Diario
Mai senza sinistra
L’impressione è che mai nella
storia i vecchi nemici – gli ebrei e la destra – siano stati così vicini.
Eppure …
di Roberto Festa
Il palazzo è grigio, basso, incastrato tra la
Stazione Centrale e Porta Venezia dove la Milano anni Trenta si mischia alle
vecchie case ottocentesche di immigrati e giovani in carriera. Sul citofono c'è
una sigla, AEP. Si sale e al primo piano la porta è aperta su un bilocale
anonimo. Un banchetto all'ingresso, una cucina a sinistra e di fronte la sala
con una trentina di persone che apparecchiano la tavola. Le sedie sono di
plastica bianca, da terrazza. In fondo l'Aron ha-Kodesh, l’armadio sacro con i
rotoli della Torah, e il parochet, la tenda ornamentale. È venerdì
sera, alla sinagoga Lev Chadash inizia Shabbath. Le donne portano a tavola
piatti di carta, i ragazzi fanno gruppo a parte, seduti per terra attorno al
banchetto. «Siamo ormai duecento», mi
dice orgoglioso Carlo, «con ottanta nuovi
membri nell’ultimo anno». La Lev Chadash raccoglie gli ebrei milanesi
riformati (AEP sta per Associazione per l'Ebraismo Progressivo). Forti negli
Stati Uniti, in Inghilterra, pochi in Italia, con due sinagoghe a Milano e molti
problemi con le sfere ufficiali. Nelle sinagoghe progressive le donne pregano
a fianco degli uomini, sono ben accetti i rabbini gay e l'identità è trasmessa
dal padre come dalla madre. «Stiamo per assumere un nuovo rabbino, viene
dall’Inghilterra», annunciano questi discepoli di David Goldberg, rabbi liberaI
e autore di Verso
la Terra promessa (il
Mulino),
bellissima storia del pensiero sionista. Tra gli ebrei della Lev Chadash molti
sono insegnanti, giornalisti, ricercatori universitari. Progressisti, aperti,
hanno perlopiù tra i trenta e i cinquant’anni e una militanza di sinistra alle
spalle. «Qui non c'è nessuno a favore di Sharon», ridono. Eppure anche in
quest’isola eterodossa scattano non appena accenni a militanza politica e
integrazione. «Ho rotto con alcuni amici di sinistra con i quali avevo creato
un forum di discussione in Rete», racconta Andrea Tema del contendere: il
conflitto israelo-palestinese. Lia, esule argentina e dirigente di una scuola
pubblica, si sente dire dalle colleghe ammirate che «lei non sembra
un’ebrea come gli altri». Luca ha provato a chiedere ad amici e conoscenti
quanti ebrei ci sono in Italia. «Mi rispondono: da cinquecentomila a due
milioni». Gli ebrei italiani non arrivano a 50 mila: «La percezione è che
siamo molti, che contano molto». La Lev Chadash sente, come sentono le tante
altre anime dell’ebraismo italiano, il vuoto impercettibile del disagio,
l’amarezza per la fiducia tradita a sinistra. «Il problema è che tutti gli
ebrei avvertono un pregiudizio contro di loro. I non ebrei fanno fatica a
capirlo»,
spiega Fernando Liuzzi, funzionario sindacale e membro del gruppo Martin
Buber di Roma. A nessuno la situazione appare così grave come in Francia, con
sinagoghe bruciate, cimiteri violati e il 62 per cento degli attacchi razzisti
del 2002 compiuti contro ebrei (l’1 per cento della popolazione). Mentre il 30
dicembre dalle pagine di Le Monde sette intellettuali francesi si
proponevano di ristabilire la fiducia tra gli «ebrei di Francia e la Francia»,
un umorista, Dieudonné, andava in televisione, si travestiva da ebreo
ortodosso e urlava «Heil Israeh». «Da noi parlerei invece di un antigiudaismo
inconsapevole, latente», continua Liuzzi. Che sia la battuta della Guzzanti,
gli ebrei da caricatura di Vauro, l’idea di Israele «minaccia per la pace» e
guida della globalizzazione finanziaria, l'antigiudaismo avanza tranquillo e
ignorante di sé. «Non ho dubbi che molti di coloro che riproducono
stereotipi antigiudaici mi ospiterebbero a casa loro, nel caso di persecuzioni»,
ammette Liuzzi. Il vecchio antisemitismo cosciente, ostinato, alla Telesio
Interlandi o Giovanni Preziosi, non esiste più. Il nuovo antigiudaismo ha
spesso il volto sereno e la buona coscienza di chi crede sinceramente alla
tolleranza e lotta contro il razzismo. «L'ebreo ride con Dio o contro Dio, mai
senza Dio», ha scritto Elie Wiesel. Bruno Di Porto, ministro laico della Lev
Chadash, trasforma la citazione: «L'ebreo può essere pro o contro la
sinistra, mai senza sinistra». Perché il vero oggetto amato e odiato per tanti
ebrei italiani, anche progressisti, è proprio la compagna di tante battaglie.
Marina Del Monte, psicologa, si occupa di tossicodipendenze e Aids. «L'ebraismo
mi ha portato a lavorare con le differenze». Atea, ebrea «per cultura»,
consigliere di Rifondazione comunista a Ciampino e parte della rete di «Ebrei
contro l'occupazione», Marina ha fatto la sua scelta tanti anni fa,
schierandosi per i diritti dei palestinesi. Eppure anche lei racconta la fatica
di «certi incontri in sezione, con i giovani del partito, a spiegare la
politica di Israele, a correggere un’avversione che spesso si trasforma in
antiebraismo». L'età della war on terror impone scelte nette, o di qua
o di là: «Compagni di origine ebraica si sono allontanati dalla comunità»,
racconta, «altri hanno invece abbandonato il partito». Lei cerca di tenere
insieme i pezzi: continua a pagare le tasse a Lungotevere Cenci, resta
comunista: «A qualcosa serve. Bertinotti non ha dato il patrocinio di
Rifondazione a due recenti manifestazioni romane per la Palestina e contro il
Muro. Non c'era la garanzia che non comparissero slogan antisemiti e gente
travestita da kamikaze». La storia della crisi tra mondo ebraico e parte della
sinistra è d’altra parte antica, risale agli anni Cinquanta con
l'avvicinamento tra Urss e mondo arabo e si conclude simbolicamente il 5
giugno 1967, quando Israele attacca Egitto, Siria, Giordania e il Pci si
dimostra più sensibile alle sorti del fronte arabo. «Fino a quel momento gran
parte degli ebrei italiani aveva sempre votato a sinistra», spiega David
Bidussa, storico e direttore della Fondazione Feltrinelli. «Con il 1967 c'è
uno spostamento verso il polo laico-repubblicano, liberale, ma la
pregiudiziale
antifascista resta comunque essenziale per gli ebrei». Non mancheranno altre
occasioni di scontro: la guerra dello Yom Kippur, il Libano e quella bara
scaraventata dalla Cgil di Luciano Lama davanti al Tempio durante una
manifestazione sindacale. Dice Bidussa: «Ogni generazione ha un’immagine, un
libro, un film che ne segnano la crescita. Per gli ebrei più giovani
quell'immagine è la sinistra che porta una bara davanti al Tempio». Oggi le
preferenze elettorali degli ebrei italiani tendono a riprodurre quelle del
Paese: «li voto degli ebrei è sempre stato in sintonia con la maggioranza»,
spiega un altro storico, Simon Levis. «Il Paese si è spostato a destra, il
voto ebraico si è spostato». Anche se poi, aggiunge Levis, «la comunità vota
più a sinistra rispetto al resto dell'elettorato». Succede in altri Paesi
dell'Occidente: alle ultime elezioni americane gli ebrei hanno dato il 78 per
cento dei loro voti ad Al Gore, il 19 per cento a Bush. «E le classi dirigenti,
gli intellettuali ebrei appartengono ancor oggi quasi tutti allo schieramento
di sinistra», ricorda Bidussa. Il rabbino Toaff, Tullia Zevi, oggi Amos
Luzzato vengono da esperienze, militanze, culture progressiste. Cos'è allora quest’aria di ralliement
che
prende ebrei e destra, l'impressione che mai nella storia i vecchi nemici
siano stati così vicini, i sospetti di antisemitismo e complotto spazzati via
dai balletti tra Sharon e Berlusconi, dal viaggio di Fini, dalle liste di destra
che vincono le elezioni nelle comunità di Roma e Milano? Per spiegarlo vale la
pena di ascoltare Victor Magiar, 46 anni, ebreo libico dal 1967 a Roma, fuggito
alle persecuzioni dopo che a Tripoli, a dieci anni, montava nella notte la
guardia alla casa dei genitori per prevenire attacchi arabi (Magiar ha
raccontato
quella storia in un romanzo, E venne la notte, Giuntina). «L'evento
che struttura l’identità degli ebrei provenienti dal nord-Africa non è la
Shoah, ma sono le persecuzioni arabe», racconta. Gli ebrei che a partire dal
1948, e poi nel 1956, nel 1967, dopo la rivoluzione khomeinista del 1979
arrivano in Italia (soprattutto quelli dall’Iran e dall’Iraq) portano con sé
un dato identitario che non è la storia nazionale, il Risorgimento, lo Stato
liberale, il fascismo e la liberazione. «Mia nonna conosceva la madre dei
Rosselli», racconta Fernando Liuzzi del Martin Buber, «Io sono di Firenze,
per me i Rosselli appartenevano al paesaggio
familiare. Non ho dovuto fare nessuno sforzo per diventare antifascista e di
sinistra». Per gli ebrei che sono arrivati qui dopo il 1945 «il nemico che
perseguita è l’arabo. La pregiudiziale antifascista non c’è più», come
spiega Bidussa. Per uno dei tanti ebrei persiani che si sono ritrovati a Milano
dopo il 1979 (per Bidussa «Milano è una meta indifferente, come potrebbe
essere New York o Londra»), le parole d'ordine della lotta al nazifascismo
dicono molto poco: «Sono estranei alla politica, vogliono poter lavorare,
votano il partito che garantisce loro diritti e interessi». Su questo - sull’avversione al panarabismo, al nazionalismo arabo che reagisce alla
fondazione d'Israele - nasce quindi la nuova convergenza
tra ebrei e destra. «Qual è la linea politica e culturale che in Italia
eredita una forte componente anti-terzomondista?», si chiede Bidussa, «Larghi
segmenti di Forza Italia e Alleanza nazionale, che Fini vuol far diventare il
nuovo partito moderato». Dall'esodo forzato di migliaia di ebrei che lasciano
Alessandria d’Egitto, Bengasi, Algeri, Beirut, Casablanca, le città e le
rotte che sul Mediterraneo avevano intrecciato secoli, commerci, tradizioni,
uomini e idee si ridefinisce il movimento ebraico europeo. La pregiudiziale
antifascista che aveva segnato l'identità di una generazione di ebrei europei
si trasforma in diffidenza verso il mondo arabo e si lega al sentire dei
moderati italiani ed europei. L'esilio di chi è da secoli abituato ad andarsene
si sovrappone del resto a un altro esilio, quello palestinese. A ferita si
aggiunge ferita, a torto altro torto. L'evento catastrofico della Shoah - sacralizzato
nella Memoria - stinge nel passato sostituito dalle nuove paure. «Perché
se la più piccola sinagoga oggi è blindata, se ogni atto della nostra vita è
a rischio, lo dobbiamo non alla Shoah, ma alla guerra in Israele», racconta
Victor Magiar. Per cercare di dare corpo ai fantasmi Magiar cita Nasser e la
tesi della bomba demografica, il «possiamo perdere cento battaglie, ci basta
vincere l'ultima». Gli arabi dell'area sono centinaia di milioni, gli ebrei
d'Israele cinque milioni. «Sono tornate le paure di cento anni fa». Dietro
il volto di potenza occupante dell'Israele di Sharon si indovinano le debolezze:
la guerra della «natalità» con gli arabo-palestinesi, la certezza
dell’accerchiamento, il presagio di nuove sciagure. Jonathan Sacks, rabbino
inglese, ha scritto che l'antisemitismo del Ventunesimo secolo si definisce
come odio per Israele e non più per il singolo ebreo. Il nemico da distruggere
è ora lo Stato ebraico, non più colui che rifiuta l'assimilazione. Per questo
ogni ebreo della Diaspora continua a essere legato a filo doppio con Israele,
immagine di un sé perennemente sotto assedio e insieme
promessa di liberazione. lo Stato ebraico,
il «posto sulla luna» dove vivere al riparo dai pericoli del mondo, è garanzia
di emancipazione e fonte indissolubile di identità, specchio attraverso cui
gli ebrei vedono se stessi e lente attraverso cui i non ebrei vedono gli ebrei.
«Tutto finisce per ruotare attorno a Israele», dice Fernando Liuzzi. Per
Victor Magiar «quando amici non ebrei ti invitano a cena, ti trovi
irrimediabilmente
di fronte alla domanda su Israele. E anche se sei d'accordo sul fatto che la
situazione palestinese è disperata, devi comunque giustificarti per quello che
fa Sharon. È una situazione paradossale, un martello che ci sta maciullando
psicologicamente». Marina Del Monte esordisce come ebrea nella vita pubblica
«per dire che Sharon non parla a mio nome». Anche qui l'identificazione
funziona, sia pure per opposizione. «Lottiamo come folli per avere esistenze
private con destini individuali», scriveva Hannah Arendt dei vecchi ebrei. Ai
nuovi ebrei riesce sempre più difficile, perché il passato e la guerra
incatenano a un destino collettivo che riduce le scelte, impone le solidarietà,
definisce di fronte al mondo. «Gli ebrei sono quasi sempre visti sotto la
categoria della colpa: colpa degli altri verso gli ebrei, colpa degli ebrei
verso il mondo», dice Andrea della Lev Chadash. Sta qui forse la radice di
quell’incomprensione di cui parla Fernando Liuzzi: mentre i non ebrei
alternano senso di colpa e insofferenza per la cocciuta fedeltà della Diaspora
a Israele, gli ebrei intrecciano voglia di normalizzazione e decisione a non
essere mai più Schlemiel, la vittima sfortunata delle avversità. «Non
faremo l'errore degli ebrei italiani, che nel 1939 dicevano “noi non siamo
come gli ebrei tedeschi”. La nostra sorte è la stessa degli ebrei d'Israele»,
spiega Bruno Di Porto della Lev Chadash. Ad alcuni non sfugge il rischio che
questo comporta per la stessa identità ebraica. Yasha Reibman, portavoce della
Comunità milanese, ha in una recente intervista affermato che lui sta «con
Israele», mentre Emanuele Fiano, consigliere comunale, starebbe «con i Ds».
Victor Magiar giudica le dichiarazioni di Reibman «abominevoli»: «Vogliono
suggerire che Reibman è un ebreo migliore perché sta con Israele». «Tra gli
ebrei c'è chi ha scelto la Diaspora e chi l'esilio», sintetizza David Bidussa,
«La Diaspora è vivere con gli altri sapendo che la propria identità può
esserne trasformata. l'esilio è vivere in un perenne altro da Israele credendo
che la propria identità sia inattaccabile». Un gronde rabbino di Chicago,
Bernhard Felsenthal, disse un giorno: «Etnicamente sono un ebreo, perché sono
nato nella nazione ebraica. Politicamente sono un americano, ma spiritualmente
sono un tedesco, perché la mia vita interiore è stata profondamente
influenzata da Schiller, Goethe, Kant». Il migliore ebraismo è sempre stato
capace di intrecciare dottrine mosaiche, etica, culture nazionali. A inizio
Novecento, alle porte di Cuneo, lo storico Arnaldo Momigliano ascoltava lo Zohar
dallo zio Amadio, mentre il cugino Felice gli leggeva Spinoza, Mazzini,
Renan. È questa ricchezza che «gli agitatori», come li chiama Victor Magiar -
Reibman,
Riccardo Pacifici, Fiamma
Nirenstein - «cercano di ridurre alla sola fedeltà a Israele». «In questo
momento nel mondo ebraico vince chi pensa che l’identità sia
indossare una scarpa sola», aggiunge Bidussa. Nel suo ufficio dei Ds milanesi,
Emanuele Fiano, figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz, racconta di essere
arrivato alla presidenza della Comunità milanese alcuni anni fa per una «reazione
di laicità» degli ebrei della città. Passando poi alla politica attiva «ho
pensato che il mio ebraismo potesse essere utile nella transizione italiana
alla società multiculturale. Gli ebrei sono sempre stati una sentinella
efficace contro ogni forma di razzismo». Ma anche Fiano, a un certo punto, dice
di aver provato «una grande solitudine»: «La mia battaglia di laicità è
stata battuta». Le istanze più ortodosse - per esempio quelle degli ebrei
orientali e dei lubavitch che forniscono ogni sorta di servizio alla comunità
(macellazione, preghiera, scuola) - hanno finito per prevalere. Per Bidussa «la
classe dirigente ebraica, in gran parte ancora italiana, si trova a gestire
una comunità che non è più quella dell'ebraismo riformato italiano».
L’evoluzione della scuola ebraica milanese racconta questa storia. «Il peso
della religione è molto aumentato», dice Daniele Segre, laureando in Farmacia,
studente della scuola dai tre ai diciannove anni, «laico da parte di padre e
religioso da parte di madre. Ai miei tempi la scuola offriva un corso di studi
simile a quello delle scuole pubbliche, l'ebraismo era soltanto una parte del
curriculum». Oggi, dopo l'uscita di scena del preside-rabbino Davide Nizza, la
scuola mostra i segni di profondi contrasti interni: «Molti genitori chiedono
un'educazione più religiosa per i loro figli», dice un'insegnante. «Ne sono
uscito appena in tempo», conclude Daniele. Un vecchio motto ebraico dice: «Non
devi terminare il lavoro». La Storia continua, il tempo è infinito e questa,
anche per gli ebrei italiani, non è certo la fine della storia. I prossimi anni
chiariranno idee, scelte, attitudini. Il mondo ebraico conosce in fondo processi
che sono globali: l’affievolirsi della Memoria travolta dai nuovi conflitti,
il prevalere delle identità etniche su quelle più generali. «Per noi la
questione della terra ha sempre avuto una valenza simbolica», spiega Susanna
Sinigaglia, un’altra ebrea milanese divisa tra dubbi e appartenenza, «e gli
ebrei sono sempre stati tenuti insieme dalla dimensione culturale e religiosa.
Se la terra diventa un luogo reale, e viene identificata con il sangue, la
nostra ricchezza è finita». Le grandi organizzazioni collettive tendono a
sfiorire ovunque. Le solidarietà si rifanno alla famiglia, al clan, alle parole
ascoltate da bambini, a quelle ripetute da secoli nei luoghi di culto. Un
membro della Lev Chadash, un passato nella lotta armata e problemi con la
giustizia, racconta: «Quando è finita la fede nel comunismo, i compagni mi
dicevano: “almeno tu sei ebreo”». L'ebreo, ivri, è «chi viene
dall’altra parte». Colui che attraversa il fiume, il nomade, lo straniero
anche a se stesso. Dopo duemila anni è più che umano che molti ebrei non
vogliano più sentirsi nomadi. Il rischio è che quella libertà - sentirsi
stranieri, felicemente, anche a se stessi - scompaia dal nostro paesaggio.
Vale per gli ebrei, vale per tutti.
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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione |