - evidentemente pensò che due anziani coniugi «forestieri» avrebbero dato meno nell'occhio se soli, non accompagnati da una giovane e bella donna. Fu così che attraverso un complicato giro di conoscenze e complicità (in cui entravano pure famiglie tagliate a metà dalla situazione italiana perché un figlio aveva scelto la Resistenza e l'altro Salò) C.J. venne sistemata a Suzzara presso delle suore che avevano un collegio per ragazzine. C.J. poteva passare per loro istitutrice, e in parte anche farlo. Le buone monachelle la mandavano a sorvegliare le ragazze quando queste uscivano a passeggiare. Lungo quelle strade di campagna, sotto il grande argine del Po, un giovane cominciò a corteggiare C.J., che non fu insensibile alle sue attenzioni e gli si concesse - si raccontava in famiglia con evidente riprovazione non di rado (era mia madre a primeggiarvi) accompagnata da adeguate, crasse espressioni sulla sua morale sessuale. Nell' intimità di momenti strappati alla sorveglianza delle suore non seppe tacere la sua vera storia a quel dolce giovane italiano... che aveva scelto d'essere confidente dei nazisti. I tedeschi arrivarono al convento. Lo perquisirono meticolosamente mettendolo a soqquadro da cima a fondo. Quel luogo di preghiera e di studio seppe però custodire il suo segreto. Come in qualsiasi racconto di conventi che si rispetti c'era un anfratto noto solo alle suore che riuscì a proteggere C.J. Il suo nascondiglio però era ormai bruciato. Doveva andarsene. E dove se non dai genitori con cui aveva sempre vissuto? Le suore l'accompagnarono a Parma. Qui salì sul treno per Bologna. Le linee erano sconvolte dai bombardamenti e dagli attentati della Resistenza, gli orari inesistenti, si restava fermi sui binari in attesa, una volta o l'altra si sarebbe partiti. Il tempo scorreva lento, la noia cresceva. A un certo momento un distinto signore rivolge la parola a C.J.; fra una chiacchiera e l'altra la invita a prendere qualcosa al caffè della stazione. Perché mai rifiutare? Scendono e mentre C.J., sorseggiando qualcosa, minuetta con quel nuovo corteggiatore il treno d'improvviso parte con su tutto il bagaglio di C.J. «Ingenuamente» - si leggerà in una dichiarazione postbellica della più giovane delle «viennesi» con­servata nel fondo di prefettura dell’Archivio di Stato di Bologna – C.J., agitatissima per la perdita delle sue cose, si reca al posto di polizia ferroviaria per denunciare il fatto. Il bagaglio è recuperato a Borgo Panigale, dove il treno si ferma per i danni subiti dalla stazione centrale di Bologna. Inconsapevole in modo assolutamente incredibile della sua situazione C.J., quando a sua volta giunge a Bologna, si presenta per reclamarli esibendo i documenti di cui è in possesso: falsi e intestati a una persona inesistente. Non ci vuole molto a chi li esamina per scoprire che non sono autentici. Fino a quel momento scherzosi e un po' galanti, tedeschi e repubblichini si fanno minacciosi: la percuotono, la spogliano, le spengono addosso qualche cicca di sigaretta. Sospettano possa trattarsi di un partigiana e glielo gridano in faccia. Lei è sollevata e li rassicura: macché partigiana! È solo una ragazza ebrea che sta cercando di raggiungere i genitori nascosti nel tal posto sotto il tal nome; ha anche - continua - due fratelli, uno nascosto sull'Appennino bolognese in una località a lei ignota, l'altro emigrato in Palestina. Quando si rese conto di quel che aveva realmente fatto? Le molte volte che le sentii rinfacciare, specie da mia madre, questa vicenda lei si chiudeva sempre in un ostinato mutismo. Il ritorno fu lento. Liberata, presa in consegna dalla Croce Rossa svedese fu poi accolta da una famiglia, di non so più quale città di quel Paese. La tradizione orale familiare vuole che da quella casa che l'aveva accolta come una figlia fu allontanata perché trovata a letto con il capo della famiglia che l'ospitava. Evidente riprova - che lo si dicesse in modo aperto o meno poco importa - della sua assoluta amoralità. Insomma, commentavano per lo più mia madre e mia nonna materna, era una «troia» congenita. Divenuto adulto e conosciuto il sesso anche quest'episodio della vita narrata di quell'ingombrante zia mi cominciò a porre degli interrogativi: era stata un'inarrestabile eruzione di vitalità dopo una così lunga convivenza con la morte? Era stato bisogno di amore o forse il solo modo che il lager le aveva lasciato nella testa per esprimere riconoscenza? O, ancora, una sorta di automatica sottomissione per sopravvivere comunque? La sua, la nostra famiglia la riaccolse. Forse più in modo istintivo che per e con vera pietas. In realtà, ch'io mi ricordi, mai ci si preoccupò di scavare oltre gli orrori dei suoi pochi, scarni e faticosi racconti. Forse non poteva darsi altrimenti. Appena tornata si fece asportare il numero, il marchio impressole sull'avambraccio nel lager. Poi, per poco, visse con noi e a ogni istante incombeva lo scoppio di una lite con l'inevitabile, inutile e doloroso corteo di recriminazioni. Partì per Roma per frequentare una scuola per infermiere, indirizzatavi - credo - da mio padre, medico. Forse aveva potuto darle una mano per entrare, soprattutto era certo d'instradarla a un lavoro che, come era stato per lui durante la guerra, non l'avrebbe mai «lasciata per strada». Diplomatasi, tornò a Trieste nella casa in cui aveva vissuto con i genitori. In quegli anni, ch'io ricordi, la si vedeva poco. A volte arrivavano sue let­tere scritte con una inconfondibile grafia larga: il loro contenuto non veniva «socializzato». Un poco più spesso la si vide dal 1955 in poi: Trieste era tornata all'Italia e lei si era trasferita a Milano dipendente, mi pare, dell’Inps. Intanto ero cresciuto e mi ero fatto meno ignaro di quanto era in concreto successo nei campi di sterminio. Cominciai così a guardarla, le poche volte che la vedevo, con uno sguardo meno ingenuo. Urgevano molte domande. Mai, però, seppi esplicitarle né con lei né con mio padre. Oggi tendo ad attribuire a questo mio rimuginare - che si sfogava in precoci letture storiche (ma non di memorialistica che mi provocava emozioni insopportabili) - l'essere stato meno colpito dei miei a un annuncio INAUDITO. Forse però fu semplicemente per giovanile distrazione, perduto come ero nei primi amori e nella prima scoperta dell'emozione del conoscere. Fu, direi, nella seconda metà degli anni Cinquanta. Un giorno arrivò da Milano con l'annuncio del suo prossimo matrimonio. Quando cominciò a dire del futuro sposo l'aria si raffreddò: era uno squattrinato violinista di poco talento che sbarcava il lunario suonando in orchestrine da caffé. Ogni fiato si sospese e la tensione divenne via via più insostenibile allorché ne pronunciò il nome e ne raccontò la storia: un cognome tedesco, di un altoatesino che aveva optato per la Germania hitleriana e aveva servito, fu poi sostenuto sempre da mio padre, nelle SS. Dopo lo sconcerto, inevitabili pianti e altrettanto inevitabili maledizioni nel nome dei poveri nonni, una volta di più trionfò una rassegnata, ma equivoca, accettazione del fatto compiuto. Per un po' di tempo comparve quindi saltuariamente a casa quel nuovo zio Fritz: non è una boutade, si chiamava proprio così. Il matrimonio naufragò rapidamente, con non celata soddisfazione specie di mia madre. Ancora una volta C.J. si salvò, sia pure da una situazione incomparabilmente meno terribile. Fritz, per la sua opzione hitleriana, aveva perso la cittadinanza italiana né la Germania gli aveva riconosciuto la propria: era dunque apolide. A un certo momento però il governo di Bonn decise di accogliere quei figli della Germania per scelta. Divenuto cittadino tedesco, Fritz ottenne il divorzio. Un giudice milanese, allora famoso e di cui ho dimenticato il nome, deliberò la sentenza in Italia. E nell'Italia in cui sui giornali laici comparivano battute satiriche del tipo beatus monogamus in terra pretorum C.J. tornò a essere libera. Da vincoli matrimoniali. Continuava a comparire di quando in quando a casa nostra, mai in realtà bene accolta nel profondo dai miei. In occasione di un viaggio a Milano - direi fosse il 1961 - andai a trovarla: in un anonimo monolocale dove i suoi racconti, rassegnati, mi fecero intravedere brevi, spesso furtivi e fors’anche un po' sordidi, amori, suggellati da modesti doni, di una donna ormai quarantenne, sul cui volto i segni della vita si cominciavano a leggere senza difficoltà. Tornando da quella visita non riuscivo a smettere di chiedermi cosa avesse subito nel lager una donna giovane e indubbiamente bella. Forse era stata usata in un postribolo, forse era stata scelta come cavia per qualche esperimento. Conclusi che la sterilità dei suoi diversi amori non doveva essere casuale. Se per devastazioni fisiche o psichiche non lo sapevo allora e non lo so oggi. L'epilogo non ha termine con questa struggente luce di tramonto. Ha ancora un capitolo, mirabolante. Quando ci veniva a trovare arrivava per lo più nel tardo pomeriggio, cenava con noi e poi si chiacchierava, in un'atmosfera sempre di percepibile tensione. Una sera - qualche tempo dopo il nostro incontro a Milano - con qualche timore chiese consiglio: aveva avuto la proposta di seguire un uomo negli Stai Uniti; era però molto dubbiosa; lui era sposato, ma insisteva e a dimostrarle il suo amore le aveva regalato - aprì la mano e li mostrò - diversi gioielli (che a me parvero assai dozzinali). Sembrava una storia desolata, tutto però mutò quando venne ai particolari. Quell'uomo - che mi si rivelerà grasso, molliccio, pelato, con il bicchiere sempre in mano - altri non era se non un giovane ebreo polacco approdato a Trieste nel 1938 per migrare negli Stati Uniti. Nella città di San Giusto s'era fermato qualche tempo, aveva conosciuto C.J. e se ne era follemente innamorato. Lei lo aveva respinto in modo irremovibile, né l'aveva fatta smuovere la prospettiva di poter forse migrare pure lei. Con la morte nel cuore lui era partito. Durante la guerra aveva combattuto nell'esercito statunitense, collaborando anche ad azioni dell'Oss per la sua conoscenza di molte lingue. La fine del conflitto l'aveva colto in una località prossima al confine svizzero. Non aveva che un'idea: ritornare a Trieste e trovare C.J. Quando, poco dopo, vi giunse amici comuni raccontarono che C.J. e i suoi erano stati presi dai tedeschi e deportati. Nulla si era più saputo di loro. Ripartì da Trieste ancora una volta con la morte nel cuore. Poi la vita prese il sopravvento: si sposò, ebbe dei figli, organizzò un'attività abbastanza fiorente di importazione di tessuti dall'Italia. Fu durante uno dei suoi periodici viaggi d'affari nel comasco, che una sera di molti anni dopo Al - questo il suo nome - incontrò per caso a Milano una vecchia conoscenza triestina d'anteguerra. Riandando ai vecchi tempi ricordò la «povera» C.J. «Perché povera?», chiese l'altro. «Per la fine che ha fatto». Non gli sembrò vero di sentire che era viva e vegeta e abitava in quella stessa Milano sulla cui guida telefonica non ebbe difficoltà a trovare il suo indirizzo e relativo numero di telefono. Quando la rivide fu come se mai fosse partito da Trieste. Lei ora che ragione poteva avere per respingerlo ancora una volta? Del resto, quell'amore così persistente non poteva non commuoverla. Prese tuttavia tempo: alla fin fine la vita la aveva resa diffidente. I fratelli consigliarono prudenza. Lui però tornò e tornò ancora. E C.J. era mai stata in realtà prudente? Partì, «amante» di un uomo che non aveva mai smesso d’amarla, ma era sposato e con prole. Il divorzio rese le finanze del suo uomo molto precarie; lei, nurse quale era, lavorò e l'aiutò. Si sposarono, vissero non so se felici e contenti, certo assieme e all'apparenza sereni fin quando, nei tardi anni Ottanta, una cirrosi provocata dall’alcool non portò via Al. Lei sopravvive, sola, colpita dal Parkinson, in una casetta sull'Oceano Pacifico non lontano da Los Angeles. La piccola cicatrice sul braccio è ormai del tutto invisibile fra le rughe della pelle. È riuscita a seppellire le insopportabili memorie della sua gioventù? A meno che Al non l'abbia strappata alla solitudine del suo ricordo mai in famiglia aveva trovato orecchie che avessero saputo davvero ascoltare. Né mi consola l'autogiustificazione, ineccepibile in sé, che non ero io, bambino di pochi anni quando tornò alla vita, che avrei dovuto e potuto chiarirle che l’«ingenuo» esorcismo della cancellazione del marchio non avrebbe allontanato i fantasmi della sua «ingenua» colpa.

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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione

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