Diario
Compagni di un cammino
Al liceo D’Azeglio,
all’università, nelle passeggiate in montagna e poi nel lager: amici e amiche
attraversano la vita e lasciano traccia nella scrittura di primo Levi
di Massimiliano Boschi
«La
prima pattuglia russa giunse in vista
del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi
a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Somogyl, il
primo dei morti fra i nostri compagni di camera». La liberazione di Auschwitz
colse Primo Levi con la morte addosso e non in senso metaforico, lo raccontò
lui stesso ne La Tregua. «Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché
a fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il
berretto a salvare i vivi e i morti (...) Charles ed io sostammo presso la buca
ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo
con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni». Charles, un uomo alto
e robusto che di cognome fa Conreau, è ancora vivo e si gode il meritato riposo
a Lusse, un paesino sui Vosgi. La moglie permette che si scambino quattro
chiacchiere con lui solo dopo averne ricordato l'età: «Monsieur, Charles ha
novantuno anni». Ma non c'è bisogno di raccomandazioni, a un uomo che
raggiunge
quell'età dopo essere passato da Auschwitz non si vogliono fare troppe
domande, bastano i complimenti. Charles giunse all' «anus mundi» Auschwitz
nell'ottobre del 1944: gli affibbiarono una misera divisa a righe con un
triangolo rosso sul petto in quanto partigiano, e gli tatuarono il numero 200258
sul polso. Al suo confronto Levi era un veterano, «marchiato» con il numero
174517 nel febbraio del 1944. «Con Primo diventammo amici nonostante le
avversità e ci tenemmo in contatto anche dopo la guerra, io ho continuato a
fare il maestro fino alla pensione e Levi venne a trovarci a casa un paio di
volte». Anche Charles, naturalmente, non ha dimenticato quel 27 gennaio: «Fummo
i primi a scorgere l'arrivo dei soldati dell'Armata Rossa ma, come ha scritto
Primo, non ci fu nessun festeggiamento». La liberazione coincise, infatti,
racconta Levi, con un «dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai
margini dalla coscienza, di altri più urgenti dolori: il dolore dell'esilio,
della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza
perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno». Charles non fu l'unico amico di
cui Levi scrisse. Oltre a quelli descritti in Se questo è un uomo come
Alberto (Dalla Volta), Lorenzo (Perone) e Jean (Samuel) raccontò dei suoi
compagni di liceo, di università e di passeggiate in montagna. Rileggere questi
scritti, meno noti, consente un viaggio tra timori, pensieri ed emozioni di
Levi, studente, chimico e scrittore. Ne sono un esempio i due racconti dedicati
ai compagni di liceo classico del D'Azeglio: il primo intitolato «Idrogeno»
fa parte de Il sistema
periodico. «Ero affascinato
da Enrico, non era molto attivo, e il suo rendimento scolastico era scarso, ma
aveva virtù che lo distinguevano da tutti gli altri della classe e faceva cose
che nessun altro faceva». In «Idrogeno», il racconto di questa amicizia
divenne un pretesto per raccontare il suo modo di intendere gli studi di
chimica: «Non avevamo dubbi: saremmo stati chimici, ma le nostre aspettazioni e
speranze erano diverse. Enrico chiedeva alla chimica, ragionevolmente, gli
strumenti per il guadagno e per una vita sicura. Io chiedevo tutt’altro: per
me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze sicure, che
avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco,
simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola
attendevo la mia legge, l'ordine intorno a me e nel mondo. Capirò tutto ma non
come LORO vogliono. Troverò una
scorciatoia, rifarò un grimaldello, forzerò le porte». Ma, mentre Levi, pur
non cessando di essere un chimico, trovò notorietà internazionale
come scrittore, Enrico o meglio Mario Piacenza, così si chiamava il compagno
di classe a cui si era ispirato Levi, divenne noto proprio grazie alla chimica.
Nel dopoguerra si trasferì in Perù dove fondò un'impresa che, a quanto pare,
lo rese molto ricco. Piacenza, amante della pittura, creò, nel 1962, «la
Bienal de Pintura de Teknoqulmica» e, oggi, nel Paese andino, viene ancora
ricordato come il grande «mecenate della plastica» per la sua straordinaria
passione per le combinazioni chimiche necessarie alla creazione di materiale.
Sempre in America Latina, ma questa volta in Argentina, si trasferì un altro
compagno di classe: Pierluigi Olivetti. Quest'ultimo emigrò dopo l'emissione
delle leggi razziali del 1938 e rimase in Argentina fino al 1963 quando decise
di tornare in Italia in dissenso con l'ideologia e le frange estreme del
peronismo. Tornato a Milano riprese i contatti con Levi che soprannominò «el
memorioso». A un altro compagno di classe Levi dedicò, invece, il racconto «Un
ultimo duello». Protagonista Guido: «Un giovane barbaro dal corpo scultoreo
intelligente ed ambizioso, invidiava i miei successi scolastici; io
simmetricamente,
invidiavo i suoi muscoli, la sua statura, la sua bellezza e le sue precoci
libidini». Nel racconto Levi narra degli ostinati e ripetuti duelli atletici
tra lui, ebreo, e l'ariano Guido: tra l'intelligenza e la forza. Levi chiuse il
racconto con un interrogativo sul futuro del compagno: «Di Guido ho perso le
tracce, e non so quindi chi di noi due abbia riportato la vittoria nella gara di
gran fondo della vita; ma non ho dimenticato quello strano legame che forse
amicizia non era, e che ci ha uniti e divisi». L'unico Guido che compare tra i
compagni di liceo di Levi è Guido Borgialli, originario di Favria, dove torna
ancora spesso la sorella Maria Luisa: «Levi non si riferiva a mio fratello, non
gli corrisponde né fisicamente né caratterialmente. Mio fratello preferiva il
jazz allo sport, anzi nostro padre si preoccupava che la musica non lo
distraesse troppo dagli studi. Preoccupazione inutile: Guido dopo il liceo, si
laureò al Politecnico e divenne uno stimato ingegnere». Il compagno a cui si
ispirò Levi per «Un lungo duello» è quindi destinato a rimanere anonimo. Ne
conosce il nome e cognome Carole Angier, la studiosa inglese autrice di una
monumentale e accuratissima biografia di Levi, ma non ha inteso rivelarlo. «Nell’edizione
inglese mi sono limitata a chiamarlo «The sportsman». («L'atleta» nella versione italiana che sta per essere
pubblicata da Mondadori). È certo però che la “gara di gran fondo della
vita” l'ha vinta Levi. Me l'ha confermato lo stesso Sportsman, lasciando
intendere che, dopo la guerra, essendo stato un noto personaggio durante il
fascismo, fu costretto ad un banale lavoro. A suo dire le posizioni migliori se
le sono accaparrate i vincitori». Terminate le sfide con Guido, nel 1937 Levi
si presentò all'esame di maturità, con un curriculum scolastico prestigioso e
privo di insufficienze senza però essere il primo della classe. Escluso Ennio
Artom, che era un vero e proprio genio, i voti più alti furono quelli di
Maurizio Panetti, uno studente modello che proseguì gli studi in chimica
laureandosi, ovviamente, con lode. A Levi, invece, toccò l'onta della
bocciatura in italiano: prese tre nel tema e fu quindi costretto a ripetere
l'esame a ottobre. Fu l'unico maschio bocciato in italiano di tutto il liceo.
Unica sua compagna di sventura fu una donna, anch'essa destinata a una vita
intrisa di letteratura: Fernanda Pivano, che ricordò l'episodio della
bocciatura in un articolo del Corriere
della Sera pubblicato il 18
aprile 1987, una settimana dopo la morte di Primo: «Fummo gli unici due
bocciati del liceo. Mi pare che il professore si chiamasse Pasero. L'episodio mi
ritornò alla mente quando diedero il Nobel per la pace a Elie Wiesel, anche per
i suoi meriti nella divulgazione del dramma ebraico dell'Olocausto. Pensai a
un'altra ingiustizia, pensai che Levi si era trovato di fronte a un altro tre
di italiano dato da un professore di cui non si conosce neanche il nome».
Alcuni biografi scrissero che il tre fu dovuto al rifiuto di Levi di scrivere un
tema inneggiante alla guerra, questo valse probabilmente per Fernanda Pivano, ma
non certo per Primo, scombussolato per altri motivi: «All'antivigilia del primo
esame, il tema scritto d’italiano, ricevetti nel luglio 1937, una minacciosa
cartolina rossa intestata al ministero della Guerra per comunicazioni urgenti.
Ci andai col cuore presago, trovai accanto a me un altro adolescente che (la
cosa non è mai stata chiarita) si chiamava Levi anche lui, e davanti a me un
energumeno in divisa fascista, che ci investì con
una valanga di insulti accuse e minacce.
Era scarlatto in viso, in preda ad un parossismo di collera; ci accusò
nientemeno che di tentata diserzione. Eravamo due vigliacchi: secondo lui, non
avevamo risposto ad una precedente chiamata, allo scopo evidente di evitare il
servizio militare nella Regia Marina: sì perché proprio noi due eravamo stati
estratti a sorte a Torino per la leva di mare. Ventiquattro mesi di ferma non ce
li levava nessuno. (..) Tornai a casa terrorizzato; il giorno dopo consegnai un
tema a d’italiano striminzito e demenziale, tanto che, giustamente, mi presi
un tre, fui escluso dalla prova orale e rimandato ad ottobre. Era la prima
insufficienza della mia immacolata carriera scolastica e mi suonò poco meno che
come una condanna all'ergastolo». Per evitare la leva in Marina, decise quindi
di arruolarsi, subito dopo la prova d'appello d'italiano, nella Milizia
Volontaria per la Sicurezza Nazionale (la Mvsn). «Mi iscrissi all'università e
mi trovai nei panni di milite universitario. A quel tempo non ero né fascista né
antifascista; vestire una divisa non mi dava
alcuna fierezza, bensì un
impreciso fastidio (soprattutto per via degli stivali»). Levi riuscì così a
evirare la Marina che sarebbe stato davvero il colmo per un «montanaro» come
lui. Aveva incominciato ad arrampicarsi attorno ai quattordici anni, sulle vette
di Cogne, di Bardonecchia e di Torre Pellice. Più avanti rinnovò le escursioni
col compagno di classe Giorgio Lattes, che gli rimase amico per tutta la vita.
Una passione per la montagna condivisa da altri compagni, tra cui il geniale
Ennio Artom che a 15 anni già collaborava con la Utet e faceva traduzioni per
la Einaudi. Parlava sei lingue ed era un esperto di latino e greco, ma non
disdegnava confrontarsi anche con l'ebraico e l’aramaico. Fu proprio un banale
incidente di montagna a causarne la morte, poco più che ventenne. Durante le
vacanze estive del 1940 scivolò e sbatté la testa contro una pietra. Fu, però,
con i compagni di università che Levi si diede al vero e proprio alpinismo e
proprio a un compagno di studi ed escursioni dedicò il racconto «Ferro» inserito
ne Il sistema periodico: «Fuori
dalle mura dell'istituto di chimica era notte, la notte dell’Europa:
Chamberlain era ritornato giocato da Monaco, Hitler era entrato a Praga senza
sparare un colpo, Franco aveva piegato Barcellona e sedeva a Madrid. L'Italia
fascista, pirata minore, aveva occupato l'Albania, e la premonizione della
catastrofe imminente si condensava come una rugiada viscida per le case e nelle
strade, nei discorsi cauti e nelle coscienze assopite. (...) In mezzo a noi
Sandro era un isolato. Era un ragazzo di statura media, magro ma muscoloso, che
neanche nei giorni più freddi portava mai il cappello. (. . .) Da pochi mesi
erano state proclamate le leggi razziali e stavo diventando un isolato anch'io».
Con Sandro nacque quindi un forte legame e, una domenica di febbraio del 1939,
partirono insieme per un'avventurosa ascensione, «il peggio che ci possa
capitare è di assaggiare la carne dell'orso» gli aveva preannunciato Sandro.
In effetti sbagliarono percorso a causa della nebbia e sopraggiunse la notte
prima che potessero intraprendere la discesa. Dormirono in quota serrati uno
contro l'altro, al riparo di un muretto a secco costruito da loro stessi. Fu in
quel modo che Levi assaggiò la «carne dell’orso»: «Ora che sono passati
molti anni», scrisse Levi nel 1961, «rimpiango di averne mangiata poco, poiché
di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto neppure alla
lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi,
liberi anche di sbagliare e padroni del proprio destino. Perciò sono grato
a Sandra per avermi messo coscientemente nei guai, in quella ed in altre imprese
insensate solo in apparenza, e so con certezza che queste mi hanno servito più
tardi». Compagna di Levi e Delmastro in ascensioni meno avventurose fu la
fidanzata di Delmastro, Esther, che non ha lasciato Torino, dove ancora abita.
«Sandro era un fenomeno nell'arrampicarsi, si allenava con il fratello e spesso
mi tirava su di peso. Con Levi andavamo spesso in Val di Susa e al Sestriere,
anche d’inverno con le pelli di foca sotto gli sci. Con loro ricordo anche
delle splendide giornate al Valentino, dove andavamo negli intervalli tra le
lezioni di chimica. Mi ricordo che Levi insisteva per fare “tarare” il mio
ginocchio per prevedere con certezza il meteo». La guerra interruppe non solo
le passeggiate: Levi venne deportato e con lui molti altri amici, tra cui la zia
di Esther, Lina, che fu compagna di viaggio nel ritorno a casa che Levi ha
descritto ne La tregua. Sandro Delmastro morì invece nel 1944. «Come
Levi, anche io e Sandro entrammo a far parte della Resistenza», ricorda Esther.
«lo lavoravo alla diffusione della stampa clandestina fino a quando non mi
arrestarono nel luglio del 1944. Sandro nonostante la passione per la
montagna, non evitò la leva in Marina. Dopo l’8 settembre, fuggì e si aggregò
ai partigiani prima in Val Pellice poi a Torino. Venne arrestato a Cuneo su un
treno. Durante l'interrogatorio in caserma approfittò di un attimo di
distrazione per fuggire, ma un ragazzino di 15 anni in divisa nera lo inseguì e
lo uccise con una mitragliata. Il cadavere di Sandro venne lasciato per la
strada per un'intera giornata». Prima della guerra Levi aveva conosciuto una
ragazza che si era avvicinata al gruppo dei ragazzi ebrei, subito dopo le
leggi razziali. Un’amicizia che si rinsaldò durante la detenzione nei lager,
perché fu lei, Bianca Guidetti Serra, a passare informazioni su Primo alla
famiglia. Il legame proseguì dopo la guerra, con numerose gite in montagna. «Erano
più che altro passeggiate. Mi ero avvicinata a Levi e al suo gruppo dopo le
leggi razziali, mentre altri li isolarono»; ricorda Bianca Guidetti Serra,
avvocato da sempre schierata a difesa delle libertà e contro i soprusi. «Abbiamo
proseguito queste camminate per anni, fin quasi alla morte di Levi. D’altra
parte per i torinesi le gite in collina o in montagna sono un'abitudine».
Compagno occasionale di passeggiate di Levi sull’altopiano di Asiago, fu
anche Mario Rigoni Stern, che a queste dedicò il racconto «L'altra
mattina sugli sci con Primo Levi», pubblicato da Einaudi ne
I sentieri sotto la neve. Meta
preferita di Levi rimase però la Val di Lanzo, ricordata anche in
un’occasione speciale, durante la sua visita alle Twin Towers del 1985: «Dal
tetto del duplice World Trade Center la vista è vertiginosa come da una vetta
alpina: le pareti scendono a picco per quattrocento metri e si vedono in fondo
veicoli e pedoni brulicare come insetti frenetici. Nella splendida baia,
groviglio di isole, canali, istmi, la Statua della Libertà è una nana, ma
l’opuscolo che descrive i due colossi gemelli esagera. “Non sarete mai stati
altrettanto vicini alle stelle!” ... Basta andare a Lanzo». Nonostante l'esperienza nei lager, tra gli amici di Levi figurò anche un tedesco: il
professar Hans Engert: Nel dopoguerra gli era capitato più di una volta di
utilizzare la lingua tedesca e, in un’occasione, per congedarsi da alcuni
funzionari della Bayer, incappò in uno strafalcione linguistico «Spiegai loro
che non avevo imparato il tedesco a scuola, bensì in un lager di nome
Auschwitz, ne nacque un certo imbarazzo». Forse fu in quell'occasione che Levi
incominciò a meditare di iscriversi a un corso di tedesco e di tornare a
scuola: «Ho superato le barriere della timidezza e della pigrizia, ed a
sessant'anni compiuti mi sono iscritto ai corsi di un istituto molto serio dove
si insegna una lingua straniera che conosco male. Volevo conoscerla meglio per
pura curiosità intellettuale: ne avevo imparato gli elementi a orecchio, in
condizioni disagiate, e l’avevo poi usata per anni per ragioni di lavoro,
badando al sodo, cioè a capire e a farmi capire». Era il 1978 e il racconto di
questo ritorno tra i banchi, pubblicato ne L'altrui mestiere è
semplicemente delizioso. Fu appunto in questa occasione che Levi strinse una
forte amicizia con il suo insegnante di tedesco Hans Engert. Del loro rapporto
di amicizia fu testimone la professoressa Pabst, che ancora oggi insegna al
Goethe di Torino: «Engert era una persona di una cultura e intelligenza
notevoli e probabilmente influì molto nel fare cambiare opinione a Levi sui
tedeschi e sulla lingua tedesca. Io sostituii Engert per alcune supplenze fino
al 1981 e ricordo Levi sempre affabile e gentile e soprattutto
straordinariamente curioso di ogni cosa riguardante la Germania. Successivamente
divenni io l'insegnante di Levi perché Hans Engert, nel 1981, si tolse la vita
in seguito a una brutta storia». Sei anni dopo, l’11 aprile 1987, anche Levi
pose fine ai suoi giorni. Ma prima, agli amici conosciuti tra i banchi, nei
lager o passeggiando in Val di Lanzo, Levi aveva dedicato una poesia, scritta il
16 dicembre 1985.
«Cari amici, qui dico amici / Nel senso vasto della parola: Moglie, sorella, sodali, parenti, Compagne e compagni di scuola, Persone viste una volta sola / O praticate per tutta la vita: Purché fra noi, per almeno un momento, Sia stato teso un segmento, Una corda ben definita. Dico per voi, compagni d'un cammino / Folto, non privo di fatica, E per voi pure, che avete perduto / L’anima, l'animo, la voglia di vita. O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu / Che mi leggi: ricorda il tempo, Prima che s'indurisse la cera, Quando ognuno era come un sigillo. Di noi ciascuno reca l’impronta / Dell'amico incontrato per via; In ognuno la traccia di ognuno. Per il bene od il male, In saggezza o in follia / Ognuno stampato da ognuno. Ora che il tempo urge da presso, che le imprese sono finite / A Voi tutti l'augurio sommesso / Che l’autunno sia lungo e mite».
(Si ringraziano Carole Angier, Carla Beltrandi, Elena Praschini Odermatt, Rita Rosati e il prof. Brandone del Liceo D'Azeglio di Torino)
©diario
della settimana |
Via
Melzo, 9 - 20129 Milano - Tel. 02 27711800 - Fax 02 2046261 |
Internet: http://www.diario.it/ - Email: redazione@diario.it |
da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione |