Diario
Svizzera,
la fuga negata
1943:
il soldato Fazio tenta di scappare oltreconfine per sfuggire a tedeschi e
repubblichini, ma viene ricacciato. Un brano del diario di un futuro presidente
di Italia Nostra
di
Mario Fazio
Autunno
1943, classe 1924
Partimmo
all'alba, un'alba umida e leggermente nebbiosa, accompagnati da due spalloni che
avevano promesso di farci passare il confine in un punto sicuro, quasi in vetta
al monte Bisbino. Ero insieme al mio compagno Giuliano K., milanese di origine
svizzera con parenti a Zurigo che ci avrebbero accolti e protetti. A casa
eravamo in pericolo, avendo rifiutato di arruolarci con i repubblichini. «Ragazzi,
più di dieci chilometri di salita per arrivare ai milletrè», disse uno dei
contrabbandieri osservando criticamente il nostro abbigliamento. Io indossavo un
completo in tweed grigio a spina di pesce, camicia azzurra e cravatta. Bagaglio:
una grossa borsa-valigia portata da uno spallone, il sacco da montagna e il
soprabito. Non potevo caricarmi troppo e dovevo arrivare dai cugini di Zurigo
con un buon aspetto. Sciolsi il nodo della cravatta all'inizio della salita. A
metà strada i contrabbandieri ci offrirono latte di capra e pane. Sembrava
una scampagnata, ma per i nazifascisti noi due eravamo renitenti in fuga
all'estero, da fucilare. A chi ne denunciava uno veniva offerto un premio di
cinquemila lire, o cinque chili di sale, lo stesso per la cattura di un ebreo.
Quando il sole illuminò il lago e i boschi ci venne concessa una sosta. Fummo
superati da un gruppo di militari americani, giovanissimi, otto bianchi e tre
neri. Dopo l'otto settembre, lasciato il campo di concentramento in Toscana,
avevano trascorso lungo tempo in una cascina di contadini emiliani, poi
erano arrivati a piccole tappe fino al lago di Como, compiendo l'ultimo tratto
racchiusi un casse di legno, sull'autocarro di uno sconosciuto. Riprendemmo la
salita. Gli spalloni ci avevano ordinato il silenzio assoluto. Esploravano i
boschi col binocolo: «Le pattuglie di tedeschi e fascisti battono l'altro
sentiero, più a nord, ma bisogna stare in guardia». Giuliano K., alto e
biondo, l'aria inconfondibile del ragazzo svizzero, sorrideva incredulo come se
quelli esagerassero. Sotto la vetta correva la rete di confine. Gli spalloni ci
condussero dove era stato aperto un varco, ci fecero strisciare nell'erba, ci
passarono i bagagli e scomparvero senza dire una parola. Alla partenza da
Moltrasio avevano il loro compenso, sei mila lire, con l'impegno di condurci
fino ai dintorni del primo paese svizzero, Bruzzella, dove un amico ci avrebbe
raccolti. Rimasti soli, senza guida, cercammo inutilmente il gruppo dei
prigionieri americani. Erano rimasti indietro. In quel momento sentimmo
dalla parte italiana degli spari e grida, raffiche di mitra. Mi lanciai in
discesa verso un bosco di castagni, seguito da Giuliano. Una corsa senza
prendere fiato, giù nella valle, fino a imbatterci in due gendarmi svizzeri,
divisa verde e parlata ticinese. Dopo aver esaminato i nostri documenti dissero
che Giuliano, con quel cognome svizzero e i parenti molto noti a Zurigo,
poteva restare. Gentilmente mi dissero che io dovevo scegliere: «Lei rientra in
Italia ripassando dal "monte Bisbino oppure verrà accompagnato a Chiasso e
consegnato alla Polizia italiana e tedesca di confine». Le mie domande di
spiegazioni non ottennero alcun risultato. Giuliano, con una generosità che non
dimenticherò mai, disse semplicemente: «Io non lascio il mio amico, ritorno in
con lui Italia». In fondo all'anima mi sentivo contento: segretamente
avevo sperato di incontrare ostacoli insormontabili per ritornare da Speranza.
Senza convinzione mi incamminai con Giuliano quando propose: «Lasciamo che i
gendarmi si allontanino, poi rientriamo». Si sentivano i campanacci delle
vacche, verso Bruzzella. Ci inoltrammo nel folto del bosco, ma dopo pochi minuti
di discesa ecco i due gendarmi svizzeri, questa volta con il fucile spianato.
Implacabili, Ci imposero di risalire immediatamente verso la rete di confine: «Se
fate i furbi altre pattuglie vi prendono e vi portano al posto di frontiera dei
nazifascisti». Ritrovammo il buco nella rete. Le tracce del calpestio sull'erba
ci condussero a una radura verdissima su cui erano stesi i corpi di sette
soldati americani. Un altro sembrava seduto contro un cespuglio, il volto rosso
di sangue. I tre negri pendevano dai rami di una grossa quercia. La mia bocca si
riempì d'acqua; ne ricordai per anni il sapore acidulo. Incontrai lo sguardo di
Giuliano, assolutamente vuoto, e rimasi immobile accanto a lui per pochi
secondi. Di scatto, come a un comando secco, corremmo via a balzi, buttandoci
a terra nei tratti scoperti per osservare cautamente se nei dintorni c'erano
tedeschi o fascisti. Dal bosco arrivò una raffica breve. Ci nascondemmo fra i
cespugli. Dopo l'abbaiare di diversi cani, un’altra raffica velocissima.
Passò un tempo senza misura e non comparve nessuno. Non una voce. Ci rialzammo
per correre fino al sentiero che scende verso il lago, lo infilammo senza più
domandarci chi avremmo incontrato, a metà rassegnati e a metà certi di essere
protetti da ogni pericolo.
A una svolta io caddi sui lastroni scivolosi. Mi rialzai, sostando un attimo a
osservare il lago che stava assumendo i colori del tramonto. Giuliano disse:
«Un bel panorama da questo punto». Quando entrammo nel Grand Hotel di
Moltrasio il salone da pranzo, specchi dorati e lampadari di Murano, era
affollato come in una sera di pace. Il padre di Giuliano era a tavola in
compagnia
dello zio e della sua segretaria, una ragazza sui vent'anni, due trecce bionde e
il viso angelico. Al vederci si alzò con le lacrime agli occhi. Ascoltando il
nostro racconto, papà K. pianse veramente e ordinò una bottiglia di Tocaj. Ma
in quel momento comparvero due uomini col cappello in testa, giacca di pelle
nera. «Gestapo», sussurrò il cameriere. Erano seguiti da due italiani in
divisa verde. Chiesero i documenti a tutti. Un'occhiata rapida e distratta ai
nostri. Uscirono augurando buon pranzo. Dopo pochi minuti si sentì un gran
vociare dal giardino, un colpo di pistola, rumore di vetri rotti. Passò un
lungo tempo di silenzio angosciato. Infine il cameriere, pallidissimo, si piegò
sul nostro tavolo: «Quattro ebrei, quelli che pranzavano in fondo al salone,
erano passati in giardino dalla cucina. Li hanno presi, sono già in fondo al
lago con una pietra al collo». Ricordo ancora il rumore del bicchiere caduto
dalle mani dello zio senza rompersi. Volevo tornare ad Alassio, da Speranza, a
qualsiasi costo. Raggiunsi la stazione di Milano dove trovai per caso un treno
diretto a Genova, carrozze di legno prive di illuminazione. Nella notte, a
Pavia, salirono due persone e una mi sedette accanto, sulla panca semidistrutta.
Alla luce di un fiammifero vidi di fronte a me un uomo dal volto affilato, i
capelli neri incollati sulla fronte, lo sguardo fisso alla ragazza che mi era
a fianco. Mi sembrò molto bella. L’uomo afferrò un braccio della ragazza per
tirarla a sé e mormorarle qualcosa. Fece altrettanto quando il treno passò
lentamente sotto l'unico fanale di una stazione deserta. La ragazza ascoltava
e non rispondeva. Nel buio profondo e sicuro della prima galleria si strinse a
me, mi sfiorò la guancia con le labbra. I due scesero in una piccola stazione
sconosciuta. A Genova era notte. Mi avventurai alla ricerca di un albergo dove
dormire, riuscendo a evitare le pattuglie. In via Carlo Felice conoscevo un
piccolo hotel, ma i proprietari rifiutarono di parlarmi e il portiere mi
spinse fuori. A pochi passi, dietro il teatro, c'era un grande albergo
semidistrutto dalle bombe. Restavano i piani bassi, con la hall spalancata. Mi
inoltrai alla luce degli ultimi fiammiferi raccolti nelle mie tasche e raggiunsi
una stanza al primo piano, ingombra di detriti e rottami come le scale. Mi
allungai su un letto, a tastoni, con la borsa più preziosa a fianco e il
soprabito addosso. Alle prime luci dell'alba mi accorsi che nel letto vicino
dormiva un barbone. Ripresi il mio sonno, ma verso le nove fu quell’uomo a
scuotermi: «Ragazzo, da dove arrivi? Mi sembri un incosciente. Quelli come te
i fascisti e i tedeschi li spediscono in Germania, se va bene. Hai mai sentito
parlare della Casa dello studente?». Mi osservò, stupito dal mio silenzio.
«È la casa delle torture, ma lo sai che quelli torturano? Ma tu ragazzo, dove
vivi?». Tacevo sempre. «Vai via, vai via da questa città. Passa nelle strade
dove c'è più gente, senza correre. Evita i vicoli deserti». Alla stazione
Principe trovai un convoglio di carri bestiame diretto a ponente, senza una meta
conosciuta. Era una mattina di sole. Il carro bestiame era aperto dalla parte
del mare, vento da terra, colori intensi. Mi appoggiai alla sbarra di ferro,
trovandomi a fianco di un soldato tedesco con i capelli e i baffi bianchi di
buon contadino. Quando cominciai a rovistare nelle tasche alla ricerca di un po'
di tabacco per la pipa me ne offrì un pizzico sul palmo della mano. Accendemmo
insieme. Il gesto facilitò l'avvio di una conversazione a frammenti. Io
utilizzavo quel po’ di tedesco che avevo appreso dalle lezioni della baronessa
De Korff, ultima sopravvissuta degli esuli russi ad Alassio discendente (lei
diceva) di Kutuzov. Gli altri passeggeri ci guardavano con curiosità, in
silenzio. Erano quattro ragazzi, più giovani di me, e un operaio in tuta da
meccanico. Dopo un'ora di marcia lentissima il treno si fermò tra due gallerie,
a lato della strada litoranea dove sostava un autocarro tedesco. Il portellone
del carro bestiame si aprì verso monte e salirono due SS accompagnati da tre
repubblichini in divisa verde col basco nero. Il vecchio soldato tedesco che mi
era a fianco trasalì, si mise a parlare più fittamente con me, invitandomi con
lo sguardo a fingere di capire tutto e a rispondere. Disse ad alta voce: «Il
maggiore Trefz sarà contento del tuo lavoro». Le due SS mi ignorarono, dopo
aver dato un'occhiata al mio vicino. Aiutati dai repubblichini, spinsero fuori
dal carro bestiame quattro ragazzi tremanti e l’operaio, un uomo sulla
quarantina che mostrava inutilmente un pezzo di carta. Io sentivo ruscelli di
sudore freddo dalla schiena alle gambe. Uno dei repubblichini guardò con
insistenza me e il soldato tedesco che continuava a parlarmi con gesti
confidenziali, poi balzò a terra e chiuse il portellone. Il mio salvatore troncò
immediatamente la conversazione. Non trovai una parola per ringraziarlo. Le
nozioni di tedesco erano state cancellate. Nella mia mente confusa ripetevo la
domanda: «Perché lo ha fatto?». Dalla strada arrivò il rumore
dell'autocarro militare in moto per chissà dove. Afferrai la sbarra di ferro
che attraversava l'apertura del carro bestiame verso il mare, la strinsi forte
per fermare il tremito delle mie mani, improvvisamente umide. Il treno riprese
lentamente il suo cammino e noi due restammo vicini, in silenzio. A Savona ci
fecero scendere. Non vidi più il soldato tedesco. Dopo ore di attesa, si era
fatta sera, qualcuno gridò di passare su un convoglio composto di vetture di
terza classe. Fui spinto dalla folla in uno scompartimento buio che odorava
fortemente di olio di oliva e di sudore. Mi spostai a fatica nel corridoio,
stretto al fianco di una donna voluminosa. Passò uno con una lanterna e vidi
che la donna aveva i capelli lunghi, il volto grossolano. Cominciò subito a
toccarmi. «Il signorina ha perduto la lingua?» domandò arrotando le erre come
fanno molti a Savona, ma anche la gente di Alessandria. lo ero del tutto
assente, pensavo al tedesco del carro bestiame e il sudore freddo riprendeva a
bagnarmi le mani.
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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione |