1935-1944:
un «decennio osceno» raccontato dallo scrittore romeno-ebreo Mihail Sebastian.
Il suo Diario accende il dibattito su antisemitismo e complicità
filonaziste in Romania
di
Norman Manea – traduzione di Marco Cugno
Norman Manea è nato a Burdujeni-Suceava
(Bucovina-Romania)
nel 1936. Per le sue origini ebraiche, nel 1941, sotto il regime
del Maresciallo Antonescu, viene deportato, con la sua famiglia, in un lager
della Transnistria (Ucraina). Rimpatriato a nove anni (il nonno materno,
libraio, e la nonna muoiono durante la deportazione), ha la rivelazione della
magia della parola nel primo libro che riceve in dono, le novelle del grande
narratore moldavo Ion Creanga, alle quali lo scrittore fa risalire, idealmente,
la sua iniziazione alla «chimera della scrittura». Adolescente, vive
l'illusione dell'Utopia comunista, da cui ben presto prende con lucidità le
distanze. Pur attratto dalla letteratura, sceglie una facoltà scientifica (è
il periodo che verrà definito in seguito «ossessivo decennio», quando ogni
spiraglio di libertà in ambito artistico-letterario è precluso), laureandosi
in Ingegneria a Bucarest e praticando la professione, in cantiere e come
ricercatore, fino al 1974, quando riuscirà a dedicarsi interamente
all’attività di scrittore. Esordisce nel 1966con il racconto Ferro
da stiro per l'amore e pubblica il suo primo libro di racconti (La notte
sul lato lungo) nel 1969, nel periodo della cosiddetta «liberalizzazione».
Seguiranno altri due volumi di racconti (Le prime porte, 1975, e
Ottobre, ore otto, 1981), cinque romanzi (Prigionieri, 1970; Atrium,
1974; Il libro del figlio, 1976; I giorni e il gioco, 1977;
La busta nera, 1986) e due volumi di saggi (Gli anni di
apprendistato del Povero Augusto, 1979; Di contorno, 1984). Nel
1986, ottiene una borsa di studio a Berlino Ovest, dove soggiorna per un
anno. Successivamente, scegliendo definitivamente l'esilio, si stabilisce a New
York, dove tuttora vive, insegnando cultura europea al Bard College. È, attualmente,
lo scrittore romeno più tradotto. Ottiene numerosi riconoscimenti
internazionali, tra i quali, nel 2002, il premio Nonino. In Italia ha
pubblicato: Ottobre, ore otto (racconti, Serra e Riva, Milano 1990; nuova
edizione definitiva il Saggiatore, Milano 1998); Un paradiso forzato (racconti),
Feltrinelli, Milano 1994; Clown, il dittatore e l'artista (saggi), il
Saggiatore, Milano 1995(nuova edizione accresciuta, Est, 1999); La
busta nera (romanzo), Baldini-Castoldi-Dalai, Milano 1999. Per la fine
di marzo è annunciata l'uscita presso il Saggiatore del libro di memorie Il
ritorno dell’huligano (Marco Cugno).
Nella
difficile transizione verso
la democrazia, i Paesi dell'Europa dell'Est sono sottoposti a due sollecitazioni
principali, in un movimento simultaneo che va in direzioni opposte: avanti
e indietro. Il movimento in avanti riguarda il contratto con il futuro:
l’adeguamento alle esigenze economico-sociali del mondo capitalista e
l'accreditamento internazionale. Il movimento all'indietro dipende dalla
riconsiderazione critica della storia precedente il periodo del comunismo e
quella del periodo comunista stesso, manipolata e falsificata dall'ideologia e
dagli interessi del Partito unico dello stato totalitario. Dopo il 1989, questa
tensione è stata di frequente avvertita nella vita quotidiana dell’Europa
dell'Est. In Romania, la questione dell'ammissione dei Paesi ex comunisti nella
Nato ha prodotto un appassionato impegno a favore della Nato di quasi tutto
l'arco politico. Il passato traumatico del Paese, visto come risultato
dell'aggressività del vicino d'Oriente e del tradimento dell'Occidente
piuttosto che delle carenze della vita politica romena, pareva essere, di colpo,
sanabile dalla promessa di un avvenire integrato, stabilmente, nella comunità
occidentale. Questo euforico momento politico, legato al futuro, si è
sovrapposto a un momento culturale, legato al passato. La prospettiva rinnovata
del futuro della Romania si confrontava con una complicata retrospettiva: la
pubblicazione del Diario (1935-1944) dello scrittore romeno-ebreo
Mihail Sebastian. La cronaca degli anni neri del nazismo ridava impulso al
dibattito sull’antisemitismo e sull'Olocausto in Romania, argomenti che taluni
avrebbero preferito ignorare. L’importante volume di Sebastian -
in
corso di stampa in alcuni Paesieuropei e che meriterebbe di essere pubblicato
anche negli Stati Uniti - ricostruisce le deformazioni di un decennio durante
il quale «ognuno era diventato una rotellina nell'immensa fabbrica antisemita
che era lo Stato romeno». La monotonia della vita quotidiana, con le letture,
gli amori, la povertà, gli incontri tra amici, mette intensamente in risalto la
brutalità e la paura. Nel mondo descritto da Sebastian, la quotidianità sembra
sempre sul punto di essere invasa da vaste riserve di ferocia. Da questo punto
di vista, il Diario di Sebastian (Editura Humanitas, Bucarest 1996)
somiglia al corposo diario degli anni 1933945 di Victor Klemperer
(Testimoniare fino in fondo, Aufbau Verlag, 1995, trad. it. Mondadori), la
cui pubblicazione ha avuto un forte impatto in Germania. Questi assai tardivi
avvenimenti editoriali dell’Europa dell’Est, dove il periodo nazista è
rimasto raggelato nei clichés dell'epoca comunista, costituiscono una
testimonianza sull’esistenza quotidiana dell’ebreo «assimilato», in attesa
della morte da parte del mondo a cui ha creduto di appartenere. Sebastian,
elegante stilista di una ammirevole mobilità tematica, dà prova di una
espressività letteraria superiore a quella di Klemperer. Il suo Diario offre
un’analisi lucida e sfumata della vita amorosa e sociale. È un diario
ebraico, un diario delle letture, lo straordinario diario di un melomane, ma è,
soprattutto, il diario della «rinocerontizzazione» di alcuni importanti
intellettuali romeni che Sebastian considera amici, tra cui Mircea Eliade, E. M.
Cioran, Constantin Noica, Carnil Petrescu, scrittori e pensatori ipnotizzati dal
nazionalismo dell'estrema destra e dal delirio della «rivoluzione reazionaria»
nazifascista dell'Europa. Lo strano termine proviene dalla celebre pièce
Rhinocéros di
Eugène Ionesco,
una farsa allegorica sull'incubazione e la comparsa del fanatismo, sulla «nascita
del totalitarismo che cresce, si propaga, trasforma un intero mondo e,
naturalmente, essendo totalitario, lo trasforma totalmente». Il drammaturgo
definisce la sua pièce storia di un «contagio ideologico». Egli è uno dei
pochi personaggi ammirevoli del Diario di Sebastian, un amico con cui, in
tempi difficili, concordava nel rifiuto della tentazione totalitaria, di
sinistra o di destra. Eugène Ionesco ha descritto lui stesso, in maniera
memorabile, l'atmosfera della Bucarest di quel periodo: «Professori
universitari, studenti, intellettuali, diventavano nazisti, membri della Guardia
di Ferro, uno dopo l'altro... Di tanto in tanto qualcuno dei nostri amici
diceva: “Non sono affatto d'accordo con loro, ma devo riconoscere che riguardo
a certe cose, alla questione degli ebrei, ad esempio...”. Era anche questo un
sintomo. Dopo tre settimane, o dopo due mesi, l'uomo diventava nazista. Una
volta preso nell'ingranaggio, accettava tutto, si trasformava in rinoceronte».
Sebastian descrive con dovizia di particolari, in sequenze pregnanti, la
gradazione di questo «ingranaggio», come pure il contesto storico
dell’abbrutimento. Oggi, a più di mezzo secolo dalla sua redazione, il suo Diario
si conferma come uno dei più importati documenti sul clima pre-Olocausto in
Romania e nell'Europa dell'Est, sulle condizioni in cui si poté scatenare il
genocidio antiebraico. Mihail Sebastian (pseudonimo di Iosif Hechter) nacque nel
1907, da una famiglia ebrea della classe media, nel porto danubiano di Bráila,
una città che ha amato costantemente; morì nella primavera del 1945, a neppure
un anno dall’entrata delle truppe sovietiche a Bucarest. (Quel giorno, stava
andando alla lezione inaugurale dell'Università Popolare di Bucarest, dove
avrebbe dovuto parlare di Balzac, ma fu travolto da un camion. Qualcuno ha
cercato, di recente, di mettere in relazione l'incidente con le sue dimissioni
dal giornale comunista România liberá, al quale aveva lavorato
per breve tempo nel 1944). Nel periodo interbellico, Sebastian si affermò con i
suoi lavori teatrali lirico-ironici (Stella senza nome, Il
gioco delle
vacanze, Ultima ora ) e con i suoi romanzi psicologici e
cittadini (Donne, La città delle acacie, L'incidente ), di un
malinconico fervore. L’attività giornalistica di Sebastian si svolse
prevalentemente sul giornale conservatore Cuvântul (La parola), di Nae
Ionescu, il che lo mise spesso in conflitto con la stampa di sinistra e con
quella ebraica. Pur non avendo pubblicato alcun libro importante, Nae Ionescu
era un vivace pensatore minore, i cui interessi vertevano sulla metafisica, la
logica e la religione. Personaggio carismatico, una sorta di guru per i giovani
intellettuali del tempo, era divenuto, infine, adepto della Guardia di Ferro, un
movimento nazionalista, di estrema destra, che si proclamava
cristiano-ortodosso. Molti anni dopo, nel 1967, Mircea Eliade scriveva del suo
mentore che, stranamente, aveva incluso nell'Enciclopedia della Filosofia
(Harper
Collins, New York): «Dio per Nae Ionescu è presente nella storia mediante
l’Incarnazione... l'esistenza umana si compie soltanto nella morte come
trascendenza». Un lettore romeno riconoscerà nelle parole di Eliade qualcosa
di più di una valutazione strettamente accademica. Nel 1935, anno in cui inizia
il Diario, il potere detta Germania nazista era in crescita,
l'antisemitismo era esuberante, il pericolo della guerra si acuiva. Lo scrittore
Mihail Sebastian aveva affrontato proprio nell' anno precedente, il 1934, il
clamoroso scandalo della pubblicazione del suo romanzo Da duemila anni.
Costituito come uno pseudo-diario, stilisticamente debitore in un certo senso
dell’esistenzialismo, con echi gidiani, il romanzo segue la crisi d’identità
di un giovane intellettuale ebreo della Romania in un periodo in cui il Paese
attraversava la crisi della modernizzazione. Il narratore, di professione
architetto, analizza l'apprendistato nell' amicizia, nell' amore, nella
cultura e lo shock della scoperta dell'antisemitismo. I personaggi del suo
ambiente sono l'ipnotico professore Ghita Blidaru, acuto e passionale critico
dei valori della modernità (delineato a immagine di Nae Ionescu), il
nichilista Pârlea (che ha come modello Cioran), «l'europeo» architetto Vieru,
il sionista Sami Winkler, il marxista S.T. Haim (che si ispira a Bellu Silber,
un pittoresco membro del Partito Comunista Romeno, allora fuori legge), l'uomo
d'affari inglese Ralph T. Rice. Le ultime righe del romanzo sono di
rassegnazione. L'eroe è un romeno? Un ebreo? Chi è, in realtà? Contemplando
la villa che ha progettato e costruito per il suo mentore «romeno» Blidaru,
l'eroe sembra ormai indifferente all’amalgama delle sue radici. È il momento
della separazione serena: l'accettazione, pacata, dell'eredità bimillenaria,
come intruso. L’edificio è proprio ciò che questo costruttore-errante ha
voluto essere, lui stesso, da sempre, «semplice, puro e calmo, con un cuore
ugualmente aperto a rotte le stagioni». Lo sfondo del romanzo è
l'antisemitismo tradizionale, che non aveva ancora assunto la forma estrema
della Soluzione Finale. La catastrofe, tuttavia, era implicita nelle premesse e
nei precedenti, come avrebbe suggerito la prefazione di Nae Ionescu. Sebastian
aveva richiesto la prefazione nel 1931, quando iniziò a lavorare al romanzo. Il
prefattore aveva guidato i suoi primi anni di giornalismo e, come professore di
filosofia della religione, era un buon conoscitore dell’ebraismo. Benché le
sue opzioni politiche fossero di destra, NaeIonescu aveva respinto, solo
pochi anni addietro, «la teoria dello Stato nazionale», con «le sue assurdità
poliziesche». Quando il romanzo fu concluso, l'Europa era già scivolata
decisamente verso destra. In Romania, l'anno 1934 non era soltanto un anno «antisemita»,
ma, come dice Sebastian, unanno «huliganico». Inaccordo con la
meteorologia politica, il professor Nae Ionescu era diventato, nel frattempo,
uno degli ideologi della Guardia di Ferro, chiamata anche Legione,
l'organizzazione estremista di destra che professava l'antisemitismo come
principale arma nell'ambito di una sorta di «fondamentalismo»
cristiano-ortodosso, di tendenza terroristica. Fiducioso nella lealtà «di
coscienza» dell' amico di vecchia data, Sebastian reiterò, cavallerescamente,
nel 1934, la richiesta formulata tre anni prima. Nae Ionescu, il novello «Socrate
legionario», rispettò a sua volta la promessa. Sulla reazione di Sebastian
alla lettura del testo, abbiamo la testimonianza che si legge nelle Memorie del
suo amico Mircea Eliade, il quale ricorda che Sebastian, un pomeriggio, era
comparso da lui, pallido, col viso tirato e con queste parole: «Nae mi ha dato
la prefazione. Una tragedia, una vera e propria condanna a morte». Non era
un’esagerazione. La prefazione di Nae Ionescu sostiene che i valori ebraici e
quelli cristiani sono inconciliabili. Il linguaggio diventa davvero violento nel
finale, quando il conflitto giudaico-cristiano viene considerato risolvibile
solo mediante la scomparsa della causa: l'ebreo. La definizione che l'ideologo
della Guardia di Ferro dava in quegli anni dell’identità romena («siamo
ortodossi perché siamo romeni e romeni perché siamo ortodossi») non era
affatto nuova, era già stata formulata in passato da prestigiosi intellettuali
romeni; drammatico era solo il contesto storico in cui apparivano tali
incendiarie dichiarazioni. In particolare, era difficile sottacere una parte
della prefazione di Nae Ionescu, quella in cui Giuda, colui che «rifiutò di
riconoscere Cristo Messia», viene dichiarato un nemico essenziale,
irriducibile, «che disgrega i valori cristiani». L'accusa era assoluta,
incondizionata: «Giuda soffre perché ha generato Cristo, l'ha visto e non ha
creduto. Giuda soffre perché è Giuda... Iosif Hechter, tu sei malato. Tu sei
sostanzialmente malato, perché non puoi far altro che soffrire... Il Messia è
venuto - Iosif Hechter - e tu non l'hai riconosciuto... O non l'hai visto –
perché l'orgoglio ti ha velato gli occhi... Iosif Hechter, non senti che ti
pervadono il freddo e il buio?» Sebastian non veniva indicato col suo nome di
scrittore, ma con quello della sua famiglia ebrea (Hechter) e con il simbolo
Giuda. Per l'anno huliganico 1934 si preparava uno scandalo su misura. La
pubblicazione di questa istigazione al genocidio come prefazione al romanzo
parve, all'epoca, ad alcuni commentatori perversa e vile. L’autore del
romanzo, violentemente attaccato da fascisti e marxisti, da cristiani ed ebrei,
da liberali ed estremisti, risponde con il saggio Come sono diventato
huligano, uscito in volume nel 1935, anno d'inizio del Diario. L'antisemitismo,
che «convoglia verso gli ebrei le diversioni di odio degli organismi in crisi»,
pare a Sebastian alla «periferia della sofferenza ebraica». Egli continua a
registrare, anche nel saggio del 1935, le avversità esterne con una certa
qual condiscendenza, considerandole rudimentali e minori a paragone
dell’ardente «avversità interiore» che assedia gli ebrei. Nonostante le
minacce provenienti da ogni parte, lo scrittore persiste nell’accentuare «l'autonomia
spirituale» della sofferenza ebraica. Il giudaismo è visto come una posizione
tragica di fronte all'esistenza. «Nessun popolo ha confessato con maggior
crudeltà i propri peccati reali o immaginari, nessuno si è scrutato con
maggior asprezza e si è punito con più severità. I profeti biblici sono le
voci più terribili mai risuonate al mondo». Sebastian individua «la ferita
viva» del giudaismo, «il suo nerbo tragico», nella tensione tra «una
sensibilità tumultuosa e un senso critico impietoso», tra «l'intelligenza
nelle sue forme più fredde e la passione nelle sue forme più scapigliate». Lo
scrittore, che amava dirsi «un ebreo del Danubio», definisce se stesso con
chiarezza: «Non sono partigiano, sono sempre un dissidente. Ho fiducia soltanto
nell'uomo solo, ma in lui ho molta fiducia». Per Sebastian, l'individuo ha la
priorità, non la collettività, com’era di moda. «La morte dell’individuo
è la morte dello spirito critico» e, infine, «la morte dell'uomo». Il suo
avversario è «l'uomo in uniforme». «Vuoi una religione? Ecco una tessera
di membro. Vuoi mia metafisica? Ecco un inno. Vuoi una passione? Ecco un capo».
Assetato di dialogo e di amicizia, egli tuttavia riafferma, continuamente,
l'elogio della solitudine: «Non pagheremo mai abbastanza caro il diritto di
essere soli, senza mezzi ricordi,
senza mezzi affetti, senza mezze verità»,
aveva affermato l'autore in Come sono diventato huligano. Nei
confronti del Paese che non cessa di amare per i suoi paradossi, le sue
contraddizioni e le sue eccentricità, non è disposto a piaggerie: «Niente è
serio, niente è grave, niente è vero in questa cultura di libellisti
sorridenti. Soprattutto, niente è incompatibile... Il compromesso è il fiore
della violenza. Per questo abbiamo una cultura di brutalità e transazioni». La
formulazione coglieva, in profondità, il tempo in cui le contraddizioni e il
compromesso preparavano le future violenze. Sebastian ricorda la sorpresa di un
francese, in visita a Bucarest nel 1933, riguardo alle «coabitazioni»
intellettuali romene. Un noto guardista, «colto in flagrante reato di tenerezza
intellettuale» con un noto marxista, si giustifica così: «Noi siamo soltanto
amici. Questo non impegna a nulla». Questo«soltanto» lo considera
un «breviario di psicologia bucarestina». Una psicologia di stupefacenti
mescolanze e metamorfosi. «Una nozione che manca totalmente alla nostra vita
pubblica, su tutti i suoi piani: l’incompatibile». La formulazione ritorna
anche nel Diario: «L'incompatibilità è una cosa sconosciuta sul
Danubio». Annotazioni come queste si dimostreranno ancora più
profetiche man mano che la situazione della Romania
diventa più estrema. Nel 1937, il successo
alle elezioni dei legionari (sostenuti anche da Mircea Eliade) non lascia spazio
ad alcuna illusione. «Tutto è perduto», annota Sebastian il 21 febbraio. Il
governo antisemita guidato dal poeta Octavian Goga introduce nei discorsi
ufficiali «l'energia», non solo linguistica, dei nuovi imperativi: «jidan
(termine dispregiativo per "evreu", ndt), jidánime (l'insieme
degli jidani:, ndt), dominatia lui Iuda (il dominio di Giuda, ndt). La
revisione della cittadinanza degli ebrei, la loro espulsione dal foro
e dalla stampa sono seguite da altre restrizioni e umiliazioni. Il
pericolo cresceva. L'antisemitismo ufficializzato diventa, a poco a poco, una
distrazione popolare a buon mercato, a portata di mano di un crescente numero
di persone. La ribellione legionaria del gennaio 1941 dipana l'intero scenario
di orrori in una città terrorizzata da tafferugli e assassini che cantano inni
religiosi. «Un gran numero di ebrei sono stati uccisi nel bosco di Báneasa e
gettati là - la maggior parte nudi. Pare, tuttavia, che un altro gruppo sia
stato assassinato al mattatoio, a Stráulesti», annota Sebastian il 29 gennaio
1941. Pochi giorni dopo, mentre legge i capitoli sui pogrom antisemiti della Storia
degli Ebrei di Dubnow, torna su quanto è accaduto: «Ciò che ti fa
rimanere di sasso soprattutto nel massacro di Bucarest è la ferocia
assolutamente bestiale con la quale si sono svolti i fatti... gli ebrei
macellati al mattatoio Stráulesti sono stati appesi ai ganci del mattatoio, al
posto del bestiame squartato. Su ogni cadavere era stato appiccicato un foglio:
"carne kosher"...Non trovo in Dubnow eventi più terribili». I
presentimenti catastrofici si compiono. Fin da prima dello scoppio degli orrori
non mancavano le premonizioni. «Sera di inquietudine - senza che si renda conto
del perché. Sento minacce oscure. Pare che la porta non sia ben chiusa, pare
che gli scuri delle finestre siano trasparenti, pare che gli stessi muri
diventino diafani. Da ogni dove, in qualsiasi momento, è possibile che
irrompano dall'esterno chissà quali pericoli, che in realtà so essere presenti
da sempre, ma ai quali faccio l'abitudine, fino a non sentirli più. Vorresti
chiedere aiuto - ma a chi?». Sono le parole di un assediato (martedì, 14
gennaio 1941). In effetti, gli amici si trovavano, in maggioranza, nel campo
avverso. La sconfitta della ribellione legionaria li rende furenti e li
avvelena. «La Legione si pulisce il culo con questo Paese», dice Cioran,
subito dopo lo scacco. Sebastian ricorda, in questa occasione, che, in una
circostanza simile, Mircea Eliade aveva espresso la medesima reazione, in
termini più accademici: «La Romania non merita un movimento legionario».
L’instaurazione nel 1941- approvata a Berlino dal Führer - della dittatura
militare del generale Ion Antonescu, ex alleato della Legione, «ossessionato
dall'ordine e dalla legge», non previene il crimine antisemita. L'estate
del 1941 significa non soltanto l’entrata della Romania nella guerra
antisovietica, ma anche nuove atrocità. Avviene il massacro di Iasi - «Setternila ebrei massacrati», racconta Curzio Malaparte
in Kaputt - e, assai prima delle camere a gas naziste, il sinistro
esperimento del «treno della morte» uccide, per soffocamento, in vagoni
piombati e in un interminabile viaggio senza altra meta che la morte, centinaia,
forse migliaia di ebrei (la storiografia più recente fornisce i seguenti dati:
i due «treni della morte», partiti da Iasi alle ore 4,15 e alle ore 6 del 30
giugno 1941, fecero il primo oltre 1.400 vittime e il secondo 1.194; (cfr. R.
Ioanid, Evrei sub regimul Antonescu, Bucarest, 1979). «Il semplice
riferire i fatti che si raccontano sugli ebrei uccisi a Iasi e su quelli
trasportati col treno... è al di là di ogni parola, sentimento o
atteggiamento. Nero, tetro, folle incubo», annota nel Diario il 12
luglio 1941. Alcuni mesi prima, il 5 aprile 1941, Antonescu, dittatore militare
del paese, aveva comunicato ai suoi ministri: «Lascio che la folla li massacri.
Io mi ritiro nella mia cittadella e, dopo che li hanno massacrati, ristabilisco
l'ordine». E nel settembre 1941, dopo il massacro di Iasi e dopo l'entrata in
guerra della Romania a fianco della Germania, Antonescu spiegava a un
collaboratore che la guerra non si combatteva, in realtà, contro gli slavi, ma
contro gli ebrei: «Bisogna che tutti capiscano che non si combatte contro gli
slavi, ma contro gli ebrei. È una lotta all'ultimo sangue. O vinciamo noi e il
mondo si purificherà, o vincono loro e diventiamo loro schiavi». Nell'autunno
del 1941, inizia la deportazione della popolazione ebraica della Bucovina in
Transnistria. Il 20 ottobre 1941, Sebastian scrive: «Una demenza antisemita che
nessuno può fermare, non c'è da nessuna parte alcun freno, nessuna ragione...
Vedo sulle facce ebree il pallore della paura. Raggela il loro sorriso di un
ottimismo atavico, si spegne la loro antica ironia consolatoria». Il Diario riferisce,
successivamente, il censimento degli abitanti di «sangue ebraico», «la
carneficina della Bucovina e della Bessarabia», l'obbligo per gli ebrei di
consegnare allo Stato dei vestiti e per la Comunità di pagare una ingente somma
di denaro alle autorità, il divieto per gli ebrei di comprare al mercato, la
confisca degli sci e delle biciclette degli ebrei. «Viè talora
nell'antisemitismo un che di diabolico... quando non nuotiamo nel fango,
sguazziamo nei furti di polli», scrive Sebastian il 12 novembre 1941. Per un
razionalista come Sebastian la parola «diabolico» dà la misura della
bestialità del «volgare» antisemitismo del tempo. Man mano che il Diario procede,
tra sangue e lordura, «l'ottimismo atavico» e «l'ironia consolatoria»
impallidiscono, naturalmente. E «l'avversità interiore» ebraica, «la sua
autonomia spirituale»? Queste non sono altro, come dimostrano anche le pagine
di Sebastian, che premesse naturali, e diremmo, obbligatorie di ciò che è
umano, e non una qualche aberrazione autodivorante. Anche nelle condizioni in
cui l'avversità esterna è ubiqua, e quella interiore pare un lusso al tempo
stesso non consentito e trascurabile, l'introspezione critica rimane il segno,
per di più essenziale, della sopravvivenza dello spirito. Quando l'individuo
diventa solo il membro anonimo di una comunità minacciata, la solitudine con la
quale si definiva Sebastian modula diversamente le sue valenze, anche se non
modifica la propria sostanza. «Non pagheremo mai abbastanza caro il diritto
di essere soli», risuona, sotto assedio, come una frivola sottovalutazione. «Il
prezzo» della solitudine di una collettività, di un intero popolo, sfida il
consueto parametro della sofferenza. L’intima associazione tra solitudine e
solidarietà produce, a poco a poco, una tetra compassione. La «vecchia»
solitudine, privata, si lascia ospitare dall'isolamento della comunità
perseguitata, in una mutualità ferita, forzata. Sotto la pressione dell'odio e
dell’orrore, la scrittura di Sebastian mantiene la «grazia»
dell'intelligenza, che il male non riesce ad annullare. Identificato mediante la
stella della minoranza prigioniera, alla quale è stato restituito, lo scrittore
anima (vivifica) il vuoto dell'attesa. Ascolta musica, legge, scrive, rivede
amici. Un’ampia e sconvolgente parte del Diario si incentra
sull'amicizia, soprattutto con Mircea Eliade, «l'amico prima e ultimo». Dopo
la «condanna a morte offerta da Nae Ianescu, «l'huligano» Hechter-Sebastian
non pareva rivendicasse altro che il diritto a una perfetta solitudine, «senza
mezzi ricordi, senza mezzi affetti, senza mezze verità». Nelle condizioni
fortemente aggravate degli anni successivi, egli si dimostra, tuttavia,
dolorosamente legato a Mircea Eliade, persistendo. in un’amicizia
caratterizzata appunta da ricordi e affetti dimezzati, da verità dimezzate a da
quarti di essi. Nel tempo, la crisi dell’amicizia con Eliade si era
approfondita. Fin dal 1936, l'impegno politico di Eliade non poteva più essere
ignorato. «Varrei che eliminassimo. dalla nostra discussione ogni allusione
politica. Ma è possibile?», si chiedeva Sebastian. La risposta arriva ben
presto: «La strada sale fina a noi che lo si voglia o no, e nella più anodina
riflessione, sento la spaccatura fra noi sempre più grande... Vi sona tra noi
silenzi imbarazzati... accumula continuamente delusioni - tra cui la presenza
a Vremea antisemita». (Vremea, Il tempo)settimanale
prevalentemente liberale fino a metà degli anni Trenta «era evoluta» in
accorda con lo spirito. del tempo). Sebastian intravede già l’opzione
politica di Eliade, anche se la sua lucidità è spessodeviata dai
sentimenti e da una visione essenzialmente apolitica. Nel 1937, una «lunga
discussione politica con Mircea» porta alla triste constatazione: «È stata
lirico, nebuloso, pieno di esclamazioni, interiezioni, apostrofi... Da tutto
questo desumo solo la sua dichiarazione, finalmente leale... che ama la Guardia,
spera in essa e aspetta la sua vittoria». Nello stesso anno appare, sul
giornale legionario Buna Vestire (La Buona Novella), la famosa
professione di fede di Eliade, intitolata «Perché credo nella vittoria del
movimento legionario», che contiene la domanda: «Può la nazione romena finire
la propria vita... rovinata dalla miseria e dalla sifilide, invasa dagli ebrei e
dilaniata dagli stranieri?» La domanda trova ben presto una risposta nelle
umiliazioni e nelle minacce che il suo ex amico, lo straniero Sebastian, nato
Hechter, sopportava, sul punto di essere, in qualsiasi momento, dilaniato dai «patrioti»
del luogo. Un nuovo dialogo porta solo a un’altra conferma. «Gli ho detto che
penso alla partenza dal Paese. Ha approvato, come se effettivamente fosse una
cosa che va da sé (normale, naturale»), scrive Sebastian il 16 gennaio 1938.
Una «cosa naturale», effettivamente: la «pulizia» del Paese dagli ebrei era
un ideale per il quale il Movimento legionario non aveva smesso di militare. «Sarebbe
sufficiente che io entrassi dalla porta, perché improvvisamente si facesse
silenzio». Si parla in un modo quando l'ebreo è presente e in un modo
completamente diverso dopo che questi lascia la stanza. Il 7 dicembre 1937, la
tristezza di essere ingannato pare a Sebastian ancor più schiacciante della
stessa terribile verità che gli si nasconde, vale a dire che Eliade girava i
villaggi, come «propagandista» e addirittura come potenziale candidato della
Legione, in campagna elettorale per la Guardia di ferro. Su ciò che Eliade dice
in sua assenza gli arrivano resoconti stupefacenti. Nel marzo 1937, Sebastian
apprende che il suo amico è rivoltato dallo «spirito giudaico» di un
balletto. Nel 1939, Eliade commenta in tal modo l'invasione tedesca della
Polonia: «La resistenza dei polacchi a Varsavia è una resistenza giudaica.
Solo gli jidani sono capaci di ricattare con le donne e i bambini gettati in
prima linea per abusare così degli scrupoli dei tedeschi». L’esempio della
Polonia, con «il ricatto» ebraico e «gli scrupoli» tedeschi, motiva
anche le sue considerazioni altrettanto sagge riguardo alla Romania: «Solo una
politica filotedesca ci può salvare... Piuttosto che una Romania invasa
un’altra volta dagli jidani, meglio un protettorato tedesco». I rapporti di
Sebastian con Eliade continuano, comunque, con intermittenza, fino alla partenza
di quest’ultimo, nel 1940, per l'ambasciata romena di Londra dove testimoni
oculari lo descrivono come propagandista della Guardia di Ferro. In seguito,
Eliade viene inviato come diplomatico a Lisbona, dove le sue convinzioni
legionarie cercano altre forme, più o meno dissimulate, di espressione.
Sebastian scrive del periodo portoghese di Eliade: «È più legionario che mai»
(27 maggio 1942). Dopo la guerra, Eliade si riferirà solo di sfuggita ed
equivocamente alla colpevolezza (si veda il mio saggio Felix: culpa, TNR,
5 agosto, pubblicato in romeno nel volume Despre Clowni, Editura Apostrof
(in italiano Clown, il Dittatore e l'Artista, trad. di M. Cugno, il
Saggiatore, Milano 1995; ed. accresciuta, Est, il Saggiatore, 1999). Come
ha potuto, dunque, Sebastian mantenere un' amicizia con un uomo con il quale era
diventato «incompatibile»? Come mai è divenuto lui stesso un esempio delle
ambiguità che condannava? Non si faceva, certo, illusioni sul fatto che
l'amicizia potesse proteggerlo da pericoli incombenti. Possiamo supporre che la
spiegazione sia un’altra. Per l’indole lucida e rassegnata di Sebastian,
l’illusione dell'amicizia era, prevalentemente, una incoraggiante reminiscenza
del passato, della normalità... I ricordi rimangono, a quanto pare, «l'unico
paradiso da cui non possiamo essere cacciati», come diceva il poeta tedesco
Jean Paul. Sebastian aveva, parimenti, un calmo e rassegnato disprezzo per tutto
ciò che era ideologico e tribale. Aveva anche la curiosità dello scrittore per
le sorprese dell’ambiguità, sue e di quelli che aveva intorno, dunque anche
per l'amico legionario. Fin dal 1936, quando «nella più anodina riflessione»
sentiva già «la rottura» sempre più grande nel suo rapporto con l'amico «primo
e ultimo», si chiedeva: «Perderò Mircea per così poco?». «Così poco!».
La straordinaria formulazione contiene tutto il disprezzo per la mediocrità
della politica, come pure l'irritazione per il deplorevole «errore» di Eliade.
Candido, mostrerà al mondo - e lo dimostrerà anche a se stesso, contro il
mondo - che può salvare il colpevole, come interlocutore e amico. Egli non può
ammettere che la mediocrità abbia vinto, di nuovo, persino nel più inatteso
dei casi, quello dell'insigne e caro Eliade, così come non può ammettere che
tra l'intellettuale e l'uniforme non c'è soltanto «incompatibilità», ma una
più profonda, sottile relazione di attrazione-repulsione, avida degli impulsi e
delle compensazioni della vitalità, delle mistificazioni e del supplizio, degli
eccessi di ogni genere. Perfettamente cosciente dell’abisso tra lui e Eliade
(un abisso ideologico, già pieno di cadaveri), Sebastian registra, tuttavia, i
sorprendenti momenti di affetto che persistono nella moribonda amicizia. Egli
non esita a pensare ai rischi che l'amico affronta nella sua misera avventura,
anche se sente nella sua vita di ogni giorno il freddo e il buio delle minacce
che vengono dai «camerati» in divisa di questi. Proprio il tono calmo e
affettuoso del racconto, la mescolanza di orrore e di ingenuità fanno sì che i
ritratti di Eliade, Cioran, Nae Ionescu e di troppi intellettuali romeni sedotti
dal delirio nazionalista diventino, davvero, devastanti. Nel contesto storico,
l'amicizia Sebastian-Eliade diventa simbolica per tutto ciò che ha significato
terrore e speranza, ambiguità e paura, viltà e possibilità nel rapporto
ebreo-cristiano nell' Europa dell' osceno decennio 1935-1945. Le evasive,
stupefacenti «compatibilità» romene, il loro doppio-triplo mercanteggiamento
con la complicità e il compromesso hanno svolto il loro ruolo nell'annullare le
certezze morali, e non solo morali, offrendo sorprese terribili o, al contrario,
generose. Così si potrebbero spiegare tanto le atrocità, quanto la salvezza,
alla fin fine, di una gran parte della popolazione ebraica della Romania. Il Diario
di Sebastian registra, con apprensione e amarezza, i travestimenti e i
trucchi specifici. Dopo la sconfitta della Ribellione legionaria del 1941 egli
vede gli ex fanatici della Legione adeguarsi, in tutta fretta, alla nuova
situazione: «da un giorno all’altro rinnegano, modificano, attenuano,
spiegano, si mettono d’accordo, si giustificano, dimenticano ciò che a loro
non piace, ricordano quel che a loro conviene». Egli apprende, atterrito, come
formula il suo ex amico Mircea Eliade
-
che
si era presentato a Londra come un futuro dignitario della Legione - il bilancio
di quell’anno terribile, in cui avevano avuto luogo gli spaventosi massacri
antiebraici di Iasi e di Bucarest. «Due cose sono state straordinarie per me
quest'anno», scrive Eliade a un comune amico, e cioè: «la stupefacente
debolezza dell'aviazione sovietica e la lettura di Camoens». Anche in questa
atmosfera da incubo, il Diario non dimentica, tuttavia, le poche figure
luminose. Al di sopra e prima di tutti, Eugen Ionescu. Ascoltando nel parco
Cismigiu di Bucarest un discorso radiodiffuso di Hitler, questi si era alzato
soffocato da quanto udiva. «Era pallido, pallidissimo. “Non posso! Non
posso!” Diceva questo con non so quale disperazione fisica... Avrei voluto
abbracciarlo» (3 ottobre 1944). Sebastian annota anche il messaggio di un’amica:
«Provo vergogna nei tuoi confronti, Mihai, provo vergogna perché tu soffri e
io no». Ricorda, dopo il massacro antisemita di Iasi, la reazione di due
professori universitari della capitale della Moldavia. Uno si era coperto il
volto con «un gesto di impotenza, di terrore, di disgusto», l'altro aveva
pronunciato solo poche parole: «il giorno più bestiale della storia
dell'umanità». Alla fine, nel 1944, all'entrata dell'Armata Rossa a Bucarest,
i voltagabbana non sono rari: «Tutti si affrettano a occupare posizioni, a
valorizzare titoli, a stabilire diritti... il gusto del pamphlet si alterna in
me con una sorta di schifo disarmato», scrive Seabastian, di fronte a «tutta
l'impostura, tutta l'impudenza, tutta la sinistra commedia che si recita».
L'odissea
di Sebastian si conclude nel luogo dov' era iniziata. Proclamandosi, nel 1934,
«ebreo del Danubio», l'eroe del romanzo Da duemila anni dichiarava, in
nome dell’autore:
«Vorrei
conoscere la legislazione antisemita che potrà annullare, nel mioessere,
il fatto irrevocabile di essere nato sul Danubio e di amare questa terra... Al
mio gusto giudaico per le catastrofi intime il fiume ha contrapposto l’esempio
della sua indifferenza regale». Nel 1943, lo scrittore si chiedeva: «Tornerò
a questa gente? La guerra potrà passare senza spezzare nulla? Senza portare tra
la mia vita di “prima” e quella di “domani” niente di irrevocabile,
niente di irriducibile?» Nel 1944 si prepara a lasciare «l'eterna Romania, in
cui non cambia niente». Il modo in cui descrive l'incontro con un capitano
ebreo dell’esercito americano potrebbe suggerire la destinazione
dell’avventura a cui pensava: «Un giovane pieno di vitalità, semplice,
preoccupato per noi come ebrei, preoccupato della democrazia e della sua realtà.
Un uomo. Una figura nuova. Qualcuno». La speranza di separarsi, finalmente, «dalla
terra del Danubio» fu però cancellata dall'incidente mortale del 29 maggio
1945. Mihail Sebastian aveva 38 anni. La morte l’ha esentato dall'eventuale
esperimento postbellico della «felicità obbligatoria», nella cattività
comunista del suo Paese. La pubblicazione del Diario di Mihail Sebastian
ha provocato una forte reazione in Romania. Parecchie edizioni si sono
esaurite e i commenti continuano. Il testo sembra aver prodotto una vera e
propria «catarsi» in una società che esita a riconoscere il proprio
contributo all’Olocausto e dove la critica della tradizione nazionalista nella
cultura viene a volte considerata un atto antipatriottico, se non addirittura
oltraggio. «Leggendolo, è impossibile rimanere lo stesso. Un’immensa
vergogna si estende su un intero periodo della cultura e della storia nazionale,
e la sua ombra copre anche te», scrive Vasile Popovici, uno scrittore di
Timisoara, la città dove è scoppiata la rivolta contro Ciausescu del 1989.
Coloro che sono disposti a fare della
tragedia ebraica il proprio problema non sono, però, molti. Per un numero
significativo di voci pubbliche, l’Olocausto sembra rimanere un «dettaglio»
(come diceva Jean-Marie Le Pen) dell’ultima guerra mondiale. Anche coloro che riconoscono la
dimensione della catastrofe non sempre sembrano pronti ad ammettere ciò che
questa tragedia rivela. Il fatto è evidente soprattutto nel dibattito sul
maresciallo Antonescu, il dittatore militare al tempo dell’alleanza della
Romania con la Germania nazista, al quale il Parlamento della Romania ha reso
omaggio nel 1991 e che oggi è onorato in molti luoghi pubblici della Romania.
Quando un distinto intellettuale romeno di tendenze democratiche era
intervenuto, qualche anno fa, nel dibattito sulla riabilitazione di Antonescu,
egli sosteneva che l'accentuazione «esclusiva, accaparrante, della politica
antiebraica del dittatore, impedirebbe alla scienza, in questo caso alla storia,
di fare obiettivamente e onestamente il proprio dovere». Nella polemica
suscitata dalla pubblicazione del Diario di Sebastian non sono mancate le
voci «irritate» da questa nuova testimonianza di peso in quello che pare a
molti un eccessivo prolungarsi delle discussioni sull’Olocausto. Per nulla
inaspettatamente, sono stati espressi dubbi sull’autenticità del testo, si è
speculato sulla soggettività di qualunque diario. Tutto questo per non
affrontare l'evidenza delle cose scritte da Sebastian. Non ha sorpreso che anche
le assai frequenti identificazioni con la sofferenza ebraica si esprimessero in
modo curioso. Nella primavera del 1997, il direttore della casa editrice
Humanitas, che aveva pubblicato il Diario di Sebastian, ha tenuto alla
Comunità Ebraica di Bucarest una conferenza intitolata, in modo emozionante,
«Sebastian, mon frère». Una dichiarazione di simpatia per la sofferenza
ebraica, che il conferenziere motivava con quello che luistesso aveva
sofferto sotto i comunisti e in seguito. Una analogia che non lasciava più
spazio per una reale condanna dell’antisemitismo e dell’Olocausto o per una
analisi onesta della «felice colpa» di intellettuali come Eliade, Cioran, Nae
Ionescu, Noica. Inun editoriale intitolato La caccia alle streghe, il
direttore dell’importante rivista România literará lamentava
l'obbrobrio pubblico prolungato contro Céline e Hamsun, deplorava la campagna
«israeliana» contro Eliade, il recente dibattito in Francia in relazione al
passato legionario di Ciotan, come pure «le esagerazioni» del Diario di
Sebastian. E questo benché la condanna pubblica (per nulla unanime) di Céline
e Hamsun non abbia impedito il riconoscimento del loro valore letterario, mentre
la colpevolezza non era necessariamente attribuita ai loro scritti, ma alla loro
collaborazione con i nazisti. Descrivendo il commento critico in una società
aperta come una «caccia alle streghe» e paragonandolo alla repressione
comunista della vita intellettuale, l'editoriale di România literará promuoveva
una scioccante confusione di termini. In contrasto con tali sbandamenti e
ambiguità, potremmo citare un testo dovuto a un altro eminente intellettuale
romeno. Petru Cretia affermava, nel 1997, che «la cosa più
mostruosa, dopo l’Olocausto, è il persistere, sia pure minimale,
dell’antisemitismo». Riferendosi al Diario di Sebastian e alle vecchie
e nuove compatibilità, Petru Cretia scriveva: «Conosco personaggi pubblici
che, ostentando un’etica irreprensibile, un atteggiamento democratico
impeccabile accompagnato, in taluni, da una certa qual pomposa solennità, sono
capaci, in privato, a volte anche in pubblico, di schiumare dalla rabbia contro
gli ebrei, qui e ora. Ho visto la prova irrefutabile del furore suscitato dal Diario
di Sebastian e del sentimento di profanazione di alcuni valori nazionali
suscitato dalle rivelazioni così calme, cosìdolorose
e indulgenti di questo testimone imparziale, spesso angelico». Il testo è
uscito pochi giorni prima del decesso di questo distinto uomo di lettere e buon
cristiano, non in una rivista ad ampia circolazione, ma sul giornale
Realitatea evrriascá della comunità ebraica di Bucarest.
Che cosa potremmo concludere
dalla lettura di Sebastian e dalla sua carriera postuma? Almeno questo: il
movimento in «avanti» dell'Europa dell'Est deve essere valutato non solo in
base alla capacità di modernizzare le strutture politiche ed economiche, ma
anche in base a quella di fare chiarezza sulla storia recente e di ripristinare
l'intera verità. Non è un compito facile, ma è, soprattutto e prima di tutto,
la missione degli intellettuali, non dei politici. La premessa del futuro sta
nella qualità e nella probità di comprensione del passato.
(Pubblicato in The New Republic, Washington DC, 20
aprile 1998; ripreso in romeno in22,
Bucarest, nr. 23, giugno 1998, testo su cui è condotta questa traduzione).