Diario

Nella colonia penale

Il manoscritto di Piera Sonnino usciva sul Diario un anno fa. Sulle sue tracce, la scoperta di un grande edificio fascista in Alta Val Trebbia, carcere partigiano del 1944 e, oggi, santuario dei vinti

di Giacomo Papi

 

Doveva essere strano morire in un posto così. Tra file di letti per bambini e piccole docce dipinte di blu, scendendo grandiosi scaloni di marmo, calpestando pavimenti a mosaico, in un monumentale palazzo fascista nel mezzo di un fitto bosco di abeti. Sopra il portale si legge ancora la scritta «Gioventù italiana». All'entrata, tre lettere: «AXII», Anno dodicesimo, 1934. Fuori, la scaletta di una piscina interrata emerge dall’erba. «Era meravigliosa la Colonia, quando ci arrivammo nel 1937. Mio padre aveva accettato il posto di custode. Io avevo cinque anni. D’inverno era vuota, ma nei mesi estivi arrivavano da Genova cinquecento bambini. Qualche anno più tardi, vennero anche i tripolini, i profughi della Tripolitania, e dal 1941 qualche ragazza più grande». Laura Molinelli è una delle due figlie di Eugenio, fino agli anni Cinquanta custode di questo monumento al fascismo, la Colonia elioterapica Levillà di Pietraneta di Rovegno, nell'Alta Val Trebbia. «La prigione era al terzo piano. Mio papà ci diceva di non salire per nessun motivo perché, vede, erano tutti uomini. Ricordo il terrore di sentire, una notte d'agosto, le raffiche degli spari e delle urla. Da allora mio padre ci portò via. Lui rimase e fu anche minacciato. Era una persona molto religiosa, i partigiani lo incolpavano di essere fascista, i fascisti di essere partigiano. Capì quando gli chiesero vanghe e zappe. Si permise di domandare: “Ma non avete un po' di coscienza?” Questi risposero: “Lei stia zitto se no fa la stessa fine”. La fossa dei tedeschi l'hanno trovato subito, era nel prato, dentro c'erano una quindicina di corpi». Finita la guerra, per mesi, Eugenio Molinelli indicò dove scavare. Sono capitato in questo luogo - dove la morte la calpesti e la guerra sembra appena finita - seguendo le tracce di Piera Sonnino, l'autrice dello straordinario manoscritto che Diario ha pubblicato nello scorso speciale sulla Memoria e che oggi è diventato un libro. Per scrivere la postfazione (la prefazione è di Enrico Deaglio) ho ripercorso le tappe italiane della fuga degli otto componenti della famiglia Sonnino, prima di essere catturati dai fascisti e sterminati ad Auschwitz dai nazisti. Le strade di Genova dove abitarono, e Chiavari dove si trovavano l’8 settembre, fino a Pietranera, la piccola frazione di Rovegno in cui per circa un mese, nell’ottobre 1943, cercarono di rendersi invisibili. Sono arrivato in un giorno di settembre 2003, sessant’anni esatti dopo. Ho chiesto agli anziani e molti ricordavano. Luciana Mazzoni, che gestisce l’unica osteria del paese, mi ha parlato dei due grandi rastrellamenti dell’agosto e del dicembre 1944. L'immagine di un ragazzo morto in cima alla strada e quella dei tedeschi che scendevano dalla montagna. Ha puntato l’indice a sud, al di là del bosco: «I partigiani stavano là, nella Colonia. Ogni mattina si sentivano gli spari delle fucilazioni. È andata avanti tanto così». Esci dal paese, percorri meno di un chilometro, poi svolti in una strada sterrata dentro un bosco e all’improvviso te la trovi davanti. È un po' malandata, il grande portone è aperto, dentro c'è un mondo divelto e granitico. Una sala cinema, un grande refettorio circolare che poteva essere usato anche come sala da ballo e ampie camerate ovunque. Di fianco all'ingresso, una lapide brunita recita: «Da questa colonia divenuta la loro prigione, non fecero ritorno 129 militari e civili della Repubblica sociale italiana e 31 soldati germanici. Molti altri ancora riposano per sempre in questi boschi, senza una croce. Per loro e per chi attese, oltre ogni speranza, una preghiera. Rovegno, 22 marzo/30 aprile 1945». Segue post scriptum: «Questa lapide, danneggiata da ignoti vandali nella primavera del 2000 è stata ripristinata dall'amministrazione provinciale di Genova nel gennaio 2001». Qui ogni anno si danno convegno un centinaio di persone. Vecchi signori in camicia nera, ma anche tanti giovani, arditi, arrabbiati o soltanto abbruttiti. A celebrare sono gruppi come l'Unione combattenti della Repubblica sociale italiana, gli Amici di Fra Ginepro o l'Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi della Rsi. Dall’estate del 1944 fino alla fine della guerra, l’edificio fu utilizzato come ospedale e carcere dai partigiani della VI Zona Operativa. Al bar del paese ti dicono che l'ha appena comprata Berlusconi. «Ci piacerebbe tanto», scherza Antonio Moroni, presidente dell'immobiliare San Martino di Paderno Dugnano, in provincia di Milano, che ha acquistato l'edificio dalla Provincia per 270.100 euro. «Il costo previsto complessivo non sarà però inferiore ai 6 milioni di euro. Entro il 2008 qui sorgerà una casa di riposo per anziani e un centro di riabilitazione per ogni tipo di ammalato». I lavori inizieranno tra qualche tempo. E forse, svanirà, finalmente, il fascino malsano di questo gigantesco santuario dei vinti. La polvere di ogni retorica e semplificazione ti si scrolla di dosso, e la verità appare semplice: in guerra si muore e da ogni morto germoglia memoria. Non ci metti molto a capire che la famiglia Sonnino non aveva molte possibilità di salvarsi. Era fuggita su strade e paesi tra i più pericolosi di tutto il Nord Italia. Lasciarono Chiavari per Pietranera alle fine del settembre 1943, camminando di notte sulla statale 45, la strada che collega la Liguria al piacentino, passando vicini a Favale, dove si era formato il primo nucleo della Resistenza ligure. La stessa strada che avevano percorso Aldo Gastaldi (il leggendario comandante Bisagno), in fuga con i suoi uomini da Chiavari, e il comandante fascista Spiotta, pure di Chiavari. La stessa strada che ben presto i nazisti, gli alpini del Monte Rosa, la Decima Mas e la Brigata nera, avrebbero conteso ai partigiani. Luoghi dove si sarebbe razziato e ucciso ogni giorno. A differenza di altri paesi della zona, Rovegno non sorge sulla via principale, ma un po' più in alto e all'interno, a metà di una sorta di anello che parte dalla statale 45 per ricongiungersi a essa qualche chilometro più a sud. Da un punto di vista militare era una postazione molto difendibile e controllarla aveva grande importanza strategica. Nel suo libro Partigiani in Val Trebbia, Antonio Testa (il partigiano Baffo) scrive che Rovegno cadde quasi da subito nelle mani dei partigiani, anche se non fu un controllo continuo. Per Dino D'Angela, autore di Note su Rovegno, la solidarietà della popolazione fu meno diffusa e meno immediata. Certamente, per aiutare la Resistenza Valeria Isola Canevari, addetta ai servizi annonari del Comune, riuscì a farsi inviare dalla Sepram (l'organismo fascista che gestiva il rifornimento di generi razionati) più viveri del necessario e distribuì, fino al giugno 1944, quasi duemila carte d'identità false ai renitenti e ai disertori sfollati nella zona. Certamente, i registri del Comune furono trafugati nel cimitero per impedire i controlli ai tedeschi e ai fascisti. Scrive Testa: «Unici rappresentanti dell’autorità governativa erano rimasti, fino al giugno 1944, i carabinieri, finché non furono disarmati dagli uomini della Brigata Jori». La stazione dei carabinieri, cui erano stati aggregati una quindicina di soldati della Guardia Nazionale Repubblicana, fu presa il4 giugno 1944. Quando i partigiani arrivarono per la prima volta alla Colonia nel 1943, Laura Mulinelli aveva 11 anni: «Bivaccavano lì qualche giorno, ma sparivano quando arrivava notizia dei rastrellamenti. A quel punto, transitavano tedeschi, fascisti e gli alpini del battaglione Monterosa». Anche quando, dall’anno dopo, la Colonia divenne un centro di comando «i partigiani non erano fissi, si spostavano in continuazione». Nel 1944 la signora Teresa Cappellini aveva 19 anni: «Bisognava stare con quelli che passavano. A quei tempi, quando si è giovani, erano tutti belli. Noi eravamo amici con i partigiani, venivano giù a casa quasi tutte le sere e mia mamma o che ci dava un po' di pane o che ci dava un fiasco di latte. Nel rastrellamento dell'agosto del 1944 i tedeschi ammazzarono due di Rovegno. Uno era il mio vicino di casa, Isola Giuseppe». I nazisti scelsero di stabilirsi in paese, all'albergo Belvedere, perché temevano che la Colonia fosse stata minata. Ricorda la signora Cappellini: «Una sera stavamo dicendo il rosario, quando sentimmo un rumore alla porta. Erano i tedeschi. Mi ricordo questo tedesco che chiese: "Quanti essere in famiglia". Ci spiegò che doveva fare mangiare 230 persone. Mia madre andò di sopra e prese mezza formaggina. Il tedesco lo pretese tutto». Passati i tedeschi, vennero quelli della Decima Mas che per qualche giorno razziarono polli e bestiame. A settembre i partigiani ritor­narono alla Colonia. La fine della guerra pareva questione di giorni. Invece arrivò l'autunno e venne il freddo. Tutti ricordano di quando gli aerei inglesi lanciarono armi e viveri. «Mi ricordo che io e due tre amiche salimmo alla Colonia e con la tela dei paracadute cucimmo le mutande ai partigiani», racconta Teresa Cappellini. Quando lo riferisco ad Antonio Testa, si mette a ridere: «Può ben darsi che quella signora abbia cucito le mie di mutande. Bisagno mi mandò a Casanova di Rovegno e dopo sei giorni tre aerei lanciarono il bendidio. Viveri, armi, munizioni e qualche abito perché eravamo quasi nudi». Era novembre. Il giorno 4 circa 300 alpini della Monterosa si arrendevano a Gastaldi. Il 13, radio Italia Combatte trasmise il proclama del generale Alexander che rimandava ogni intervento alla primavera successiva. Un altro inverno di fame, di freddo, di guerra spalancava le fauci. Tedeschi e fascisti lanciavano volantini in cui si prometteva un «Inverno di sangue». Ricominciarono i rastrellamenti. E alla Colonia decisero la prima grande fucilazione. Racconta Carlo Viale, 50 anni, segretario dell'associazione Amici di Fra Ginepro, militante dell'Unione combattenti della Rsi e autore del libro Fratricidio: «Non potendo resistere sul posto al rastrellamento, portarono via i prigionieri, Morì anche un prete partigiano, loro dicono per sbaglio, ma da altre testimonianze pare che si fosse opposto, Ne fucilarono una trentina sopra Fontanigorda». Il paese di Fontanigorda, a pochi chilometri da Pietranera, è famoso per la raccolta Ballo a Fontanigorda del poeta Giorgio Caproni che in quegli anni era maestro elementare proprio a Loco di Rovegno. Tra i suoi alunni c'era Teresa Cappellini: «Ricordo che ci faceva cantare Va' pensiero. Aveva una fidanzata, ma morì. Allora ci chiamò intorno alla cattedra e, piangendo, lesse una sua poesia per lei. Vedendo il nostro maestro in lacrime, scoppiammo tutte a piangere. C'era solo un ragazzo, Angiulin, che era rimasto al banco e rideva». In una lettera del 1954, Caproni ricorda, tessendo insieme opera e vita: «Trascorsi qui, in zona partigiana, gli interi diciannove mesi dell'Italia divisa in due, e qui misi i primi capelli bianchi assistendo con Rina e coi bambini (che più d'una volta hanno dovuto dormire sulla nuda neve) a indicibili scene d'orrore. E fu qui che scrissi "prima" i miei primi versi di Ballo a Fontanigorda (Fontanigorda è un paese arroccato qualche centinaio di metri più su di Loco), e "poi", mentre i mongoli attruppati coi tedeschi (turchestani e mongoli autentici) stavano scannando maiali e persone, i miei versi più cupi e chiusi: i "lamenti"». Nel primo di essi, Giorgio Caproni fa risuonare una domanda che vale per tutti i vivi e i morti di allora: «E questo è il lutto / dei figli? E chi si salverà dal vento / muto sui morti - da tanto distrutto / pianto, mentre nel petto lo sgomento / della vita più insorge?». I mongoli giunsero a Rovegno a dicembre. Ricorda la signora Cappellini: «Dicevano che i mongoli prendevano le ragazze e così mia madre ci nascose nella stalla sotto le foglie. Diceva che non bastava la preoccupazione per i figli maschi». Facevano parte, con georgiani e turchestani (ex prigionieri di guerra sovietici riaddestrati dai nazisti) della LXIV Divisione Turkestan del generale von Heidendorff. Per i partigiani, e per la popolazione, fu il periodo più duro. Di fronte all'avanzata, Bisagno aveva ideato il «piano delle buche», rifugi scavati sotto terra e ricoperti di foglie dove poteva nascondersi mezza dozzina di persone. Dei mongoli, scrive Giambattista Lazagna nel libro Ponte rotto, «quel che colpisce e soprattutto impressiona è il loro bestiale ululare. Sembrano gli urli di un branco di bestie scatenato sulla preda». Anche sugli stupri, le testimonianze concordano. Scrive un medico di Rocchetta: «Ragazze e maritate sono ripetutamente violentate, mentre i padri, i fratelli, il marito, sono tenuti a bada con le armi … A Cornareto, madre e figlia, in una stessa camera, sono costrette per tutta la notte a subire le violenze di un gruppo di esseri immondi». Il rastrellamento terminò all'inizio di gennaio, ma nei monti della Val Trebbia la temperatura poteva scendere a 20 gradi sottozero. La situazione è disperata, bestiale, ma come recita un comunicato del 17 gennaio, «le formazioni della zona malgrado le perdite, hanno rioccupato le posizioni primitive e stanno raggiungendo, nella grande maggioranza, la loro piena efficienza facendosi già sentire dal nemico con puntate offensive». Lo racconta Giampaolo Pausa in Guerra partigiana tra Genova e il Po (la sua tesi di laurea ripubblicata nel 1998, un testo in cui i partigiani erano ancora «patrioti» e il tono tendeva all’eroico): «Preoccupato che questi isolati episodi di violenza potessero assumere proporzioni più gravi, il 21 gennaio il comando della VI zona ligure (quella che controlla la Colonia, ndr) inviò a tutte le formazioni un severo ammonimento: «Sia curata la pulizia personale; non si tengano i capelli lunghi e barboni che non permettono la pulizia e danno un aspetto da briganti da operetta. Si rispettino inoltre i civili e non si tocchi la loro proprietà». L'inverno stava per finire, la Resistenza aveva retto e la primavera era in arrivo. Forse l'avvicinarsi della fine allentò le regole, da entrambe le parti, e proprio per questo la violenza aumentò. Anche nella Colonia di Pietranera, dove i feriti giacevano per terra e i prigionieri aspettavano. Il 12 marzo 1945, vengono portati alla Colonia 44 tra russi e tedeschi e 83 fascisti della Brigata nera, catturati a Garbagna, in val Grue. «I giovanissimi, che erano molti, furono lasciati liberi», recita il rapporto del 25 marzo. Ne vengono fucilati 39, dopo una marcia di due giorni e due notti, come rappresaglia all' eccidio di Cravasco dove erano morti 17 detenuti politici delle carceri di Marassi (altra rappresaglia nazista per l'uccisione di sette tedeschi). Alla Colonia Antonio Testa arriva il 20 aprile, accecato dalle schegge di una delle 170 mine che i tedeschi, prima di fuggire, avevano lasciato intorno alla Casa dello studente di Torriglia e che Testa, incaricato da Bisagno, stava tentando di disinnescare. «Ero cieco, perdevo sangue, mi portarono alla Colonia di Rovegno», mi racconta Testa. «Era il 20 aprile 1945. Bisagno andò a Fontanigorda e portò da me un oculista che mi tolse le schegge. So che c'erano dei prigionieri. Ho saputo solo dopo che c'erano stati dei fucilati. Ma in tutta la guerra io non ho mai notato episodi di accanimento gratuito. Quando sentivamo parlare di violenza inutile, eravamo tutti rammaricati. Ricordo che lo stesso Bisagno si infuriava». «Bisagno era soprattutto un militare», ricorda Testa. Morì il 28 maggio 1945, schiacciato da un rimorchio che viaggiava con lui sul tetto di un camion. Aveva soltanto 24 anni. Si era sempre speso, da cattolico, perché la Resistenza non assumesse connotazioni politiche. «Io rispetto Aldo Gastaldi perché era tra i meno sanguinari, ma anche lui andò in montagna solo per non essere deportato in Germania e perché non fossero deportati i suoi uomini. Se l'8 settembre avessero vinto i fascisti, lui fisicamente o moralmente sarebbe stato sotto palazzo Venezia». È l'opinione di Carlo Viale, il fascista cinquantenne dell'Unione combattenti della Rsi. Che aggiunge: «Tra i partigiani, gli unici che avevano una spinta ideale erano i comunisti, che secondo me erano addestrati a essere dei killer, ma che rispetto, perché combattevano da sempre contro il fascismo. Vede, io giudico alla stessa maniera le ultime dichiarazioni di Fini e le leggi razziali, come lo stesso italico modo di leccare il culo ai potenti, ai potenti stranieri. Dovendo scegliere se buttare dalla torre Fini o Bertinotti, butterei giù Fini perché un avversario è sempre degno di rispetto, un voltagabbana è un voltagabbana». Nei prati, nei boschi intorno alla Colonia sono stati recuperati 129 cadaveri di cui soltanto una parte è stata identificata. In maggioranza si tratta di italiani, quasi tutti delle formazioni fasciste, ma ci sono anche 30 tedeschi. I civili sono tre: due donne e un giudice in pensione di Chiavari. I loro resti furono sepolti in un cimitero costruito apposta dopo la guerra. Un cimitero che oggi, dopo che le famiglie hanno recuperato i loro caduti, è quasi vuoto. Nel commissariato di Rovegno mi mostrano i certificati di morte. Il numero 114, datato 25 aprile 1946, parla di un cadavere «si presume militare tedesco» dalla «capeliattura bionda», ucciso forse nel dicembre 1944. Era un nazista, ma di fronte a quelle poche note, rimani in silenzio. C'è chi pensa che molti siano ancora nella terra. Carlo Viale ipotizza: «Io ritengo che ci siano almeno altri 100 corpi. Tenga presente che un documento della Questura dell'epoca parlava di 600 morti». «In ogni caso, le testimonianze sono abbastanza chiare: chi contava di più fu tenuto in vita fino al 25 aprile in vista di uno scambio che la fine della guerra rese inutile. Si continuò a fucilare fino al 29-30 aprile». La guerra è brutta. In guerra si muore e si diventa cattivi. E la «bella morte» non esiste. Sembra questa, oggi, la differenza più profonda tra gli eredi dei partigiani e gli eredi di Salò. Per i primi, la chiave dell'eroismo risiede in un'esistenza esemplare, che la morte precoce fotografa. Per gli altri, è la morte stessa, se avviene in battaglia, a nobilitare la vita e le scelte. Forse per questo hai la sensazione che i «vinti.» vorrebbero più eroi da mostrare e che il solo collante a unirli risieda ormai in questo cul­to eroico dei morti. Il 2 aprile 1945, la guerra finiva e la disciplina si allentava. Con la stanchezza, il peggio dell'uomo veniva fuori. I comandanti Scrivia e Moro della Pinan-Cichero scrivevano A tutti i comandi dipendenti: «Siamo venuti sui monti con altri sentimenti; abbiamo lottato e sofferto, tanti nostri compagni sono caduti, hanno versato sangue per ottenere la pace, la libertà e soprattutto l'onestà. Quello che c'è in noi di sporco è ancora fascismo». 

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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione

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