Diario
Il
pianista ritrovato
Un
film bellissimo e pregiatissimo con cui Roman Polanski ha aiutato la Polonia a
meditare sul proprio passato
di Francesco M. Cataluccio
«Non
è un nuovo capitolo sul martirio degli ebrei, è la storia di un artista che
sopravvive all'orrore dell'Olocausto, grazie alla musica. Szpilman fu rinchiuso
nel ghetto di Varsavia dai nazisti, fu vittima di indescrivibili umiliazioni e
sofferenze, e riuscì, lui da solo, a sottrarsi alla deportazione nel lager e a
nascondersi tra le rovine della città e alla fine fu un ufficiale tedesco,
appassionato di musica, a salvargli la vita. (...) Malgrado la tragedia è una
storia piena di speranza e di ottimismo, questa è forse la ragione per cui ho
voluto farlo». Così Roman Polanski spiegava e giustificava (Il
mio omaggio
all'Olocausto, in la
Repubblica, 16 febbraio 2001) il suo ultimo lavoro, Il pianista (2002),
uno dei film più belli e premiati degli ultimi anni. Naturalmente le questioni
che questa storia porta alla luce sono molto più complesse di quelle che
Polanski ha prudentemente sottolineato. Prima fra tutte quella del valore
della memoria come salvezza. Vale la pena di ricordare che la pellicola, che ha
permesso a Polanski di trovare la forza di ricordare e raccontare per la prima
volta la sua vicenda di piccolo recluso nel ghetto di Cracovia, si ispira
fedelmente, fin nei minimi dettagli, alle memorie del pianista polacco Wladyslaw
Szpilman, scritte subito dopo la guerra. Allora, le autorità comuniste,
per calcolo politico (un tedesco non
poteva apparire buono e giusto), censurarono l'edizione del 1946 bloccandone la
circolazione. Soltanto nel 1998 il libro uscì in Polonia, presso la casa
editrice Znak di Cracovia, riscuotendo un grande successo (trad.it.,
dall'inglese, Il Pianista, Baldini e Castoldi, 1999) e suscitando accese
discussioni. La storia inizia con un'interruzione: il 23 settembre 1939, mentre
le bombe tedesche piovevano su Varsavia, il ventottenne promettente pianista
Szpilman suonava imperturbabile, negli studi della radio, il Notturno in do
diesis minore di Chopin. Il rumore attorno
era tale che gli era impossibile sentire il suono che usciva dal suo strumento.
Quella fu l'ultima trasmissione dal vivo della Radio polacca. Pochi minuti dopo,
una bomba distrusse la centrale elettrica e la stazione radio polacca fu ridotta
al silenzio. Ma, nel 1945, la prima trasmissione della risorta radio polacca fu
proprio quel concerto suonato dal sopravvissuto Szpilman che riattaccò
esattamente da quel punto dove era stato fermato, quasi a voler dire che tutta
la tragedia passata era un lungo attimo di pausa tra due note. Szpilman sostiene
paradossalmente - come se i suoi concerti di prima della guerra non fossero
esistiti che la sua carriera di pianista iniziò durante la guerra, alla
Kawiarna Nowoczesna (Caffè moderno), che si trovava nella via Nowolipki,
proprio nel cuore del ghetto: «Quando nel novembre del 1940 i cancelli del
ghetto vennero chiusi, la mia famiglia ormai da molto tempo aveva venduto
tutto quello che si poteva vendere, e persi quello che noi consideravamo il
nostro bene più prezioso: il pianoforte. La vita, alla quale quei tempi avevano
tolto ogni valore, mi costrinse tuttavia a vincere la mia apatia e a cercare un
modo per guadagnarmi da vivere». Ma il lavoro di suonatore in un caffé del
ghetto durò poco, anche se continuò ad aver a che fare con i pianoforti. La diciottenne
Mary Berg, nel suo straordinario diario, Il ghetto
di Varsavia (Einaudi, 1991),
annotava il 5 ottobre del 1942:
«Su uno di questi carri ho riconosciuto il nostro grande pianista Wladyslaw
Szpilman. Il suo aspetto mi ha spaventata: era magro ed emaciato e l'abito gli
pendeva addosso come un sacco. Le maniche erano coperte di toppe e il colletto
lacero. Portava appeso al braccio un sacchetto con del pane. I suoi occhi erano
profondamente cerchiati e respirava faticosamente. (...) Quando arrivò il turno
di Szpilman lo sentii soffocare un grido ogni volta che doveva sollevare un
mobile pesante. Lui e i suoi due aiutanti lottarono a lungo con un pianoforte a
coda che continuava a ricadere sul carro emettendo lunghe vibrazioni. A un
tratto, un tedesco che aveva osservato la scena è corso nella strada
e ha cominciato a insultare Szpilman. Costui ha accennato per giustificarsi
alle gambe pesanti del pianoforte, ma ha avuto in risposta uno schiaffo». Dal
ghetto, Szpilman riuscì a fuggire prima di essere deportato verso qualche campo
di sterminio e prima che scoppiasse la rivolta degli ultimi sopravvissuti.
Rimase nascosto grazie agli amici polacchi, fino alla rivolta della città
contro i tedeschi nell'agosto del 1944. Mentre i tedeschi evacuavano la città e
lui si nascondeva tra le macerie di un palazzo, fu scoperto da un ufficiale
della Wehrmacht, Wilm Hosenfeld, «l'unico essere umano con indosso l'uniforme
tedesca che io abbia mai conosciuto», che gli chiese di suonare, su un
pianoforte sopravvissuto alle distruzioni, quello stesso notturno di Chopin che
aveva ascoltato anni prima nel suo carro armato mentre avanzava verso Varsavia.
Quel tedesco lo aiutò a nascondersi, salvandolo. Un libro strano, con un finale
sorprendente, che ha rimesso in gioco molte questioni relative alla vicenda
dello sterminio degli ebrei in Polonia, mettendo un po’ in ombra la figura del
piccolo ebreo polacco, protagonista di uno dei più sconvolgenti romanzi sulla
Seconda guerra mondiale, The Painted Bird (1965) (trad. it. L’uccello
dipinto, Longanesi 1967) di Jerzy Kosinski: la vicenda, in parte
autobiografica, del bambino abbandonato che vaga per le campagne polacche invase
dai tedeschi, perseguitato da contadini rozzi e violentemente antisemiti, fino a
perdere l'uso della parola. Anche questo libro, considerato dal potere comunista
un oltraggio al popolo, fu messo all'indice (e soltanto nel 1989 è stato
pubblicato a Varsavia dalla casa editrice Czytelnik). Qualcuno infatti si è
chiesto perché non a quella storia, così simile alla sua, Polanski si sia
ispirato. Il regista polacco invece si è sentito più «sicuro» con il libro
di Szpilman, sostenendo sinceramente: «È una storia vera, ma non è la mia,
posso raccontarla con il distacco necessario. Ma è una storia che conosco bene,
conosco il posto, le facce, gli umori, il dolore, scrivendo con lo
sceneggiatore Ronald Harwood gli ho suggerito continuamente
qualcosa, un dettaglio, una battuta, un gesto. Sì, in ogni episodio c'è
qualcosa che viene dalla mia memoria». Polanski si è attenuto fedelmente
al testo. Non c'era bisogno di aggiungere niente. In questi casi il rischio di
sbavature retoriche è, ovviamente, fortissimo. E non è nel suo carattere,
con le tragedie che la vita gli ha riservato, di abbandonarsi
all'autocommiserazione. Avrebbe rischiato di compromettere il valore di quella
testimonianza. Sapeva benissimo che questo genere di film, su una materia così
scottante come l'Olocausto, scatenano polemiche infinite (basti pensare a
Spielberg, a Benigni, al suo connazionale Wajda) che avvolgono queste storie
di una cortina artificiosa che non aiuta a cogliere il vero messaggio in esse
contenuto. Eppure Il Pianista ha toccato questioni molto controverse.
Anzitutto quella della vita quotidiana nei ghetti. Un tema sempre
sottaciuto, anche dalla storiografia, per un comprensibile rispetto verso le
vittime. Mai un film prima aveva dato una rappresentazione così cruda. Szpilman
e Polanski mostrano con grande precisione come dietro quei muri vi fossero ebrei
complici dei tedeschi, come i membri della Ghetto-Polizei alle dirette dipendenze
dell’Autogovemo ebraico (Judenrat). Nel 1993, la drammatica
testimonianza di uno di questi, Calel Perechodnik
(Sono un
assassino? Autodifesa di un
poliziotto ebreo, Feltrinelli,
1996), aveva suscitato molte polemiche in Polonia e all' estero. Ma la cosa più
sconcertante è vedere come tra «i sommesi» ci fossero dei privilegiati,
che si arrangiavano tra loschi traffici e contrabbandi tra dentro e
fuori. Vittime divenute
oppressori che sfruttavano la debole situazione nella quale si erano venute a
trovare migliaia di persone strappate da un giorno all'altro, come loro, alla
vita normale. Nel film (come nei sadici documentari girati dai tedeschi) si
vedono bambini che morivano di fame sui marciapiedi e musicisti, come Szpilman,
che allietavano i ricchi clienti in lussuosi locali con prostitute. Polanski ha
spiegato bene che non si può giudicare oggi dalla nostra comoda posizione: solo
chi è stato in quell’inferno può comprendere o condannare. Lui non lo fa:
quella lotta tra vittime per sopravvivere gli pare, nell’anormalità delle
condizioni, quasi normale. Su questo argomento in genere si scatenano, e non
sono mancate in Polonia come in altri Paesi europei dove è stato
proiettato il film, le speculazioni di coloro che approfittando di questi
episodi pensano di trovare argomenti a sostegno delle loro idee antisemite.
Ma invece la condanna deve essere sempre indirizzata verso coloro che hanno
messo le persone nelle condizioni di lottare gli uni contro gli altri per la
sopravvivenza. Coloro che si sono comportati come Giusti sono stati pochi (o
anche troppi, date le condizioni nelle quali si trovavano), e nessuno ha il
diritto di giudicare le vittime, anche se qualcuna di loro si è resa
complice dei carnefici. L’altro
aspetto, estremamente delicato, è il rapporto tra Olocausto ed ebraicità. Sia
Szpilman che Polanski hanno anche qui un atteggiamento assai distaccato; il
pianista addirittura provocatorio. In una conversazione, poco prima di morire,
con Benedetta Craveri (L’ultimo concerto di
radio Varsavia, in la
Repubblica, 22 aprile 1999) Szpilman ha detto: “Non rinnego affatto le
mie origini ebraiche ma non mi sono mai sentito ebreo. Mi sono sempre e solo
sentito polacco. La mia famiglia era completamente assimilata, i miei genitori -
mio padre era violinista, mia madre pianista - ci avevano dato nomi polacchi, ci
parlavano in polacco, non erano religiosi e a casa non avevamo adottato il
calendario delle feste ebraiche. (...) La tragedia non mi ha cambiato, non mi
sento più ebreo di prima, continuo a sentirmi solo polacco, e adoro ascoltare
i discorsi del papa. . . ». Né nel libro, né tantomeno nel film,
l'antisemitismo dei polacchi viene sottolineato. Szpilman mette in luce un
paradosso della Polonia di quegli anni, che spesso è stato trascurato:
"Per quel che mi riguarda devo il fatto di essermi salvato all'aiuto datomi
da dei polacchi che si dichiaravano antisemiti, da un ebreo
collaborazionista e da un ufficiale
tedesco». Nella sua ultima intervista, pubblicata postuma, sul quotidiano
polacco Rzeczpospolita (12 ottobre
2002), Szpilman insiste molto sull'innocenza dei polacchi: «Nel mondo esiste
l'odio. Non si può però generalizzare dicendo che il nostro popolo è
antisemita. A Yad Vashem ci sono 5.600 alberelli che ricordano i polacchi che
misero a repentaglio la propria vita per salvare gli ebrei. Non è così facile
rischiare la propria vita quando si ha una famiglia». Queste impressioni non
possono ovviamente essere assunte a valore di verità universale: non tutti i
polacchi antisemiti (come la scrittrice cattolica Zofia Kossak, o diversi
partigiani che militavano nelle file dell'Esercito nazionale, AK), ed erano a
varia intensità gran parte della popolazione, si dimostrarono generosi con gli
ebrei; quando non contribuirono, per odio o interesse, a perseguitarli (come nel
caso del villaggio di Jedbawne) ebbero, nella grande maggioranza, un
atteggiamento di indifferenza verso l'annientamento dei loro connazionali ebrei.
Qualcuno, anche in Polonia, ha sostenuto che il libro e il film calcano troppo
la mano, nella parte finale, sul buon tedesco salvatore (il che spiega il grande
successo dell'opera in Germania). Esempio anche questo certamente non molto
frequente, né tipico, tra i soldati di Hitler. Szpilman però, partendo dalla
sua incredibile esperienza, diceva di essersi riconciliato anche con tutto il
popolo tedesco. Il suo libro, nella parte finale, riporta anche notizia di
come scoprì che quell’ufficiale tedesco si era dato da fare, sin dall'inizio
della guerra, per salvare altri ebrei. Fu rinchiuso poi in un campo di prigionia
vicino a Varsavia e deportato in Unione Sovietica, dove morì negli anni
Cinquanta,
nonostante i ripetuti tentativi di Szpilman, che si era anche incontrato con
la sua famiglia, di salvarlo. I suoi eredi ritrovarono anni fa il suo diario
(alcune pagine sono riportate in appendice al libro di Szpilman), che è un
documento terribile dei tormenti di un tedesco non accecato dal fanatismo
hitleriano e che non voleva soltanto stare a guardare l'orrore che i suoi
connazionali producevano. Va detto, per completezza di informazione, che
nonostante molte personalità polacche (prima fra tutte il figlio di Szpilman,
Andrzej) e tedesche, tra le quali il poeta e cantautore Wolf Biermann (il cui
padre ebreo fu vittima dell'Olocausto), abbiano perorato la causa affinché
anche all'ufficiale Wilm Hosenfeld venisse dedicato un albero nel Giardino dei
Giusti di Gerusalemme, i giudici di Yad Vashem, presieduti da Mordechai
Paldiel, hanno sinora respinto la richiesta sostenendo che era un ufficiale
tedesco che aveva preso parte a una guerra di sterminio e che non ci sono prove
sufficienti a dimostrare che egli aiutò veramente gli ebrei e non si limitò a
farsi suonare Chopin da un disperato, in mezzo alle montagne di macerie della
città che lui e i suoi commilitoni avevano distrutto (la notizia è stata
riportata dal quotidiano israeliano Ha'aretz dell’11 novembre 2002).
Polanski, nel suo film, si ferma prima del racconto del destino successivo del
tedesco. Non vuol mettere altra carne al fuoco. E lascia meglio, rispetto
al libro, il mistero di questa strana amicizia tra un soldato e un fuggiasco
uniti dalla passione della musica. Infatti, al di là del valore di
testimonianza, la storia del pianista Szpilman ha qualcosa di molto intrigante
che tocca la questione della musica come salvezza. Pochi hanno sottolineato
questo aspetto della vicenda, anche perché esso è sepolto sotto il peso
della tragedia.
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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione |