Diario

Le incompatibilità

1935-1944: un «decennio osceno» raccontato dallo scrittore romeno-ebreo Mihail Sebastian. Il suo Diario accende il dibattito su antisemitismo e complicità filonaziste in Romania

di Norman Manea – traduzione di Marco Cugno

 

Norman Manea è nato a Burdujeni-Suceava (Bucovina-Romania) nel 1936. Per le sue origini ebraiche, nel 1941, sotto il regime del Maresciallo Antonescu, viene deportato, con la sua famiglia, in un lager della Transnistria (Ucraina). Rimpatriato a nove anni (il nonno materno, libraio, e la nonna muoiono durante la deportazione), ha la rivelazione della magia della parola nel primo libro che riceve in dono, le novelle del grande narratore moldavo Ion Creanga, alle quali lo scrittore fa risalire, idealmente, la sua iniziazione alla «chimera della scrittura». Adolescente, vive l'illusione dell'Utopia comunista, da cui ben presto prende con lucidità le distanze. Pur attratto dalla letteratura, sceglie una facoltà scientifica (è il periodo che verrà definito in seguito «ossessivo decennio», quando ogni spiraglio di libertà in ambito artistico-letterario è precluso), laureandosi in Ingegneria a Bucarest e praticando la professione, in cantiere e come ricercatore, fino al 1974, quando riuscirà a dedicarsi interamente all’attività di scrittore. Esordisce nel 1966 con il racconto Ferro da stiro per l'amore e pubblica il suo primo libro di racconti (La notte sul lato lungo) nel 1969, nel periodo della cosiddetta «liberalizzazione». Seguiranno altri due volumi di racconti (Le prime porte, 1975, e Ottobre, ore otto, 1981), cinque romanzi (Prigionieri, 1970; Atrium, 1974; Il libro del figlio, 1976; I giorni e il gioco, 1977; La busta nera, 1986) e due volumi di saggi (Gli anni di apprendistato del Povero Augusto, 1979; Di contorno, 1984). Nel 1986, ottiene una borsa di studio a Berlino Ovest, dove soggiorna per un anno. Successivamente, scegliendo definitivamente l'esilio, si stabilisce a New York, dove tuttora vive, insegnando cultura europea al Bard College. È, attualmente, lo scrittore romeno più tradotto. Ottiene numerosi riconoscimenti internazionali, tra i quali, nel 2002, il premio Nonino. In Italia ha pubblicato: Ottobre, ore otto (racconti, Serra e Riva, Milano 1990; nuova edizione definitiva il Saggiatore, Milano 1998); Un paradiso forzato (racconti), Feltrinelli, Milano 1994; Clown, il dittatore e l'artista (saggi), il Saggiatore, Milano 1995 (nuova edizione accresciuta, Est, 1999); La busta nera (romanzo), Baldini-Castoldi-Dalai, Milano 1999. Per la fine di marzo è annunciata l'uscita presso il Saggiatore del libro di memorie Il ritorno dell’huligano (Marco Cugno).

Nella difficile transizione verso la democrazia, i Paesi dell'Europa dell'Est sono sottoposti a due sollecitazioni principali, in un movimento simultaneo che va in direzioni opposte: avanti e indietro. Il movimento in avanti riguarda il contratto con il futuro: l’adeguamento alle esigenze economico-sociali del mondo capitalista e l'accreditamento internazionale. Il movimento all'indietro dipende dalla riconsiderazione critica della storia precedente il periodo del comunismo e quella del periodo comunista stesso, manipolata e falsificata dall'ideologia e dagli interessi del Partito unico dello stato totalitario. Dopo il 1989, questa tensione è stata di frequente avvertita nella vita quotidiana dell’Europa dell'Est. In Romania, la questione dell'ammissione dei Paesi ex comunisti nella Nato ha prodotto un appassionato impegno a favore della Nato di quasi tutto l'arco politico. Il passato traumatico del Paese, visto come risultato dell'aggressività del vicino d'Oriente e del tradimento dell'Occidente piuttosto che delle carenze della vita politica romena, pareva essere, di colpo, sanabile dalla promessa di un avvenire integrato, stabilmente, nella comunità occidentale. Questo euforico momento politico, legato al futuro, si è sovrapposto a un momento culturale, legato al passato. La prospettiva rinnovata del futuro della Romania si confrontava con una complicata retrospettiva: la pubblicazione del Dia­rio (1935-1944) dello scrittore romeno-ebreo Mihail Sebastian. La cronaca degli anni neri del nazismo ridava impulso al dibattito sull’antisemitismo e sull'Olocausto in Romania, argomenti che taluni avrebbero preferito ignorare. L’importante volume di Sebastian - in corso di stampa in alcuni Paesi europei e che meriterebbe di essere pubblicato anche negli Stati Uniti - ricostruisce le deformazioni di un decennio durante il quale «ognuno era diventato una rotellina nell'immensa fabbrica antisemita che era lo Stato romeno». La monotonia della vita quotidiana, con le letture, gli amori, la povertà, gli incontri tra amici, mette intensamente in risalto la brutalità e la paura. Nel mondo descritto da Sebastian, la quotidianità sembra sempre sul punto di essere invasa da vaste riserve di ferocia. Da questo punto di vista, il Diario di Sebastian (Editura Humanitas, Bucarest 1996) somiglia al corposo diario degli anni 1933­945 di Victor Klemperer (Testimoniare fino in fondo, Aufbau Verlag, 1995, trad. it. Mondadori), la cui pubblicazione ha avuto un forte impatto in Germania. Questi assai tardivi avvenimenti editoriali dell’Europa dell’Est, dove il periodo nazista è rimasto raggelato nei clichés dell'epoca comunista, costituiscono una testimonianza sull’esistenza quotidiana dell’ebreo «assimilato», in attesa della morte da parte del mondo a cui ha creduto di appartenere. Sebastian, elegante stilista di una ammirevole mobilità tematica, dà prova di una espressività letteraria superiore a quella di Klemperer. Il suo Diario offre un’analisi lucida e sfumata della vita amorosa e sociale. È un diario ebraico, un diario delle letture, lo straordinario diario di un melomane, ma è, soprattutto, il diario della «rinocerontizzazione» di alcuni importanti intellettuali romeni che Sebastian considera amici, tra cui Mircea Eliade, E. M. Cioran, Constantin Noica, Carnil Petrescu, scrittori e pensatori ipnotizzati dal nazionalismo dell'estrema destra e dal delirio della «rivoluzione reazionaria» nazifascista dell'Europa. Lo strano termine proviene dalla celebre pièce Rhinocéros di Eugène Ionesco, una farsa allegorica sull'incubazione e la comparsa del fanatismo, sulla «nascita del totalitarismo che cresce, si propaga, trasforma un intero mondo e, naturalmente, essendo totalitario, lo trasforma totalmente». Il drammaturgo definisce la sua pièce storia di un «contagio ideologico». Egli è uno dei pochi personaggi ammirevoli del Diario di Sebastian, un amico con cui, in tempi difficili, concordava nel rifiuto della tentazione totalitaria, di sinistra o di destra. Eugène Ionesco ha descritto lui stesso, in maniera memorabile, l'atmosfera della Bucarest di quel periodo: «Professori universitari, studenti, intellettuali, diventavano nazisti, membri della Guardia di Ferro, uno dopo l'altro... Di tanto in tanto qualcuno dei nostri amici diceva: “Non sono affatto d'accordo con loro, ma devo riconoscere che riguardo a certe cose, alla questione degli ebrei, ad esempio...”. Era anche questo un sintomo. Dopo tre settimane, o dopo due mesi, l'uomo diventava nazista. Una volta preso nell'ingranaggio, accettava tutto, si trasformava in rinoceronte». Sebastian descrive con dovizia di particolari, in sequenze pregnanti, la gradazione di questo «ingranaggio», come pure il contesto storico dell’abbrutimento. Oggi, a più di mezzo secolo dalla sua redazione, il suo Diario si conferma come uno dei più importati documenti sul clima pre-Olocausto in Romania e nell'Europa dell'Est, sulle condizioni in cui si poté scatenare il genocidio antiebraico. Mihail Sebastian (pseudonimo di Iosif Hechter) nacque nel 1907, da una famiglia ebrea della classe media, nel porto danubiano di Bráila, una città che ha amato costantemente; morì nella primavera del 1945, a neppure un anno dall’entrata delle truppe sovietiche a Bucarest. (Quel giorno, stava andando alla lezione inaugurale dell'Università Popolare di Bucarest, dove avrebbe dovuto parlare di Balzac, ma fu travolto da un camion. Qualcuno ha cercato, di recente, di mettere in relazione l'incidente con le sue dimissioni dal giornale comunista România liberá, al quale aveva lavorato per breve tempo nel 1944). Nel periodo interbellico, Sebastian si affermò con i suoi lavori teatrali lirico-ironici (Stella senza nome, Il gioco delle vacanze, Ultima ora ) e con i suoi romanzi psicologici e cittadini (Donne, La città delle acacie, L'incidente ), di un malinconico fervore. L’attività giornalistica di Sebastian si svolse prevalentemente sul giornale conservatore Cuvântul (La parola), di Nae Ionescu, il che lo mise spesso in conflitto con la stampa di sinistra e con quella ebraica. Pur non avendo pubblicato alcun libro importante, Nae Ionescu era un vivace pensatore minore, i cui interessi vertevano sulla metafisica, la logica e la religione. Personaggio carismatico, una sorta di guru per i giovani intellettuali del tempo, era divenuto, infine, adepto della Guardia di Ferro, un movimento nazionalista, di estrema destra, che si proclamava cristiano-ortodosso. Molti anni dopo, nel 1967, Mircea Eliade scriveva del suo mentore che, stranamente, aveva incluso nell'Enciclopedia della Filosofia (Harper Collins, New York): «Dio per Nae Ionescu è presente nella storia mediante l’Incarnazione... l'esistenza umana si compie soltanto nella morte come trascendenza». Un lettore romeno riconoscerà nelle parole di Eliade qualcosa di più di una valutazione strettamente accademica. Nel 1935, anno in cui inizia il Diario, il potere detta Germania nazista era in crescita, l'antisemitismo era esuberante, il pericolo della guerra si acuiva. Lo scrittore Mihail Sebastian aveva affrontato proprio nell' anno precedente, il 1934, il clamoroso scandalo della pubblicazione del suo romanzo Da duemila anni. Costituito come uno pseudo-diario, stilisticamente debitore in un certo senso dell’esistenzialismo, con echi gidiani, il romanzo segue la crisi d’identità di un giovane intellettuale ebreo della Romania in un periodo in cui il Paese attraversava la crisi della modernizzazione. Il narratore, di professione architetto, analizza l'apprendistato nell' amicizia, nell' amore, nella cultura e lo shock della scoperta dell'antisemitismo. I personaggi del suo ambiente sono l'ipnotico professore Ghita Blidaru, acuto e passionale critico dei valori della modernità (delineato a immagine di Nae Ionescu), il nichilista Pârlea (che ha come modello Cioran), «l'europeo» architetto Vieru, il sionista Sami Winkler, il marxista S.T. Haim (che si ispira a Bellu Silber, un pittoresco membro del Partito Comunista Romeno, allora fuori legge), l'uomo d'affari inglese Ralph T. Rice. Le ultime righe del romanzo sono di rassegnazione. L'eroe è un romeno? Un ebreo? Chi è, in realtà? Contemplando la villa che ha progettato e costruito per il suo mentore «romeno» Blidaru, l'eroe sembra ormai indifferente all’amalgama delle sue radici. È il momento della separazione serena: l'accettazione, pacata, dell'eredità bimillenaria, come intruso. L’edificio è proprio ciò che questo costruttore-errante ha voluto essere, lui stesso, da sempre, «semplice, puro e calmo, con un cuore ugualmente aperto a rotte le stagioni». Lo sfondo del romanzo è l'antisemitismo tradizionale, che non aveva ancora assunto la forma estrema della Soluzione Finale. La catastrofe, tuttavia, era implicita nelle premesse e nei precedenti, come avrebbe suggerito la prefazione di Nae Ionescu. Sebastian aveva richiesto la prefazione nel 1931, quando iniziò a lavorare al romanzo. Il prefattore aveva guidato i suoi primi anni di giornalismo e, come professore di filosofia della religione, era un buon conoscitore dell’ebraismo. Benché le sue opzioni politiche fossero di destra, Nae Ionescu aveva respinto, solo pochi anni addietro, «la teoria dello Stato nazionale», con «le sue assurdità poliziesche». Quando il romanzo fu concluso, l'Europa era già scivolata decisamente verso destra. In Romania, l'anno 1934 non era soltanto un anno «antisemita», ma, come dice Sebastian, un anno «huliganico». In accordo con la meteorologia politica, il professor Nae Ionescu era diventato, nel frattempo, uno degli ideologi della Guardia di Ferro, chiamata anche Legione, l'organizzazione estremista di destra che professava l'antisemitismo come principale arma nell'ambito di una sorta di «fondamentalismo» cristiano-ortodosso, di tendenza terroristica. Fiducioso nella lealtà «di coscienza» dell' amico di vecchia data, Sebastian reiterò, cavallerescamente, nel 1934, la richiesta formulata tre anni prima. Nae Ionescu, il novello «Socrate legionario», rispettò a sua volta la promessa. Sulla reazione di Sebastian alla lettura del testo, abbiamo la testimonianza che si legge nelle Memorie del suo amico Mircea Eliade, il quale ricorda che Sebastian, un pomeriggio, era comparso da lui, pallido, col viso tirato e con queste parole: «Nae mi ha dato la prefazione. Una tragedia, una vera e propria condanna a morte». Non era un’esagerazione. La prefazione di Nae Ionescu sostiene che i valori ebraici e quelli cristiani sono inconciliabili. Il linguaggio diventa davvero violento nel finale, quando il conflitto giudaico-cristiano viene considerato risolvibile solo mediante la scomparsa della causa: l'ebreo. La definizione che l'ideologo della Guardia di Ferro dava in quegli anni dell’identità romena («siamo ortodossi perché siamo romeni e romeni perché siamo ortodossi») non era affatto nuova, era già stata formulata in passato da prestigiosi intellettuali romeni; drammatico era solo il contesto storico in cui apparivano tali incendiarie dichiarazioni. In particolare, era difficile sottacere una parte della prefazione di Nae Ionescu, quella in cui Giuda, colui che «rifiutò di riconoscere Cristo Messia», viene dichiarato un nemico essenziale, irriducibile, «che disgrega i valori cristiani». L'accusa era assoluta, incondizionata: «Giuda soffre perché ha generato Cristo, l'ha visto e non ha creduto. Giuda soffre perché è Giuda... Iosif Hechter, tu sei malato. Tu sei sostanzialmente malato, perché non puoi far altro che soffrire... Il Messia è venuto - Iosif Hechter - e tu non l'hai riconosciuto... O non l'hai visto – perché l'orgoglio ti ha velato gli occhi... Iosif Hechter, non senti che ti pervadono il freddo e il buio?» Sebastian non veniva indicato col suo nome di scrittore, ma con quello della sua famiglia ebrea (Hechter) e con il simbolo Giuda. Per l'anno huliganico 1934 si preparava uno scandalo su misura. La pubblicazione di questa istigazione al genocidio come prefazione al romanzo parve, all'epoca, ad alcuni commentatori perversa e vile. L’autore del romanzo, violentemente attaccato da fascisti e marxisti, da cristiani ed ebrei, da liberali ed estremisti, risponde con il saggio Come sono diventato huligano, uscito in volume nel 1935, anno d'inizio del Diario. L'antisemitismo, che «convoglia verso gli ebrei le diversioni di odio degli organismi in crisi», pare a Sebastian alla «periferia della sofferenza ebraica». Egli continua a registrare, anche nel saggio del 1935, le avversità ester­ne con una certa qual condiscendenza, considerandole rudimentali e minori a paragone dell’ardente «avversità interiore» che assedia gli ebrei. Nonostante le minacce provenienti da ogni parte, lo scrittore persiste nell’accentuare «l'autonomia spirituale» della sofferenza ebraica. Il giudaismo è visto come una posizione tragica di fronte all'esistenza. «Nessun popolo ha confessato con maggior crudeltà i propri peccati reali o immaginari, nessuno si è scrutato con maggior asprezza e si è punito con più severità. I profeti biblici sono le voci più terribili mai risuonate al mondo». Sebastian individua «la ferita viva» del giudaismo, «il suo nerbo tragico», nella tensione tra «una sensibilità tumultuosa e un senso critico impietoso», tra «l'intelligenza nelle sue forme più fredde e la passione nelle sue forme più scapigliate». Lo scrittore, che amava dirsi «un ebreo del Danubio», definisce se stesso con chiarezza: «Non sono partigiano, sono sempre un dissidente. Ho fiducia soltanto nell'uomo solo, ma in lui ho molta fiducia». Per Sebastian, l'individuo ha la priorità, non la collettività, com’era di moda. «La morte dell’individuo è la morte dello spirito critico» e, infine, «la morte dell'uomo». Il suo avversario è «l'uomo in uniforme». «Vuoi una religione? Ecco una tessera di membro. Vuoi mia metafisica? Ecco un inno. Vuoi una passione? Ecco un capo». Assetato di dialogo e di amicizia, egli tuttavia riafferma, continuamente, l'elogio della solitudine: «Non pagheremo mai abbastanza caro il diritto di essere soli, senza mezzi ricordi, senza mezzi affetti, senza mezze verità», aveva affermato l'autore in Come sono diventato huligano. Nei confronti del Paese che non cessa di amare per i suoi paradossi, le sue contraddizioni e le sue eccentricità, non è disposto a piaggerie: «Niente è serio, niente è grave, niente è vero in questa cultura di libellisti sorridenti. Soprattutto, niente è incompatibile... Il compromesso è il fiore della violenza. Per questo abbiamo una cultura di brutalità e transazioni». La formulazione coglieva, in profondità, il tempo in cui le contraddizioni e il compromesso preparavano le future violenze. Sebastian ricorda la sorpresa di un francese, in visita a Bucarest nel 1933, riguardo alle «coabitazioni» intellettuali romene. Un noto guardista, «colto in flagrante reato di tenerezza intellettuale» con un noto marxista, si giustifica così: «Noi siamo soltanto amici. Questo non impegna a nulla». Questo «soltanto» lo considera un «breviario di psicologia bucarestina». Una psicologia di stupefacenti mescolanze e metamorfosi. «Una nozione che manca totalmente alla nostra vita pubblica, su tutti i suoi piani: l’incompatibile». La formulazione ritorna anche nel Diario: «L'incompatibilità è una cosa sconosciuta sul Danubio». Annotazioni come queste si dimostreranno ancora più profetiche man mano che la situazione della Romania diventa più estrema. Nel 1937, il successo alle elezioni dei legionari (sostenuti anche da Mircea Eliade) non lascia spazio ad alcuna illusione. «Tutto è perduto», annota Sebastian il 21 febbraio. Il governo antisemita guidato dal poeta Octavian Goga introduce nei discorsi ufficiali «l'energia», non solo linguistica, dei nuovi imperativi: «jidan (termine dispregiativo per "evreu", ndt), jidánime (l'insieme degli jidani:, ndt), dominatia lui Iuda (il dominio di Giuda, ndt). La revisione della cittadinanza degli ebrei, la loro espulsione dal foro e dalla stampa sono seguite da altre restrizioni e umiliazioni. Il pericolo cresceva. L'antisemitismo ufficializzato diventa, a poco a poco, una distrazione popolare a buon mercato, a portata di mano di un crescente numero di persone. La ribellione legionaria del gennaio 1941 dipana l'intero scenario di orrori in una città terrorizzata da tafferugli e assassini che cantano inni religiosi. «Un gran numero di ebrei sono stati uccisi nel bosco di Báneasa e gettati là - la maggior parte nudi. Pare, tuttavia, che un altro gruppo sia stato assassinato al mattatoio, a Stráulesti», annota Sebastian il 29 gennaio 1941. Pochi giorni dopo, mentre legge i capitoli sui pogrom antisemiti della Storia degli Ebrei di Dubnow, torna su quanto è accaduto: «Ciò che ti fa rimanere di sasso soprat­tutto nel massacro di Bucarest è la ferocia assolutamente bestiale con la quale si sono svolti i fatti... gli ebrei macellati al mattatoio Stráulesti sono stati appesi ai ganci del mattatoio, al posto del bestiame squartato. Su ogni cadavere era stato appiccicato un foglio: "carne kosher"...Non trovo in Dubnow eventi più terribili». I presentimenti catastrofici si compiono. Fin da prima dello scoppio degli orrori non mancavano le premonizioni. «Sera di inquietudine - senza che si renda conto del perché. Sento minacce oscure. Pare che la porta non sia ben chiusa, pare che gli scuri delle finestre siano trasparenti, pare che gli stessi muri diventino diafani. Da ogni dove, in qualsiasi momento, è possibile che irrompano dall'esterno chissà quali pericoli, che in realtà so essere presenti da sempre, ma ai quali faccio l'abitudine, fino a non sentirli più. Vorresti chiedere aiuto - ma a chi?». Sono le parole di un assediato (martedì, 14 gennaio 1941). In effetti, gli amici si trovavano, in maggioranza, nel campo avverso. La sconfitta della ribellione legionaria li rende furenti e li avvelena. «La Legione si pulisce il culo con questo Paese», dice Cioran, subito dopo lo scacco. Sebastian ricorda, in questa occasione, che, in una circostanza simile, Mircea Eliade aveva espresso la medesima reazione, in termini più accademici: «La Romania non merita un movimento legionario». L’instaurazione nel 1941- approvata a Berlino dal Führer - della dittatura militare del generale Ion Antonescu, ex alleato della Legione, «ossessionato dall'ordine e dalla legge», non previene il crimine antisemita. L'estate del 1941 significa non soltanto l’entrata della Romania nella guerra antisovietica, ma anche nuove atrocità. Avviene il massacro di Iasi - «Setternila ebrei massacrati», racconta Curzio Malaparte in Kaputt - e, assai prima delle camere a gas naziste, il sinistro esperimento del «treno della morte» uccide, per soffocamento, in vagoni piombati e in un interminabile viaggio senza altra meta che la morte, centinaia, forse migliaia di ebrei (la storiografia più recente fornisce i seguenti dati: i due «treni della morte», partiti da Iasi alle ore 4,15 e alle ore 6 del 30 giugno 1941, fecero il primo oltre 1.400 vittime e il secondo 1.194; (cfr. R. Ioanid, Evrei sub regimul Antonescu, Bucarest, 1979). «Il semplice riferire i fatti che si raccontano sugli ebrei uccisi a Iasi e su quelli trasportati col treno... è al di là di ogni parola, sentimento o atteggiamento. Nero, tetro, folle incubo», annota nel Diario il 12 luglio 1941. Alcuni mesi prima, il 5 aprile 1941, Antonescu, dittatore militare del paese, aveva comunicato ai suoi ministri: «Lascio che la folla li massacri. Io mi ritiro nella mia cittadella e, dopo che li hanno massacrati, ristabilisco l'ordine». E nel settembre 1941, dopo il massacro di Iasi e dopo l'entrata in guerra della Romania a fianco della Germania, Antonescu spiegava a un collaboratore che la guerra non si combatteva, in realtà, contro gli slavi, ma contro gli ebrei: «Bisogna che tutti capiscano che non si combatte contro gli slavi, ma contro gli ebrei. È una lotta all'ultimo sangue. O vinciamo noi e il mondo si purificherà, o vincono loro e diventiamo loro schiavi». Nell'autunno del 1941, inizia la deportazione della popolazione ebraica della Bucovina in Transnistria. Il 20 ottobre 1941, Sebastian scrive: «Una demenza antisemita che nessuno può fermare, non c'è da nessuna parte alcun freno, nessuna ragione... Vedo sulle facce ebree il pallore della paura. Raggela il loro sorriso di un ottimismo atavico, si spegne la loro antica ironia consolatoria». Il Diario riferisce, successivamente, il censimento degli abitanti di «sangue ebraico», «la carneficina della Bucovina e della Bessarabia», l'obbligo per gli ebrei di consegnare allo Stato dei vestiti e per la Comunità di pagare una ingente somma di denaro alle autorità, il divieto per gli ebrei di comprare al mercato, la confisca degli sci e delle biciclette degli ebrei. «Vi è talora nell'antisemitismo un che di diabolico... quando non nuotiamo nel fango, sguazziamo nei furti di polli», scrive Sebastian il 12 novembre 1941. Per un razionalista come Sebastian la parola «diabolico» dà la misura della bestialità del «volgare» antisemitismo del tempo. Man mano che il Diario procede, tra sangue e lordura, «l'ottimismo atavico» e «l'ironia consolatoria» impallidiscono, naturalmente. E «l'avversità interiore» ebraica, «la sua autonomia spirituale»? Queste non sono altro, come dimostrano anche le pagine di Sebastian, che premesse naturali, e diremmo, obbligatorie di ciò che è umano, e non una qualche aberrazione autodivorante. Anche nelle condizioni in cui l'avversità esterna è ubiqua, e quella interiore pare un lusso al tempo stesso non consentito e trascurabile, l'introspezione critica rimane il segno, per di più essenziale, della sopravvivenza dello spirito. Quando l'individuo diventa solo il membro anonimo di una comunità minacciata, la solitudine con la quale si definiva Sebastian modula diversamente le sue valenze, anche se non modifica la propria sostanza. «Non pagheremo mai abbastanza caro il dirit­to di essere soli», risuona, sotto assedio, come una frivola sottovalutazione. «Il prezzo» della solitudine di una collettività, di un intero popolo, sfida il consueto parametro della sofferenza. L’intima associazione tra solitudine e solidarietà produce, a poco a poco, una tetra compassione. La «vecchia» solitudine, privata, si lascia ospitare dall'isolamento della comunità perseguitata, in una mutualità ferita, forzata. Sotto la pressione dell'odio e dell’orrore, la scrittura di Sebastian man­tiene la «grazia» dell'intelligenza, che il male non riesce ad annullare. Identificato mediante la stella della minoranza prigioniera, alla quale è stato restituito, lo scrittore anima (vivifica) il vuoto dell'attesa. Ascolta musica, legge, scrive, rivede amici. Un’ampia e sconvolgente parte del Diario si incentra sull'amicizia, soprattutto con Mircea Eliade, «l'amico prima e ultimo». Dopo la «condanna a morte offerta da Nae Ianescu, «l'huligano» Hechter-Sebastian non pareva rivendicasse altro che il diritto a una perfetta solitudine, «senza mezzi ricordi, senza mezzi affetti, senza mezze verità». Nelle condizioni fortemente aggravate degli anni successivi, egli si dimostra, tuttavia, dolorosamente legato a Mircea Eliade, persistendo. in un’amicizia caratterizzata appunta da ricordi e affetti dimezzati, da verità dimezzate a da quarti di essi. Nel tempo, la crisi dell’amicizia con Eliade si era approfondita. Fin dal 1936, l'impegno politico di Eliade non poteva più essere ignorato. «Varrei che eliminassimo. dalla nostra discussione ogni allusione politica. Ma è possibile?», si chiedeva Sebastian. La risposta arriva ben presto: «La strada sale fina a noi che lo si voglia o no, e nella più anodina riflessione, sento la spaccatura fra noi sempre più grande... Vi sona tra noi silenzi imbarazzati... accumula continuamente delusioni - tra cui la presenza a Vremea antisemita». (Vremea, Il tempo) settimanale prevalentemente liberale fino a metà degli anni Trenta «era evoluta» in accorda con lo spirito. del tempo). Sebastian intravede già l’opzione politica di Eliade, anche se la sua lucidità è spesso deviata dai sentimenti e da una visione essenzialmente apolitica. Nel 1937, una «lunga discussione politica con Mircea» porta alla triste constatazione: «È stata lirico, nebuloso, pieno di esclamazioni, interiezioni, apostrofi... Da tutto questo desumo solo la sua dichiarazione, finalmente leale... che ama la Guardia, spera in essa e aspetta la sua vittoria». Nello stesso anno appare, sul giornale legionario Buna Vestire (La Buona Novella), la famosa professione di fede di Eliade, intitolata «Perché credo nella vittoria del movimento legionario», che contiene la domanda: «Può la nazione romena finire la propria vita... rovinata dalla miseria e dalla sifilide, invasa dagli ebrei e dilaniata dagli stranieri?» La domanda trova ben presto una risposta nelle umiliazioni e nelle minacce che il suo ex amico, lo straniero Sebastian, nato Hechter, sopportava, sul punto di essere, in qualsiasi momento, dilaniato dai «patrioti» del luogo. Un nuovo dialogo porta solo a un’altra conferma. «Gli ho detto che penso alla partenza dal Paese. Ha approvato, come se effettivamente fosse una cosa che va da sé (normale, naturale»), scrive Sebastian il 16 gennaio 1938. Una «cosa naturale», effettivamente: la «pulizia» del Paese dagli ebrei era un ideale per il quale il Movimento legionario non aveva smesso di militare. «Sarebbe sufficiente che io entrassi dalla porta, perché improvvisamente si facesse silenzio». Si parla in un modo quando l'ebreo è presente e in un modo completamente diverso dopo che questi lascia la stanza. Il 7 dicembre 1937, la tristezza di essere ingannato pare a Sebastian ancor più schiacciante della stessa terribile verità che gli si nasconde, vale a dire che Eliade girava i villaggi, come «propagandista» e addirittura come potenziale candidato della Legione, in campagna elettorale per la Guardia di ferro. Su ciò che Eliade dice in sua assenza gli arrivano resoconti stupefacenti. Nel marzo 1937, Sebastian apprende che il suo amico è rivoltato dallo «spirito giudaico» di un balletto. Nel 1939, Eliade commenta in tal modo l'invasione tedesca della Polonia: «La resistenza dei polacchi a Varsavia è una resistenza giudaica. Solo gli jidani sono capaci di ricattare con le donne e i bambini gettati in prima linea per abusare così degli scrupoli dei tedeschi». L’esempio della Polonia­, con «il ricatto» ebraico e «gli scrupoli» tedeschi, motiva anche le sue considerazioni altrettanto sagge riguardo alla Romania: «Solo una politica filo­tedesca ci può salvare... Piuttosto che una Romania invasa un’altra volta dagli jidani, meglio un protettorato tedesco». I rapporti di Sebastian con Eliade continuano, comunque, con intermittenza, fino alla partenza di quest’ultimo, nel 1940, per l'ambasciata romena di Londra dove testimoni oculari lo descrivono come propagandista della Guardia di Ferro. In seguito, Eliade viene inviato come diplomatico a Lisbona, dove le sue convinzioni legionarie cercano altre forme, più o meno dissimulate, di espressione. Sebastian scrive del periodo portoghese di Eliade: «È più legionario che mai» (27 maggio 1942). Dopo la guerra, Eliade si riferirà solo di sfuggita ed equivocamente alla colpevolezza (si veda il mio saggio Felix: culpa, TNR, 5 agosto, pubblicato in romeno nel volume Despre Clowni, Editura Apostrof (in italiano Clown, il Dittatore e l'Artista, trad. di M. Cugno, il Saggiatore, Milano 1995; ed. accresciuta, Est, il Saggiatore, 1999). Come ha potuto, dunque, Sebastian mantenere un' amicizia con un uomo con il quale era diventato «incompatibile»? Come mai è divenuto lui stesso un esempio delle ambiguità che condannava? Non si faceva, certo, illusioni sul fatto che l'amicizia potesse proteggerlo da pericoli incombenti. Possiamo supporre che la spiegazione sia un’altra. Per l’indole lucida e rassegnata di Sebastian, l’illusione dell'amicizia era, prevalentemente, una incoraggiante reminiscenza del passato, della normalità... I ricordi rimangono, a quanto pare, «l'unico paradiso da cui non possiamo essere cacciati», come diceva il poeta tedesco Jean Paul. Sebastian aveva, parimenti, un calmo e rassegnato disprezzo per tutto ciò che era ideologico e tribale. Aveva anche la curiosità dello scrittore per le sorprese dell’ambiguità, sue e di quelli che aveva intorno, dunque anche per l'amico legionario. Fin dal 1936, quando «nella più anodina riflessione» sentiva già «la rottura» sempre più grande nel suo rapporto con l'amico «primo e ultimo», si chiedeva: «Perderò Mircea per così poco?». «Così poco!». La straordinaria formulazione contiene tutto il disprezzo per la mediocrità della politica, come pure l'irritazione per il deplorevole «errore» di Eliade. Candido, mostrerà al mondo - e lo dimostrerà anche a se stesso, contro il mondo - che può salvare il colpevole, come interlocutore e amico. Egli non può ammettere che la mediocrità abbia vinto, di nuovo, persino nel più inatteso dei casi, quello dell'insigne e caro Eliade, così come non può ammettere che tra l'intellettuale e l'uniforme non c'è soltanto «incompatibilità», ma una più profonda, sottile relazione di attrazione-repulsione, avida degli impulsi e delle compensazioni della vitalità, delle mistificazioni e del supplizio, degli eccessi di ogni genere. Perfettamente cosciente dell’abisso tra lui e Eliade (un abisso ideologico, già pieno di cadaveri), Sebastian registra, tuttavia, i sorprendenti momenti di affetto che persistono nella moribonda amicizia. Egli non esita a pensare ai rischi che l'amico affronta nella sua misera avventura, anche se sente nella sua vita di ogni giorno il freddo e il buio delle minacce che vengono dai «camerati» in divisa di questi. Proprio il tono calmo e affettuoso del racconto, la mescolanza di orrore e di ingenuità fanno sì che i ritratti di Eliade, Cioran, Nae Ionescu e di troppi intellettuali romeni sedotti dal delirio nazionalista diventino, davvero, devastanti. Nel contesto storico, l'amicizia Sebastian-Eliade diventa simbolica per tutto ciò che ha significato terrore e speranza, ambiguità e paura, viltà e possibilità nel rapporto ebreo-cristiano nell' Europa dell' osceno decennio 1935-1945. Le evasive, stupefacenti «compatibilità» romene, il loro doppio-triplo mercanteggiamento con la complicità e il compromesso hanno svolto il loro ruolo nell'annullare le certezze morali, e non solo morali, offrendo sorprese terribili o, al contrario, generose. Così si potrebbero spiegare tanto le atrocità, quanto la salvezza, alla fin fine, di una gran parte della popolazione ebraica della Romania. Il Diario di Sebastian registra, con apprensione e amarezza, i travestimenti e i trucchi specifici. Dopo la sconfitta della Ribellione legionaria del 1941 egli vede gli ex fanatici della Legione adeguarsi, in tutta fretta, alla nuova situazione: «da un giorno all’altro rinnegano, modificano, attenuano, spiegano, si mettono d’accordo, si giustificano, dimenticano ciò che a loro non piace, ricordano quel che a loro conviene». Egli apprende, atterrito, come formula il suo ex amico Mircea Eliade - che si era presentato a Londra come un futuro dignitario della Legione - il bilancio di quell’anno terribile, in cui avevano avuto luogo gli spaventosi massacri antiebraici di Iasi e di Bucarest. «Due cose sono state straordinarie per me quest'anno», scrive Eliade a un comune amico, e cioè: «la stupefacente debolezza dell'aviazione sovietica e la lettura di Camoens». Anche in questa atmosfera da incubo, il Diario non dimentica, tuttavia, le poche figure luminose. Al di sopra e prima di tutti, Eugen Ionescu. Ascoltando nel parco Cismigiu di Bucarest un discorso radiodiffuso di Hitler, questi si era alzato soffocato da quanto udiva. «Era pallido, pallidissimo. “Non posso! Non posso!” Diceva questo con non so quale disperazione fisica... Avrei voluto abbracciarlo» (3 ottobre 1944). Sebastian annota anche il messaggio di un’amica: «Provo vergogna nei tuoi confronti, Mihai, provo vergogna perché tu soffri e io no». Ricorda, dopo il massacro antisemita di Iasi, la reazione di due professori universitari della capitale della Moldavia. Uno si era coperto il volto con «un gesto di impotenza, di terrore, di disgusto», l'altro aveva pronunciato solo poche parole: «il giorno più bestiale della storia dell'umanità». Alla fine, nel 1944, all'entrata dell'Armata Rossa a Bucarest, i voltagabbana non sono rari: «Tutti si affrettano a occupare posizioni, a valorizzare titoli, a stabilire diritti... il gusto del pamphlet si alterna in me con una sorta di schifo disarmato», scrive Seabastian, di fronte a «tutta l'impostura, tutta l'impudenza, tutta la sinistra commedia che si recita». L'odissea di Sebastian si conclude nel luogo dov' era iniziata. Proclamandosi, nel 1934, «ebreo del Danubio», l'eroe del romanzo Da duemila anni dichiarava, in nome dell’autore: «Vorrei conoscere la legislazione antisemita che potrà annullare, nel mio essere, il fatto irrevocabile di essere nato sul Danubio e di amare questa terra... Al mio gusto giudaico per le catastrofi intime il fiume ha contrapposto l’esempio della sua indifferenza regale». Nel 1943, lo scrittore si chiedeva: «Tornerò a questa gente? La guerra potrà passare senza spezzare nulla? Senza portare tra la mia vita di “prima” e quella di “domani” niente di irrevocabile, niente di irriducibile?» Nel 1944 si prepara a lasciare «l'eterna Romania, in cui non cambia niente». Il modo in cui descrive l'incontro con un capitano ebreo dell’esercito americano potrebbe suggerire la destinazione dell’avventura a cui pensava: «Un giovane pieno di vitalità, semplice, preoccupato per noi come ebrei, preoccupato della democrazia e della sua realtà. Un uomo. Una figura nuova. Qualcuno». La speranza di separarsi, finalmente, «dalla terra del Danubio» fu però cancellata dall'incidente mortale del 29 maggio 1945. Mihail Sebastian aveva 38 anni. La morte l’ha esentato dall'eventuale esperimento postbellico della «felicità obbligatoria», nella cattività comunista del suo Paese. La pubblicazione del Diario di Mihail Sebastian ha provocato una forte reazione in Romania. Parecchie edizioni si sono esaurite e i commenti continuano. Il testo sembra aver prodotto una vera e propria «catarsi» in una società che esita a riconoscere il proprio contributo all’Olocausto e dove la critica della tradizione nazionalista nella cultura viene a volte considerata un atto antipatriottico, se non addirittura oltraggio. «Leggendolo, è impossibile rimanere lo stesso. Un’immensa vergogna si estende su un intero periodo della cultura e della storia nazionale, e la sua ombra copre anche te», scrive Vasile Popovici, uno scrittore di Timisoara, la città dove è scoppiata la rivolta contro Ciausescu del 1989. Coloro che sono disposti a fare della tragedia ebraica il proprio problema non sono, però, molti. Per un numero significativo di voci pubbliche, l’Olocausto sembra rimanere un «dettaglio» (come diceva Jean-Marie Le Pen) dell’ultima guerra mondiale. Anche coloro che riconoscono la dimensione della catastrofe non sempre sembrano pronti ad ammettere ciò che questa tragedia rivela. Il fatto è evidente soprattutto nel dibattito sul maresciallo Antonescu, il dittatore militare al tempo dell’alleanza della Romania con la Germania nazista, al quale il Parlamento della Romania ha reso omaggio nel 1991 e che oggi è onorato in molti luoghi pubblici della Romania. Quando un distinto intellettuale romeno di tendenze democratiche era intervenuto, qualche anno fa, nel dibattito sulla riabilitazione di Antonescu, egli sosteneva che l'accentuazione «esclusiva, accaparrante, della politica antiebraica del dittatore, impedirebbe alla scienza, in questo caso alla storia, di fare obiettivamente e onestamente il proprio dovere». Nella polemica suscitata dalla pubblicazione del Diario di Sebastian non sono mancate le voci «irritate» da questa nuova testimonianza di peso in quello che pare a molti un eccessivo prolungarsi delle discussioni sull’Olocausto. Per nulla inaspettatamente, sono stati espressi dubbi sull’autenticità del testo, si è speculato sulla soggettività di qualunque diario. Tutto questo per non affrontare l'evidenza delle cose scritte da Sebastian. Non ha sorpreso che anche le assai frequenti identificazioni con la sofferenza ebraica si esprimessero in modo curioso. Nella primavera del 1997, il direttore della casa editrice Humanitas, che aveva pubblicato il Diario di Sebastian, ha tenuto alla Comunità Ebraica di Bucarest una conferenza intitolata, in modo emozionante, «Sebastian, mon frère». Una dichiarazione di simpatia per la sofferenza ebraica, che il conferenziere motivava con quello che lui stesso aveva sofferto sotto i comunisti e in seguito. Una analogia che non lasciava più spazio per una reale condanna dell’antisemitismo e dell’Olocausto o per una analisi onesta della «felice colpa» di intellettuali come Eliade, Cioran, Nae Ionescu, Noica. In un editoriale intitolato La caccia alle streghe, il direttore dell’importante rivista România literará lamentava l'obbrobrio pubblico prolungato contro Céline e Hamsun, deplorava la campagna «israeliana» contro Eliade, il recente dibattito in Francia in relazione al passato legionario di Ciotan, come pure «le esagerazioni» del Diario di Sebastian. E questo benché la condanna pubblica (per nulla unanime) di Céline e Hamsun non abbia impedito il riconoscimento del loro valore letterario, mentre la colpevolezza non era necessariamente attribuita ai loro scritti, ma alla loro collaborazione con i nazisti. Descrivendo il commento critico in una società aperta come una «caccia alle streghe» e paragonandolo alla repressione comunista della vita intellettuale, l'editoriale di România literará promuoveva una scioccante confusione di termini. In contrasto con tali sbandamenti e ambiguità, potremmo citare un testo dovuto a un altro eminente intellettuale romeno. Petru Cretia affermava, nel 1997, che «la cosa più mostruosa, dopo l’Olocausto, è il persistere, sia pure minimale, dell’antisemitismo». Riferendosi al Diario di Sebastian e alle vecchie e nuove compatibilità, Petru Cretia scriveva: «Conosco personaggi pubblici che, ostentando un’etica irreprensibile, un atteggiamento democratico impeccabile accompagnato, in taluni, da una certa qual pomposa solennità, sono capaci, in privato, a volte anche in pubblico, di schiumare dalla rabbia contro gli ebrei, qui e ora. Ho visto la prova irrefutabile del furore suscitato dal Diario di Sebastian e del sentimento di profanazione di alcuni valori nazionali suscitato dalle rivelazioni così calme, così dolorose e indulgenti di questo testimone imparziale, spesso angelico». Il testo è uscito pochi giorni prima del decesso di questo distinto uomo di lettere e buon cristiano, non in una rivista ad ampia circolazione, ma sul giornale Realitatea evrriascá della comunità ebraica di Bucarest. Che cosa potremmo concludere dalla lettura di Sebastian e dalla sua carriera postuma? Almeno questo: il movimento in «avanti» dell'Europa dell'Est deve essere valutato non solo in base alla capacità di modernizzare le strutture politiche ed economiche, ma anche in base a quella di fare chiarezza sulla storia recente e di ripristinare l'intera verità. Non è un compito facile, ma è, soprattutto e prima di tutto, la missione degli intellettuali, non dei politici. La premessa del futuro sta nella qualità e nella probità di comprensione del passato.

(Pubblicato in The New Republic, Washington DC, 20 aprile 1998; ripreso in romeno in  22, Bucarest, nr. 23, giugno 1998, testo su cui è condotta questa traduzione).

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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione

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