Diario
Robinson
Crusoe nel ghetto
Un’infanzia
a Varsavia, la deportazione a Berge-Belsen: Uri Orlev li ha vissuti e racconta
in libri straordinari come un bambino possa inventarsi la sopravvivenza
di Claudia Rosenzweig
C
'è un quartiere di Gerusalemme che di notte sembra uscito da
un'illustrazione delle Mille e una notte.
Si
chiama Yemin Moshe, in ricordo del filantropo Sir Moses Montefiore, che
contribuì a costruirlo proprio di fronte alle mura ottomane della Città
Vecchia. A est lo sguardo si spinge lontano, in una costellazione di villaggi
arabi, dietro ai quali si intuisce il deserto. Grazie al vento, il cielo è
spesso limpido, le stelle senza veli, la luna più vicina. È in questo
quartiere di case basse, coi tetti di tegole rosse e finestre dai vetri
smerigliati, che inseguendo un gatto zoppo al quale dà abitualmente da
mangiare, Uri Orlev mi conduce nella casa dove abita da molti anni. Sorridendo
in modo furbo dice che questo gatto gli ricorda Srulik, il protagonista di Corri
ragazzo, corri (Salani, 2003), la storia vera di un ragazzino che nonostante
la perdita di un braccio, riuscirà a sopravvivere alle persecuzioni della
Seconda guerra mondiale e ad arrivare in Israele.
Entrambi, il gatto e Srulik, amano ostinatamente la
vita, e da entrambi gli sembra di essere stato scelto perché si occupi di loro.
Un salone con grandi arcate di pietra bianca, foderato di libri fino al
soffitto, e comodi divani ricoperti di stoffe orientali accolgono chi entra.
Orlev è gentile e spartano a un tempo, secondo l'uso israeliano. Negli occhi
conserva come la traccia di un sorriso un po' infantile, ma non ingenuo.
È
lo stesso sorriso che accompagna le pagine dei suoi libri. Per quanto possa
sembrare insolito, o persino provocatorio, i suoi romanzi su ragazzi
perseguitati dai nazisti, rinchiusi nei ghetti, denunciati dai polacchi,
affamati e pieni di pidocchi, trasmettono positività e coraggio di vivere. Uri
Orlowski (in seguito «israelianizzato» in Orlev) è nato a Varsavia nel 1931
da una famiglia ebraica non osservante. La sua lingua madre è il polacco.
Insieme al fratello minore è stato nel ghetto di Varsavia, quindi a
Bergen-Belsen e infine è riuscito a raggiungere Israele. Non ha vissuto come
traumatico il suo arrivo in Israele, il suo inserimento in una società
nuova e diversa, poiché per lui il socialismo laico del kibbutz è il
proseguimento naturale dell'educazione ricevuta in casa, con l'unica differenza
che ha dovuto apprendere la lingua ebraica. Nel 1956 è stata pubblicata la
sua autobiografia, Soldatini di piombo (rist. Fabbri, 2003). Può far
sorridere che un giovane di venticinque anni abbia scritto una autobiografia, ma
chi ha vissuto gli anni della Shoah si è ritrovato con un bagaglio di
esperienze umane dopo le quali difficilmente la vita può riservare delle
sorprese. I suoi ricordi compaiono anche in una versione della sua storia
raccontata
ai figli, che gli avevano chiesto come avesse fatto a scappare dai tedeschi. Si
intitola Gioco di sabbia (Salani, 2000), ed è la sorprendente
dimostrazione che si può raccontare la Shoah ai bambini. Come ha fatto a
trovare le parole adatte, e soprattutto il giusto tono? Li risposta è che prima
di tutto si sente felice quando racconta delle storie ai bambini, in qualunque
Paese si trovino, in qualsiasi lingua debba comunicare con loro. Il secondo
motivo è che quando racconta, torna spontaneamente nella Polonia occupata dai
nazisti, e vede tutto con gli occhi del bambino che era. Dice di non essere in
grado di scrivere di quanto gli è accaduto come un adulto. Da bambino vedeva
tutto come se fosse un'avventura. L'infanzia è il periodo dal quale ogni
artista trae la materia per la sua opera. La Shoah è parte della sua infanzia.
Può sembrare strano, ma la Shoah non la cancella. Persino in tempo di guerra la
vita, oltre agli aspetti orribili e disgustosi, ne aveva anche di interessanti,
affascinanti: tutto era più intenso che in un'infanzia normale. L'amore per le
avventure è il filone che lo porterà dalla passione per la lettura dei libri a
diventare egli stesso uno degli autori israeliani più noti e tradotti: «Quando
andavo in biblioteca facevo sempre due domande: il libro ha le figure? In caso
affermativo chiedevo: questo libro fa paura? Se c'erano entrambe queste
condizioni, allora lo prendevo in prestito. Mi piacevano i libri di guerra e di
avventura. Mi piacevano i libri che parlavano di eroi adulti o bambini
perseguitati dalla sorte, che ne vedevano di tutti i colori finché tutto
tornava a posto. Le storie che finivano male mi lasciavano addosso una specie di
panico che durava per molto tempo. Però non chiedevo mai alla bibliotecaria
come andavano a finire, per non rovinarmi il gusto della lettura. In questo
senso ero sempre disposto a correre il rischio. E più leggevo più cresceva in
me l'invidia per quei personaggi descritti nei libri. Perché a me non succedeva
mai niente?» (Gioco di sabbia, p. 26). È
così che Robinson Crusoe e L’isola del
tesoro
si
sono trasformati in una sorta di manuale di sopravvivenza: raccontando il
tentativo della madre di fare passare Uri e suo fratello nella parte ariana
della città, scrive: «Quella fu una delle mie maggiori avventure in tempo di
guerra (...). Scrivo "avventura" perché in fondo mi consideravo
ancora il protagonista di un thriller, e più la gente moriva intorno a me, più
cresceva la mia convinzione che a me non potesse succedere nulla di male e che
la storia in cui stavo recitando questo ruolo da protagonista doveva per forza
avere un lieto fine.» (Gioco
di sabbia, p.
46). Per
questo Orlev non ama essere definito un autore della Shoah, essere
considerato un «testimone». Preferirebbe essere letto e apprezzato come autore
di libri per bambini e ragazzi, un autore di storie avvincenti, come quelle che
ha amato da piccolo e che egli stesso traduce dal polacco in ebraico, come Il
re Matia di Janusz Korczak e Quo vadis? di Sienkiewicz (ma ha
tradotto anche un'opera complessa come
Le botteghe color cannella
di
Bruno Schultz). Al tempo stesso confessa di essere rattristato del fatto che
uno solo fra i tanti libri che ha scritto sia stato pubblicato in polacco,
anni fa, e mai più ristampato: L’isola in via degli uccelli (Salani,
1993). In Polonia, dice, ci sono ancora dei problemi con la verità storica di
quanto è accaduto ad Auschwitz: le vittime sono loro, i polacchi. D'altra
parte,
durante un viaggio in Germania dell’Est prima della caduta del Muro, aveva
sentito dire a una guida che i colpevoli dello sterminio erano stati i tedeschi
dell'Ovest. Per quanto riguarda ha-matzav, «la situazione» attuale in
Israele, quello che succede non ha niente a che vedere con quanto è successo
al popolo ebraico durante la Seconda guerra mondiale. Qui, oggi, c'è una guerra
tra due popoli che lottano per lo stesso territorio. Se Hitler non fosse stato
un pazzo, gli ebrei tedeschi avrebbero combattuto nelle file dell’esercito
tedesco anche la Seconda guerra mondiale, come avevano fatto nella I». Nelle
sue opinioni sulla storia e la politica si riscontrano la stessa concretezza e
semplicità dei suoi romanzi, che sono privi di retorica, scevri di ogni
ideologia e persino di ogni intento espressamente pedagogico. Quando racconta,
si sente che è rimasto in lui lo sguardo diretto e lucido di quando era
piccolo. Questo è il punto saliente del suo stile, della sua personalità. Un
bambino vede le cose ma non le interpreta. Accetta il mondo com'è. La Shoah è
il mondo nel quale si è trovato a nascere, e lo ha accettato per poter
sopravvivere, come qualcuno che è nato in una giungla e impara a fare
attenzione alle tigri. E così è ancora oggi. Per tanti aspetti la sua storia
è simile a quella di un altro sopravvissuto che è diventato scrittore, Aharon
Appelfeld. Nella sua autobiografia, Storia di una vita (Giuntina, 2001),
incontriamo un bambino di otto anni, che vede uccidere la propria madre dai
nazisti, che fugge da un campo di concentramento e che quando raggiungerà
Israele negli anni Quaranta, si sentirà suggerire da Agnon di scrivere di
quanto ha vissuto, perché quelle esperiènze raccolte in quindici anni di lotta
per la sopravvivenza potrebbero bastare per una vita intera. La madre di Orlev
è stata uccisa dai nazisti, in un ospedale del ghetto di Varsavia. Su questo
Orlev scrisse delle poesie, in polacco, e confessa di non avere più la forza di
leggerle. Di tutta quella sofferenza ha paura. «Non so se scrivere mi aiuti a
superare il passato. So solo che non posso parlare, raccontare o pensare a
quanto è successo come un adulto. In altre parole: quando ricordo, torno a
essere il bambino che ero, e rutto mi ricompare davanti agli occhi. L'uomo che
sono oggi deve andarci molto, molto piano con questi ricordi, perché possono
diventare pericolosi. Come se mi trovassi sulla superficie ghiacciata di un lago
e dovessi stare molto attento a non calcare troppo con il piede: pensare adesso,
da grande, a quello che è successo, è un po' come saltare sopra un sottile
strato di ghiaccio che potrebbe rompersi, facendomi sprofondare nell'abisso. E
so che potrei anche non fare ritorno mai più». (Gioco di sabbia, p.
79). Ma c'è un elemento importante, che ben permette di comprendere la
personalità e la scrittura di Orlev: una volta, in una scuola, un bambino gli
ha chiesto: «Se tu fossi stato da solo, senza il tuo fratellino per giocarci
insieme, saresti sopravvissuto?». Questa domanda lo ha lasciato senza parole.
Naturalmente una vera risposta non può esistere, ma avere un fratello con cui
giocare è stato per lui di vitale importanza. Aveva bisogno di giocare come
del cibo. Anche giocare era un modo per restare umano, per non diventare un «musulmano».
Una volta si inventò una storia, nella quale la guerra, la Shoah, non stavano
accadendo per davvero, ma erano solo un sogno. Egli era in realtà il figlio
dell'imperatore cinese: «Yurek era disteso a fantasticare. Sa perché non è
stato ucciso in guerra e perché è successo tutto quello che è successo. Lui
è cinese, il figlio dell'imperatore. Il suo letto l'hanno messo su un palco.
Sopra ci sono dei dragoni, delle lanterne cinesi e delle divinità di carta.
Intorno al suo letto sono seduti i mandarini saggi dell'imperatore. Tutti hanno
una barba bianca, cinese. Ogni mandarino ha il cappello. Lo hanno addormentato
per ordine di suo padre perché sognasse tutta la guerra e imparasse. Al momento
buono, quando diventerà imperatore, saprà comportarsi saggiamente con il
popolo, saprà che cosa sono fame e sofferenza. Non c'è dubbio che non farà più
guerre. Anche lui farà addormentare suo figlio perché possa imparare.» (Soldatini
di piombo, pp. 348-349).
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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione |