Diario

Tornare in linea

Voluto da Hitler sull’Appennino, sfondo di feroci battaglie, il baluardo gotico è oggi un luogo di meditazioni

di Martina Treu

«Ogni guerra è guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione». Cesare Pavese, La casa in collina, 1948

 

«Guerra civile»: erano parole rischiose, in Italia, nel 1948. Lo sono ancora? A quanto pare sì, stando alla cronaca politica. Comunque sia non ci aspettiamo di sentirle oggi, in un cimitero militare di montagna: restiamo raggelati e immobili, ritti sul pendio, di fronte al tramonto. Viene da rabbrividire, anche se fa caldo: è il 12 agosto 2003. Iniziamo a camminare sulla scacchiera di tombe, come su un campo minato, per paura di risvegliare fantasmi. Evidentemente non abbiamo ancora chiuso i conti col passato. Proviamo a ricominciare proprio da qui, tornando indietro di sessant'anni: all'agosto del 1943. Tutto ha inizio da queste montagne, che tagliano in due l'Italia: gli Appennini. Qualcuno ci intravede un muro naturale, perfetto per chiudere a Sud le porte dell'Europa centrale. Quel qualcuno si chiama Adolf Hitler. E fa fortificare gioghi, passi e vallate con fossati, torrette, mitraglie: nasce così la Linea Gotica. Un nome evocativo e famigerato, ormai più proverbiale che storico, che molti associano solo a vaghi ricordi di scuola. O all'omonimo album dei CSI, del 1996. O ancora al feroce umorismo di Bonvi, che nelle Sturmtruppen mette tedeschi e italiani insieme in trincea: prima dell’8 settembre, evidentemente. Ma già nell' agosto del 1943 i rapporti con quell'alleato devono essere ben incrinati, se la Germania pensa a fortificare gli Appennini: e subito l'organizzazione Todt mobilita tedeschi e italiani per costruire un colossale baluardo che sfrutta la conformazione fisica e gli argini naturali del terreno, raggiunge in certi punti la profondità di 20 km e si estende in lunghezza per 320 km, dalla Versilia alla riviera romagnola (partendo da Massa tocca Lucca e Pistoia, poi a nord i passi della Futa e del Giogo, quindi segue i crinali fino al mare, tra Rimini e Pesaro). Migliaia di opere campali in legno, pietra e cemento armato, rifugi in acciaio, caverne scavate nella roccia, 2.376 postazioni di mitragliatrice (Torrette di Pantera), mortai e cannoni. d'assalto, centinaia di chilometri di reticolati, fossati e campi minati. Questo si trovano di fronte gli Alleati quando sferrano la prima offensiva, il 25 agosto 1944. Qui comincia la storia scritta da loro, i vincitori: una lunga serie di battaglie che porta a Bologna e a Rimini, e da lì in Europa (Douglas Orgill, The Gothic Line, Heinemann, 1967, tr. it. La linea gotica, Feltrinelli). Ma per italiani e tedeschi la storia della Linea Gotica inizia già nel 1943. Per interminabili mesi le popolazioni della zona subiscono l'occupazione nazista, il freddo e la fame: molti sono giustiziati o spediti nei campi in Germania, altri dispersi tra le montagne, altri preda di rastrellamenti, rappresaglie ed eccidi. Oggi sopravvissuti e discendenti si ritrovano per colmare i vuoti della memoria e ricostruire un passato comune all'intero territorio. Restaurano edifici, organizzano mostre, fanno ricerche: così affiorano i ricordi, storie intrecciate di battaglie e partigiani, conventi e biciclette. Nell'inverno 1943-1944 nascono dappertutto raggruppamenti spontanei, poi bande e brigate sempre più folte di partigiani. E con loro montanari, contadini e pastori; madri di famiglia, suore e sacerdoti; e perfino ragionieri e ciclisti. Tutti eroi silenziosi: per questo è difficile, oggi, ricostruirne le storie di ordinario coraggio. Come quella di Giorgio Nissim, scoperta a Castelnuovo Garfagnana proprio il giorno della memoria, nel 2003. Riesce a salvare oltre 800 persone - ebrei come lui - scavalcando ogni confine territoriale, politico o religioso. Tant'è che i più preziosi e insospettabili alleati sono tutti ferventi cattolici (ma nessuno tentò mai di convertirlo, come amerà poi ricordare): in Liguria Repetto, segretario dell'arcivescovo di Genova; in Toscana e Umbria i frati francescani; e a fare da spola, anche lui per fede, Gino Bartali. Il vincitore al Tour del 1938, infatti, può varcare la Linea Gotica con la scusa dell’allenamento e la fama acquisita come lasciapassare. E pedalare su e giù sotto il naso dei tedeschi, tra l'autunno del 1943 e la primavera del 1944, portando foto e documenti nascosti nella canna «inviolabile» della sua bicicletta. È l'estate del 1944: gli Alleati raggiungono gli Appennini. Alla fine di settembre rompono la Gotica sull’Adriatico e in Toscana, ma sono bloccati dal maltempo e dalla mancanza di rimpiazzi e rifornimenti. L'offensiva finale scatta il 9 aprile 1945, e porta ben presto alla dissoluzione dell’esercito tedesco e alla liberazione di tutto il Nord. L'intera operazione, anche se meno studiata e pubblicizzata di altre, è tra le più cruente e decisive della guerra, con effetti a lungo termine sui Balcani e sull'equilibrio mondiale (secondo Amedeo Montemaggi, presidente del Centro internazionale documentazione Linea Gotica). Tra le tante battaglie, sanguinose e ignorate, c'è quella al Passo della Futa: un punto debole nella catena appenninica che viene fortificato dai tedeschi fino all'ossessione. Ma è tutto inutile, ormai sono allo stremo: la sola 4a divisione paracadutisti, sotto organico, tiene un fronte di quasi venti chilometri, praticamente senza disponibilità di riserve. Tra loro pochi veterani di Cassino, gli altri quasi tutti rimpiazzi privi di addestramento, appena arrivati dalla Germania, senza mai avere sparato un colpo di fucile. Ne moriranno a migliaia, su queste montagne, che ancora oggi di tanto in tanto restituiscono nuovi resti. Oltre 31 mila sono sepolti nel solo Cimitero militare germanico della Futa: il più grande sacrario tedesco in Italia, progettato da Dieter Oesterlen, edificato tra il 1962 e il 1965 e inaugurato nel 1969. Da anni l'architettura tedesca testimonia il sofferto dibattito sulla memoria nazionale, sui monumenti funebri e i luoghi della memoria (si veda da ultima Aleida Assmann, Arbeit am nationalen Gedächtnis Eine kurze Geschi­chte der deutschen Bildungsidee, Campus Verlag / Maison des sciences de l'homme, 1993, tr. fr. Construction de la mémoire nationale. Une brève histoire de l'idée allemande de Bildung, Paris, 1994). L'eco di queste riflessioni, nel progetto della Futa, si condensa in un messaggio basilare: la guerra è un gorgo di violenza e di morte, da bloccare prima che ci sommerga. A evocarla è una spirale di duemila metri che avvolge la montagna e si interrompe in cima. Avvistarla da lontano è impressionante. Tutt'intorno terrazze lastricate di nude lapidi, tutte uguali e indistinte, come pagine di libri aperti sul terreno. Sono ben curate, grazie a un'Associazione tedesca di cui troviamo all'ingresso il volantino. Il loro progetto «Lavoro per la Pace» prevede tra l'altro campi estivi per studenti: i ragazzi sono ospitati qui, fanno lezione di storia, entrano in diretto contatto con la guerra prendendosi cura delle tombe. Giovani, come loro, quasi tutti i morti identificati: ma nome ed età sulla lapide sono un privilegio per pochi, in mezzo a innumerevoli «soldati tedeschi sconosciuti». Leggiamo le loro storie, strazianti, e ancora: «Con la guerra non si ottiene la pace» e «le tombe di guerra incitano alla pace, chiunque voglia collaborare alla sua diffusione è il benvenuto». Assorti attendiamo sulla soglia del cimitero, ripensando al motivo per cui siamo qui. Ci ha invitati l'Associazione Archivio Zeta, un gruppo teatrale che ha sede a Firenzuola e da anni opera nella zona, in collaborazione con gli enti di volta in volta interessati: dal Teatro degli Auras di Massa Carrara (Progetto Vagondrom sulla Memoria della Shoà) ai Comuni che dal 27 gennaio 2004 ospiteranno La notte di Elie Wiesel (un progetto multimediale con la partecipazione straordinaria dell'autore in video, portato anche al Teatro Franco Parenti di Milano, nel gennaio 2003). Il nuovo progetto triennale curato da Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni, direttori artistici di Archivio Zeta, si intitola appunto Linea Gotica e si propone di «individuare i luoghi della memoria sul territorio e farne palcoscenico naturale di spettacoli ed eventi che abbiano come tema: l'assurdità della guerra, le ferite della Storia, la dignità violata e l'importanza della memoria». Spesso i luoghi storici ispirano spettacoli e ne condizionano attori e pubblico. Così l'autunno scorso, al Piccolo di Milano, Bebo Storti riviveva gli orrori di Via Rovello e ne mostrava le recrudescenze in Mai morti, di Renato Sarti. Così la primavera scorsa, a New York, il National Actors Theatre rievocava il primo scontro epocale tra Oriente e Occidente mettendo in scena - vicino a Ground Zero - i Persiani di Eschilo, il primo dramma conservato della letteratura greca: lo stesso rappresentato oggi alla Futa, in una fedele traduzione del testo greco. L’originale debutta ad Atene nel 472 a. C., pochi anni dopo la vittoria greca. L'autore, il pubblico e il coro hanno appena combattuto le due guerre «mondiali». Ma Eschilo, a sorpresa, trasforma la vittoria dei greci nella sconfitta dei persiani. Venticinque secoli prima di Pavese o di Fredric Brown (Sentinella, 1954) rovescia e relativizza la prospettiva per dirci che l'Alterità è reciproca: «Barbari» o «Alieni» siamo in realtà tutti noi. Non a caso, dunque, Archivio Zeta ci convoca proprio al cimitero della Futa: per i tedeschi un luogo della memoria, per noi specchio del lutto dell'Altro. Non un Altro qualsiasi, bensì un alleato che diventa nemico, e in un solo giorno: lo stesso processo si vuole invertire qui oggi, almeno nella comunità che vi partecipa direttamente. In questi persiani c'è chi si riconosce nei vinti, e rivive il dolore comune, dopo averne subito sulla pelle l'oppressione. I due cori, femminili e maschili, non sono professionisti, ma abitanti del luogo: un gruppo vocale di donne e vecchi che «hanno nella memoria, indelebili, le tracce della guerra combattuta su questi monti». Da aprile a luglio le prove in loco. Ad agosto la prima e le repliche: sei in tutto, per sessanta spettatori ciascuna (ma saranno incrementate, sotto pressanti richieste). Così, in piccoli gruppi, partecipiamo a una sorta di via crucis al tramonto: saliamo in cima al monumento, alla reggia di Susa, e lì ascoltiamo i lamenti dei persiani e le notizie da Atene. Scendiamo dall'altra parte, sulla tomba di Dario, poi ancora più giù sul pendio. Qui passato, presente e futuro si fondono con le prime ombre della notte. Siamo tutti persiani e scrutiamo ansiosi a occidente, per avvistare reduci che non arriveranno mai. O siamo tedeschi, sulla Linea Gotica, in attesa della morte. O forse siamo iracheni, cullati dalle nenie delle donne e dall'accento albanese di Serse. E ancora guardiamo a Ovest, aspettando gli americani, di nuovo in guerra tra oriente e occidente Il buio ci riscuote, sembra passata un'eternità; a malincuore torniamo all'ingresso. Qui ritroviamo gli attori, che solo un'ora fa ci avevano accolti così: «Noi vi preghiamo di ricercare nel vostro animo azioni simili del più recente passato». È il 12 agosto, anniversario dell’eccidio di Stazzema. Sulla cima dietro di noi, fianco a fianco, la bandiera italiana e quella tedesca sono un'unica sagoma nel tramonto. Più in alto solo la spirale, che si interrompe. O almeno così dovrebbe. Ma vista da qui è una lama affilata che punta dritta verso il cielo, come a squarciarlo.

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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione

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