Diario

La Shoah e i suoi numeri

Come e perché si è cominciato a usare questa parola ebraica che è poi diventata di uso comune. Quante sono e come si computano le vittime dello sterminio attuato dai nazisti.

di  Michele Sarfatti

 

In questo quarto «giorno della memoria» della Shoah sembra utile riprendere il discorso dall'inizio, tornando a fare il punto sul significato del termine e sulle principali caratteristiche dell'evento. Shoah è una parola ebraica, che significa catastrofe, disastro, distruzione. Il vocabolo compare più volte nel testo biblico, faceva parte del vocabolario ebraico, rivitalizzato dai primi sionisti in Palestina. Essi lo utilizzarono per denominare la persecuzione antiebraica nazista già all'inizio del 1937, poi nel corso del 1938, con riferimento alla condizione degli ebrei in Austria dopo l'annessione alla Germania in marzo e al pogrom tedesco di novembre, e infine negli anni seguenti, con riferimento ormai all'annientamento fisico di milioni di ebrei europei. Questo significato si generalizzò, e nel 1951 il Parlamento dello Stato di Israele utilizzò il vocabolo nella formula che istituì il giorno (yom) nazionale dedicato alla persecuzione e alle rivolte nei ghetti: yom ha-shoah u'mered ha-getaot - poi abbreviato in yom ha-shoah -, fissato al 27 del mese ebraico nissan, giorno che nel 1943 corrispondeva al 19 aprile, uno dei giorni centrali dell'insurrezione eroica (anche perché priva di speranze) degli ebrei rinchiusi nel ghetto di Varsavia. La Shoah che accadde in Europa a metà del secolo scorso, tra gli anni Trenta e Quaranta, è divenuta in ebraico ha-shoah, la Catastrofe per eccellenza; il vocabolo ha assunto il significato di denominazione di un'intera vicenda storica, similmente a ciò che in italiano è avvenuto a Risorgimento, Restaurazione, Resistenza. Come questi termini, anche Catastrofe descrive il senso di una vicenda senza precisarne caratteristiche e particolari (e si è visto che Shoah è stata usata dapprima per le violente radicalizzazioni persecutorie del 1938 e poi per lo sterminio sistematico). Oggi identifica innanzitutto quest'ultimo, ma secondo un certo numero di studiosi comprende le tappe persecutorie precedenti. Tra l'altro, la stessa improvvisa emanazione di un moderno corpus legislativo antiebraico, che per di più classificava gli ebrei come razza, costituì una catastrofe. In un certo senso, il termine Shoah è esattamente opposto a quello tedesco Endlösung (Soluzione finale). Il primo appartiene al mondo linguistico delle vittime, costituendone una sorta di minimo comune denominatore, anche quando esse parlavano l'yiddish o una lingua nazionale europea e anche se una piccola parte di esse era di religione cristiana o di nessuna religione. Esso descrive l'evento dal loro punto di vista e con immediatezza: certamente si trattò di una catastrofe, di un disastro. Il secondo appartiene al vocabolario dei persecutori (che però non erano né tutti i tedeschi, né tutti tedeschi) e più precisamente al loro ambito decisionale (soluzione) e programmatico (finale) e al loro linguaggio burocratico e velato. Per un quarantennio, la persecuzione europea antiebraica di metà Novecento è stata denominata Shoah pressoché esclusivamente in terra di Israele (ed era lì tradotta in inglese coll'inadatto holocaust). In Italia venivano utilizzati per lo più «persecuzione antiebraica nazista» (o «fascista e nazista», oppure, con la sin­teticità figlia dell'esperienza vissuta, «nazifascista»), o i mal digeribili «sterminio» e «genocidio». La notevole sensazione creata nel 1985 dal film Shoah, di Claude Lanzmann, determinò l'irruzione del termine ebraico dapprima in Francia e poi negli altri Paesi europei. In Italia la diffusione si è sviluppata nel corso degli anni Novanta, con la crescente (ma ancora oggi non generalizzata) adozione da parte sia di storici specialistici, sia di esponenti dell'ebraismo. Il terzo ambiente della penisola a optare precocemente per il suo uso è stato forse quello della Santa Sede. Nonostante l'aumento della sua adozione, è presto per considerare certa e definitiva la sua affermazione sugli altri termini, in Italia e nell'area euroamericana. È opportuno chiarire che Shoah rimane un termine, una denominazione convenzionale. Come ogni denominazione, essa può essere caricata dei significati i più vari o di nessun significato. Il mio pensiero al riguardo è che la denominazione di un evento, quale che essa sia, non può influenzare la ricostruzione storica, la conoscenza e l'interpretazione dell'evento stesso. E la Shoah è stata innanzitutto un capitolo della nostra storia, che va compreso prima che denominato. Comprendere la Shoah vuol dire conoscerla. La conoscenza storica è basata sulla ricostruzione dei fatti e sulla comparazione con vicende aventi qualche affinità (cronologica, contenutistica, ecc). Questo lavoro storico ha portato molti studiosi (non tutti) a parlare di unicità della shoah (o di singolarità o particolarità della Shoah), con riferimento specifico al suo nucleo centrale: lo sterminio. In effetti ogni vicenda storica è unica, diversa da tutte le altre. In questo caso però la definizione di unicità vuole indicare che l'esperienza storica umana, pur avendo accumulato nelle ultime migliaia di anni innumerevoli sterminî e deportazioni collettive, gli uni e le altre attuati con le tecniche e le modalità più diverse, non aveva ancora prodotto (e successivamente non ha più riprodotto) una vicenda con le caratteristiche contrassegnanti la Shoah. Non era, per esempio, accaduto che si arrestasse ogni ebreo di Rodi per trasferirlo in un luogo di uccisione centralizzato, situato a centinaia e centinaia di miglia marine e terrestri di distanza. Questa operazione richiese una particolare mistura di odio, indifferenza, esaltazione, banalizzazione, tecnologia, burocrazia, ideologia, capacità manageriali, disponibilità di risorse proprie, brama delle risorse ebraiche, assegnazione di valore alla vita umana (il lungo trasporto) peraltro disprezzata (lo sterminio all'arrivo), che lascia quasi stupiti prima ancora che esterrefatti e feriti nel profondo. Niente del genere era stato ancoro concepito dall'uomo. Neanche le precedenti vicende antisemite, talora violentissime, reggono il confronto con la Shoah. Né peraltro ha senso un affiancamento puramente nominale tra lager nazista e gulag sovietico, in quanto, prima ancora di altre considerazioni, il lager di Auschwitz-Birkenau conteneva strutture dedicate allo sterminio (camere a gas), ove veniva condotta la maggior parte degli arrivati (e progressivamente gli altri), mentre nei gulag non erano previste né camere a gas né comunque funzioni di sterminio sistematico. La definizione di unicità è quindi figlia della comparazione storica e non un ostacolo precostituito che si frappone alla comparazione. La Shoah è comparabi­le, deve essere comparabile, perché solo così possiamo comprenderla o progre­dire nella sua comprensione. L’unicità della Shoah è connessa anche alle sue dimensioni cronologiche, geografiche e quantitative. L’intera vicenda persecutoria si sviluppò lungo dodici anni, dal 1933 al 1945; le uccisioni di massa e lo sterminio scientifico ne impegnarono rispettivamente gli ultimi sei e gli ultimi quattro. Essa toccò direttamente un'amplissima patte del continente europeo, con l'eccezione centrale della Svizzera e quelle periferiche di Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Irlanda, Svezia, Russia europea nella par­te compresa tra la linea Leningrado-Mosca-Stalingrado e gli Urali, Turchia europea. Per la maggior patte degli storici, il complicato calcolo delle vittime della Shoah si conclude intorno all'imponente cifra di sei milioni, corrispondente a due terzi dell'ebraismo europeo negli anni Trenta. Altri studiosi hanno ricercato, anziché il valore medio probabile, quello minimo indiscutibile, pervenendo al dato di cinque milioni e centomila. A mio parere è preferibile fare riferimento al primo. Come che sia, è bene tenere ben stampato in mente che gli antisemiti europei miravano all'uccisione dei tre terzi degli europei ebrei, obiettivo che venne contrastato dall'impegno solidaristico o resistenziale di molti europei non-antisemiti, ma che venne impedito dall'immenso impegno bellico anglo-sovietico-statunitense. La determinazione del numero delle vittime è resa complicata da vari fattori, tra i quali predominano: la mancanza di dati anagrafici esatti o comunque particolareggiati per varie zone dell’Europa orientale; l'assenza di valori numerici precisi per molti eccidi di massa compiuti in quell’area; il fatto che gli ebrei potevano essere arrestati in luoghi situati a migliaia di chilometri da quelli nei quali risiedevano a metà degli anni Trenta, per via dei flussi migratori già in atto, delle espulsioni, dei trasferimenti forzati, o di quelli «volontari» determinati dalle differenze cronologiche nello sviluppo della Shoah nelle singole nazioni; il continuo mutare dei confini degli Stati. Per esempio, tre quarti delle vittime della Shoah in Francia e Belgio erano stranieri, colà emigrati o rifugiatisi in varie date. In Germania, gli ebrei uccisi costituiscono un quarto di quelli presenti all'inizio degli anni Trenta e ben tre quarti di quelli presenti alla fine del decennio (occorre anche tenere presente che in quegli anni il tasso di mortalità naturale non era più bilanciato da quello di natalità). La Bulgaria autorizzò la deportazione degli ebrei residenti nelle regioni da essa neoannesse (la Macedonia ex-jugoslava e la Tracia ex-greca), ma non dette seguito agli accordi con Berlino per la deporta­zione degli ebrei della vecchia Bulgaria; situazione che inoltre rende difficile optare tra la giusta contabilizzazione di quelle vittime nel bilancio della Shoah della comunità nazionale di provenienza e la giusta attribuzione di quelle uccisioni allo Stato nel quale finirono per essere arrestati. Laddove la Shoah non fu immediata e generalizzata, fu quasi sempre caratterizzata da un maggiore o prioritario accanimento verso gli ebrei di nazionalità straniera o residenti nei territori recentemente annessi. Ovviamente, le difficoltà di determinazione di alcuni dati numerici dello sterminio non possono incidere sulla sua tragica realtà. Di fronte a esse, può essere talora preferibile tratteggiarne le dimensioni quantitative nazionali in termini percentuali. Ecco quindi che, con riferimento ai confini statali del 1938 e alla popolazione ebraica del 1939, lo sterminio superò la percentuale del 75 per cento in Lettonia, Lituania, Polonia (3.000.000 di uccisi su 3.250.000), Cecoslovacchia, Ungheria, Germania, Austria, Jugoslavia, Grecia e Olanda (105 mila su 140 mila). La percentuale si aggirò tra il trenta e il cinquanta per cento in Norvegia (800 su 2 mila), Estonia, Russia europea (1.200.000 su 2.800.000), Romania, Lussemburgo. Fu circa del 25 per cento in Belgio e Francia. In Italia (ove gli ebrei assommavano a 43 mila sia nel 1939 con riferimento a tutta la penisola, sia nel settembre 1943 con riferimento al centronord) la percentuale fu del sedici per cento se consideriamo solo i 7 mila ebrei uccisi, o del 18 se includiamo gli 800 deportati che sopravvissero. Poche infine furono le vittime delle esigue comunità di Danimarca, Albania e Finlandia; e si è detto che non ve ne furono nel territorio della vecchia Bulgaria. La trasformazione delle persone uccise in aggregati percentuali revoca ahimè la loro umanità, ma consente di cogliere con immediatezza l'elevato grado di «successo» del progetto di sterminio. Essa però non legittima il ricorso infantile a graduatorie nazionali di colpevolezze o benemerenze, poiché ciascun capitolo locale della Shoah fu il risultato della diversa presenza e del diverso intreccio di numerosi fattori: data di inizio delle operazioni di sterminio, loro durata cronologica, andamento della situazione bellica complessiva, consistenza numerica e possibilità tecnica di occultarsi delle popolazioni ebraiche, orientamenti delle classi dirigenti, delle burocrazie, dei capi religiosi e delle popolazioni eccetera. È bene, per esempio, avere memoria del fatto che la prima razzia degli ebrei italiani era stata programmata a Napoli, e che essa venne impedita dall'avanzata degli Alleati e dall'insurrezione cittadina.

I dati sono basati largamente, ma non esclusivamente, su una tavola pubblicata in Evyatar Priesel, Atlas of modero jewish History, Oxford University Press, New York e Oxford 1990, p. 111. Essi sono stati integrati con quelli riportati in Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d'Europa, traduzione italiana riveduta e ampliata, Einaudi, Torino 1999, pp. 1.363-83; Yehuda Bauer, Robert Rozett, Estimated Jewish Losses in the Holocaust, in Encydopedia of the Holocaust, a cura di lsrad Gutman, Mamtillan Publishing Company, New York 1990, vol. 4, pp. 1.797-802; Wolfgang Benz, La dimensione del genocidio, in Qualestoria, a. XXI, n. 2-3, agosto-dicembre 1993,pp. 1-28; ld. Death Toll, in The Holocaust Encyclopedia, a cura di Walter Laqueur, Yale University Press, New Haven and London 2001, pp. 138­45 (in corso di traduzione presso Einaudi).

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da «Diario del mese», 23 gennaio 2004, per gentile concessione

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