Diario

Soltanto un’oretta

Konrad Latte, ebreo tedesco, convinse la sua famiglia a fuggire: sarebbe valsa la pena vivere anche solo un’ora in più

di Antonio Di Bella

 

«Konrad, dobbiamo presentarci subito al posto di polizia più vicino, smettila con questa storia della fuga, che speranze abbiamo noi, una famiglia ebrea tedesca, di sfuggire alla cattura nella Germania del 1939?». «Vedi papà, forse hai ragione, ma io dico che dobbiamo scappare; anche se guadagneremo soltanto un'oretta di vita in più sarà valsa la pena». Soltanto un'oretta. Aveva vent'anni Konrad Latte nel 1939, ma aveva già intuito la realtà meglio dei suoi genitori. Tutti gli ebrei di Breslau, la città in cui era cresciuto, avevano ricevuto per posta l'ordine di presentarsi alla polizia con dieci chili di bagaglio e provviste per tre giorni. Non si parlava di deportazione. Ma Konrad aveva notato che nessuno di quelli che erano partiti in precedenza aveva mai fatto ritorno a casa. Suo padre, di famiglia prussiana, avvocato, non riusciva nemmeno a immaginare una disobbedienza aperta a un ordine dello Stato. Ma di fronte alla minaccia del figlio di scappare da solo, decise di non smembrare la famiglia e di rispondere «no» per la prima volta nella sua vita. Stava per cominciare una delle storie più incredibili e meno note della fuga dalla persecuzione nazista nella Germania hitleriana. La famiglia Latte si consultò febbrilmente sulla direzione da prendere in quella fuga disperata. Konrad sorprese, e convinse, ancora una volta tutti: «L'ultima città dove i nazisti potrebbero pensare di cercarci è la capitale del Reich, Berlino». Così con un cappotto prestato da un amico e pochi bagagli, la famiglia Latte partì per Berlino. Un amico farmacista donò loro due cose che, disse, avrebbero potuto rivelarsi molto utili: una svastica e tre capsule di cianuro. A Berlino il problema era trovare dove dormire. Il padre di Konrad pensò subito a sua sorella, ma arrivati nel quartiere Wilmersdorf, trovarono l'appartamento sigillato dalla Gestapo: la deportazione era già avvenuta. Seconda tappa, in una città martellata dai bombardamenti, la casa di un cugino della madre di Konrad. L'apparire della famigliola in fuga fu accolto con terrore: il cugino era riuscito a sfuggire alla deportazione grazie al matrimonio con una donna «ariana» e non voleva correre altri rischi ospitando i suoi parenti ebrei. Per non lasciarli letteralmente in mezzo alla strada, prima di congedarli frettolosamente, diede loro il nome di una giovane attrice sua conoscente, Ursula Meissner, che viveva sola in un grande appartamento nel quartiere di Prenzlauer Berg. Era l'ultima speranza, molto esile. Se i familiari chiudevano la porta perché avrebbe dovuta aprirla una sconosciuta? Qui comincia la serie delle sorprese. Appena aperta la porta di casa e sentita, sull’uscio, la storia dei tre ebrei in fuga, Ursula Meissner dice semplicemente: «Benvenuti». Non dice «uno di voi può stare qui», non dà limiti di tempo all'ospitalità, non cita nemmeno le precauzioni da adottare per il rischio mortale che sta correndo. Oggi Ursula Meissner ha più di 80 anni e vive a Ginevra. Quando le si chiede, a 60 anni di distanza, perché corse quel rischio per degli sconosciuti, risponde semplicemente: «Che cos'altro potevo fare? La mia vera preoccupazione è sempre stata quella di essere in grado di guardarmi nello specchio, la mattina, senza dovermi vergognare di me stessa». Per qualche tempo la famiglia Latte riuscì a vivere assieme, sotto lo stesso tetto. Ai vicini Ursula Meissner disse che ospitava degli amici che avevano avuto la casa distrutta dai bombardamenti. Fino a che un vicino obiettò: «Certo che i suoi vicini sembrano terribilmente ebrei!». Era il momento di cambiare aria e la famiglia Latte ringraziò Ursula e, tramite amici comuni, andò a bussare alla porta di un sacerdote molto particolare: Harald Poelchau. Harald Poelchau, cappellano del carcere di Tegel, faceva parte della cosiddetta «Chiesa confessionale» che organizzava una resistenza sotterranea al nazismo ed è una delle figure più affascinanti della opposizione civile tedesca a Hitler. In carcere era venuto in contatto con tutti i prigionieri politici incarcerati dal nazismo. Li aveva assistiti, aveva mantenuto contatti fra prigionieri e resistenza esterna, aveva utilizzato al meglio le sue possibilità di accesso a documenti e informazioni riservate. Certo perfino il cappellano «giusto» strabuzzò gli occhi quando nel suo ufficio, nel carcere di Tegel, vide apparire di buon mattino una famiglia di ebrei in fuga che chiedeva soccorso. Superato lo stupore, padre Poelchau distribuì alla famiglia Latte denaro, tessere per il cibo e procurò soprattutto luoghi (separati) per dormire e addirittura posti di lavoro. Il giovane Konrad Latte, a questo punto, non doveva che ringraziare il cielo per avergli fatto incontrare il cappellano Poelchau e cerca­re di farsi notare il meno possibile. Ma non era nel suo carattere. Konrad riteneva di avere un dovere preciso nella vita: quello di coltivare il suo talento di musicista. E per quello scopo era deciso a mettere a rischio la sua stessa esistenza. Alla Filarmonica di Berlino, il tempio della musica classica in Germania, si esibiva Edwin Fisher, un mito per chi amava la musica classica. Konrad sapeva che Edwin Fisher aveva avuto come prima moglie una von Mendelsohn e non aveva mai mostrato un accanito antisemitismo. Approfittando della sua tuta da lavoro sporca di vernice che lo faceva sembrare un addetto alla manutenzione riuscì ad arrivare fino al camerino del musicista. Bussò, si presentò e, di getto, disse tutta la sua storia: era un ebreo in fuga, amava la musica era un suo grande ammiratore. Era un azzardo assurdo, ma fu ben ripagato. Invece di chiamare la Gestapo e farlo arrestare Fisher si commosse, gli diede del denaro, lo aiutò e addirittura acconsentì a dargli qualche lezione privata di armonia. Grazie all’intercessione del grande musicista, Konrad non solo riuscì ad assistere ad alcuni suoi concerti nella stessa platea dove sedevano i massimi gerarchi nazisti, ma cominciò a ottenere piccoli ingaggi come organista nelle chiese della città. A Berlino, durante la guerra, gli organisti erano scarsi, così Konrad divenne molto ricercato: «La voglia di eccellere nella mia professione», racconta egli stesso, «era più forte della paura di essere smascherato e deportato». All' apice della sua carriera di organista Konrad Latte viveva nella pensione Wolf in Nürnberg Straße e aveva addirittura la rara comodità di un telefono, utilissimo per coordinare la sua intensa attività musicale. Ma una mattina gli si presentò qualcuno che non poteva non aiutare: Wolfgang Harich, figlio di una sua precedente padrona di casa, disertore. Harich non solo si installò nella stanza di Konrad, ma portò con sé una pesante e misteriosa valigia. Era zeppa di volantini anti Hitler inneggianti al comunismo. La scoprì la Gestapo in una perquisizione che portò all'arresto di Konrad e del suo ospite. Era la catastrofe: gli agenti si appostarono davanti alla pensione e misero le manette al padre di Konrad che, insospettito per il suo silenzio, era andato a cercarlo. La madre, appena a conoscenza dei due arresti, si consegnò spontaneamente. Era l'ottobre del 1943. L'intera famiglia Latte era destinata ad Auschwitz. Al momento della partenza dall'altoparlante risuonò il nome di Konrad Latte. Doveva rimanere. Non avrebbe mai più rivisto vivi i suoi genitori. Per una delle incredibili assurdità della burocrazia, la giustizia militare tedesca pretendeva la testimonianza in aula di Konrad a carico di Wolfgang Harich sotto processo per diserzione e propaganda comunista. Un accanimento procedurale grottesco in una Germania dilaniata dai bombardamenti, con i campi di concentramento ormai a pieno regime per la soluzione finale. In cella Konrad diventa amico di Ludwig Lichtwitz, uno stampatore che aveva aiutato la resistenza. Assieme a lui riesce a sabotare il sistema elettrico della prigione e a fuggire rocambolescamente il 27 novembre del 1943. Una volta evaso, Konrad riprende i contatti «musicali» del periodo precedente. Il compositore Gottfried von Einem gli procura accesso ai concerti e addirittura delle particine come corista. Per i suoi capelli biondi viene selezionato nel coro dei bambini nei Meistersinger di Wagner e canta di fronte a una platea che vede in prima fila il maresciallo Göring. Anche in questo periodo Konrad non rinuncia alla sua sfrontatezza. Accer­tato che il palco del direttore dell'opera è regolarmente libero, riesce a corrompere le maschere del teatro a godersi tutta la stagione 1943/44 da solo dal palco. In realtà tanto solo Konrad non è più. A un concerto conosce Ellen, una giovane dattilografa di Berlino che non lo abbandonerà e lo sposerà dopo la caduta del nazismo. Dopo la guerra Konrad Latte ha fondato nel 1953 l'Orchestra barocca di Berlino e l'ha diretta fino al 1997 raccogliendo successo e stima. Ma non ha mai voluto rivelare la sua storia. Solo negli ultimi anni, a fatica ha accettato di parlarne. «Mi sentivo in colpa. Io ero sopravvissuto mentre a milioni sono morti nei campi di concentramento e fra loro i miei genitori». Eppure quella di Konrad non è una storia isolata. Si calcola che si siano salvati in Germania fra i 5 e i 10 mila ebrei; 1.400 di loro sono sopravvissuti a Berlino. Estrema minoranza rispetto ai 170 mila ebrei uccisi solo nella capitale tedesca, ma una minoranza significativa. Ognuno dei fuggitivi (soprannominati U­Boot perché dovevano stare sommersi come i sommergibili) era costretto a cambiare abitazione spesso per sfuggire alla cattura. Così si calcola che, in media, ogni fuggitivo ebreo a Berlino abbia potuto contare su almeno sette diversi punti d'appoggio. E questo fa salire a quasi diecimila il numero dei cittadini di Berlino che hanno rischiato la vita e sfidato il nazismo per aiutare degli ebrei in fuga. È una realtà non molto esplorata dagli storici, anzi spesso negletta. Peter Schneider, uno fra i più noti intellettuali della sinistra tedesca, ha convinto Konrad Latte a parlare, ha scritto su questo caso un libro tradotto in più lingue (ma non in italiano) e ha dovuto subire pesanti critiche. Il fatto è che rivelare che 10 mila famiglie berlinesi hanno sfidato il nazismo distrugge il mito dell’impossibilità di opporsi al regime, che ha funzionato da alibi alla coscienza collettiva tedesca. Decine di libri sono stati dedicati alla più nota delle rivolte contro Hitler del 20 luglio 1944. Una congiura dei quadri militari soppressa nel sangue. Molta meno attenzione è stata dedicata alle migliaia di tedeschi che senza essere protagonisti di atti clamorosi hanno deciso silenziosamente di non obbedire alle direttive antisemite del regime e di rispondere solo alla propria coscienza. Quando si chiede a ciascuno di loro se si rendevano conto di quello che stavano rischiando e si domanda perché, la risposta è più o meno sempre la stessa: «Che altro potevo fare?». Come quella di un altro «giusto», Giorgio Perlasca.

Nota: La storia completa di Konrad Latte è raccontata nel libro di Peter Schneider Und Wenn Wir Nur Eine Stunde Gewinnen (edizioni Rowohlt, Berlino 2001)

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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione

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