Diario

Piera Sonnino «Questo è stato»

 

Sul retro è scritto: «Genova, estate 1926». È la sola foto rimasta dei sei fratelli Sonnino. Da sinistra Paolo, ucciso ad Auschwitz a 27 anni, Maria Luisa uccisa a Flossenburg a 25 anni, Giorgio morì ad Auschwitz a 19 anni, Roberto deceduto in luogo e data ignoti, Bice, morta a Braunschweig a 21 anni, e Piera Sonnino, che ritornò dai campi e morì a Genova l'11 maggio 1999. Le sue figlie, Bice e Maria Luisa Parodi, hanno inviato a Diario il racconto che leggerete. È stato scritto nel luglio 1960, viene pubblicato oggi per la prima volta. Dopo 43 anni.

 

Il manoscritto. Vita di Piera Sonnino, unica superstite di una famiglia ebrea genovese di otto persone, sterminata dal nazismo. Il ritorno, il dolore del ricordo, la necessità della memoria

di Giacomo Papi

 

«Chiedo scusa, mi chiamo Maria Luisa Parodi. Sono figlia di Piera Sonnino, sopravvissuta alla Shoah e scomparsa tre anni fa. Mia madre ha scritto un diario. Per tanto tempo è stato custodito da me e mia sorella. Ora è tempo (e vi assicuro che il percorso personale per staccarlo da me è stato ed è doloroso), se lo riterrete opportuno, di renderlo visibile e condividerlo assieme». L’email, datato 17 maggio 2002, era giunto nell’ambito della Memoria lunga, progetto con cui invitavamo i lettori a raccontarci qualcosa dei loro nonni. Qualche giorno dopo, il manoscritto arrivava in redazione. Era un testo di grande valore. Non soltanto per la drammaticità dei fatti narrati (lo sterminio di una famiglia ebrea genovese di otto persone da parte dei nazifascisti), ma anche per intelligenza, sensibilità umana, capacità di scrittura e forza narrativa. Il racconto di Piera Sonnino sprofonda nel fango dei campi di sterminio con tutta la fatica e il pudore che la memoria richiede. Nella prima parte ricostruisce l’erodersi degli spazi di libertà e dignità umana imposto agli ebrei italiani. Una violenza che fu accolta da molti come un evento naturale, una pioggia insistente destinata a finire. La risposta fu restare immobili, come abbagliati dai fari, nell’illusione di rendersi invisibili. È la cronaca minuta di un’attesa, quella della macellazione, da parte di un’intera famiglia. Dall’arrivo ad Auschwitz in poi tutto cambia. Ci si ritrova in «un mare di fango, una pianura di fango. Una pazzia gelida, buia, fangosa (...) Una dimensione dove nulla vi è di umano, totalmente nemica di tutto ciò che è umano, una dimensione che ha assorbito perfino i propri creatori». In questo teatro di fango e di morte, la memoria si sgretola insieme alla coscienza. «Sullo schermo della mente le immagini trascorrono velocissime, confuse, come di un film proiettato troppo in fretta». La velocità ben presto lascia il posto a macchie di memoria in un buio sempre più fitto. Registrare gli eventi, averne coscienza, ricordare si rivelano privilegi riservati a chi è ancora umano. La terribile bellezza di questo diario risiede anche in questo sforzo di rimettere insieme i detriti della storia, anche individuale, attraverso il ricordo. Una memoria che lotta contro la decomposizione che assedia ogni cosa. Come nella descrizione del fango di Auschwitz: «Non pareva terra e acqua: ma qualcosa di organico che fosse andato in decomposizione, carne putrefatta divenuta liquame. Ma aveva una sua presenza. Come se dalla morte fosse verminata una mostruosa forma di vita». Per Piera Sonnino il decoro era importante. Lo si capisce dallo spazio che riserva, nel suo racconto, alla descrizione del dolore di non potere invitare le compagne di scuola per non dover mostrare loro la povertà della propria casa. Lo si capisce dalla cura con cui sceglie le parole per testimoniare, parole sempre appropriate, mai eccessive, mai rabbiose, ma mai serene. Piera Sonnino non lancia invettive: dei quattro italiani che arrestarono la sua famiglia dice soltanto: «Essi stessi per me, oggi, hanno nella memoria il volto della morte». La frase più definitiva, ma più misurata, che si possa rivolgere a un essere umano. Ho incontrato le figlie di Piera Sonnino, Bice e Maria Luisa Parodi, nella loro casa di Genova. Una casa ordinata, di persone perbene. Giuste. Al loro fianco, Paolo e Attilio, i generi di Piera e il nipote Francesco, 12 anni, figlio di Maria Luisa. Mi dice del suo disagio quando i compagni, a scuola, per scherzare fanno il saluto romano. Le figlie mi raccontano il dolore di nascere dal corpo di una donna sopravvissuta. Mi raccontano di Piera dopo la liberazione. Di come tornò a Genova, nel 1950, dopo cinque anni e mezzo in clinica, sola, di come si rimise a lavorare e incontrò Gaetano Parodi, giornalista dell’Unità, comunista, che diede, come ricorda oggi Bice, «un senso e una direzione al dolore della mamma». Morì nel 1973, a soli 50 anni. Nel 1954 era nata Bice, nel 1959 Maria Luisa. I nomi sono quelli delle sorelle uccise nei campi. Dopo di allora, la madre si annullò nel fare, nel prendersi cura ogni giorno del marito e delle figlie e, negli ultimi anni, dei nipoti Davide e Francesco. Nel tirare avanti. Questo testo, che per 43 anni è rimasto in un cassetto, ha rappresentato forse per Piera l’estremo tentativo di fare il punto, di estrarre qualcosa dalle macerie che la assediavano, prima di ricominciare o riprovare a vivere. Dal 1964 al 1968, la famiglia Parodi si trasferisce a Budapest per L’Unità. Per Piera, che nei campi si era ritrovata, unica italiana, tra settecento donne ungheresi, fu un altro strazio. Secondo la figlia Bice, la madre non ricordava volentieri. Maria Luisa, il nipote e il genero hanno un ricordo diverso. Il 23 febbraio 1998, un anno prima di morire, accettò di farsi intervistare per il progetto di Steven Spielberg, Survivors of the Shoah. Nell’intervista della durata di due ore, ripercorre la sua storia con precisione, cercando nella memoria parole, nomi ed eventi. La fatica, anche fisica, di testimoniare il giusto è tremenda, le pause si susseguono. Lo sforzo è tale da schermare le emozioni. Ma l’insegnamento è lo stesso: la memoria è decoro, dignità, lotta contro la morte e la cattiveria. Il testo che state per leggere fu scritto nel luglio 1960, probabilmente anche in risposta ai disordini di Genova, città medaglia d’oro della Resistenza insorta per impedire un congresso dell’Msi. La figlia Maria Luisa ha deciso di rendere pubblico il diario di sua madre, perché sconvolta dalle violenze che avvennero, sempre a Genova, nel luglio 2001. La crosta della civiltà è sottile e a volte sembra che sotto di essa scorra solo violenza.



Genova, 20 Luglio 1960

Mi chiamo Piera Sonnino,

sono nata trentotto anni orsono a Portici, nei pressi di Napoli, quarta dei sei figli avuti da mia madre, Giorgina Milani, e da mio padre Ettore. Il loro matrimonio, celebrato con rito ebraico a Roma nel 1910, era stato fastoso, come si addiceva alle condizioni sociali di entrambe le famiglie, e la cerimonia si era conclusa con un concerto al quale aveva partecipato una soprano allora assai nota. Per mia madre, profondamente innamorata dell’uomo che era diventato suo marito, e per mio padre l’inizio di una vita in comune era avvenuto sotto i migliori auspici.

Il primogenito dei figli fu Paolo, cui seguirono Roberto, Maria Luisa, io, Bice e Giorgio. Mio padre era un bellissimo uomo. L’unica fotografia che sia riuscita a salvare di lui lo mostra ancora giovane con l’aspetto di un gentleman di fine secolo, elegante e dall’aria spavalda. Era buono e generoso come sanno esserlo i napoletani. Proveniente da famiglia della media borghesia – l’onorevole Sidney Sonnino era cugino di nostro nonno – conservò per tutta la sua vita e, nonostante la rovina del suo fisico e le atroci umiliazioni subite, fino all’ultima, lunga notte di Auschwitz la naturale signorilità che in noi, suoi figli, aveva sempre infuso rispetto e soggezione. Per molti anni la professione impostagli dalla tradizione familiare e – come ritengo – accettata con molte riserve, era stata quella dell’uomo di affari, commerciante e rappresentante di commercio, a seconda delle circostanze, e l’aveva svolta con fortuna alterna e sempre assai scarsa. Nei periodi in cui la sorte lo assisteva e quando riusciva a concludere qualche buon affare, mio padre, con un entusiasmo quasi infantile, riempiva la casa di tutto ciò, non importa se superfluo, che giudicava potesse allietare l’esistenza della moglie e dei suoi figli. Ancor prima del 1938, l’anno in cui con l’entrata in vigore delle leggi razziali la condizione umana e sociale della nostra famiglia andò in frantumi, ci trovammo ad attraversare giorni e giorni di dignitosa miseria confortati da grammofoni e dischi di gran classe e di macchine fotografiche ultimo modello. È inutile dire che quelle testimonianze di tempi migliori scomparivano di lì a poco sotto l’incalzare delle necessità domestiche. Mia madre era nata a Roma, aveva conseguito il diploma per l’insegnamento ed era una eccellente pianista. Si dichiarava nemica delle canzonette ma noi, suoi figli, riuscivamo talvolta a farle dimenticare Bach e Haydn e a costringerla amorevolmente a sedere al piano per eseguire le arie in voga. Succedeva sempre che a mezzo di un motivo allegro la musica s’interrompesse all’improvviso e le note di una «sonata» si spandessero di lì a poco nell’aria. Mamma suonava con aria assorta, come traesse dentro di sé, e non dalla sua memoria soltanto, quei brani sovente melanconici. A distanza di tanti anni e con l’esperienza che la vita mi ha dato, l’amore che ho sempre portato a mia madre si è tramutato in venerazione. Oggi posso misurare fino in fondo, e se non sempre comprenderlo almeno intuirlo, quale complesso e gravoso carico ella abbia portato, quale somma di angosce l’abbia torturata per lunghi anni, prima della fine che l’attendeva. Il carattere di mia madre non era soverchiamente espansivo, come quello di tutti i membri della mia famiglia in generale; le sue regole erano il silenzio e il controllo dei propri sentimenti. Ma io ricordo quando esse furono infrante dagli avvenimenti, il giorno dell’arresto, la deportazione, la nostra ultima lunga notte nella grande baracca di smistamento di Auschwitz: ricordo il suo pianto continuo e ininterrotto di povera donna straziata. Paolo si era laureato in economia e commercio nel 1940. Per poter studiare aveva dovuto lavorare e, in particolare, dopo la promulgazione delle leggi razziali, le occupazioni che riuscì a trovare furono sempre saltuarie e mal retribuite. La sua laurea fu il risultato di lunghi sacrifici e di un carattere serio e tenace. Io credo che Paolo, pur essendo il primogenito e quello che più di tutti godette di un più lungo periodo di tranquillità, sia morto senza aver conosciuto l’amore. In casa nostra era proibito parlare di certi argomenti, e l’amore era tra questi, ma io ricorderei qualche episodio o qualche accenno riguardanti Paolo. E invece l’ho nella memoria assorbito totalmente dapprima dal lavoro e dallo studio e poi dall’ansia comune. L’ansia che anche a noi, suoi fratelli e sue sorelle, negò la giovinezza e l’amore e perfino di poter sognare un avvenire. Dal 1938 in poi, per cinque anni, noi vivemmo in un tempo senza futuro, un oscuro presente sul quale gravava, confuso e indistinto, l’incubo che ci ghermì dopo l’8 settembre 1943. Mio fratello Roberto a 15 anni dovette interrompere gli studi e occuparsi. Quanto mio padre guadagnava non era allora, come in genere non lo fu mai, sufficiente a garantire alla nostra famiglia, dal 1925 composta di otto persone, un livello di vita anche modesto. La prima retribuzione di Roberto fu di duecento lire mensili. Roberto era un giovane pratico, allegro, amante della vita. A mano a mano che nostro padre e nostra madre reagivano sempre meno all’incubo che premeva attorno a noi, egli divenne se non il perno colui che più di ogni altro sapeva sobbarcarsi le responsabilità della famiglia. Fu Roberto a prendere iniziative che tante volte ci procurarono il pane e ci tolsero da situazioni angosciose. Egli era tutt’altro che un contemplativo e se avesse potuto ultimare gli studi probabilmente non avrebbe ottenuto lo stesso successo di Paolo e non certo perché avesse meno intelligenza. Aveva un carattere poco metodico, estroso, dell’uomo dalla personalità ricca di buon senso e di idee. Giorgio fu l’ultimo nato. Dall’età della ragione in poi crebbe nell’incubo. Gli ultimi nove mesi della sua esistenza li visse chiuso tra le mura dell’appartamento di via Montallegro nel rione di San Martino dove avevamo trovato alloggio e rifugio. Per nove lunghi mesi fu segregato dalla società e dalla vita. Era divenuto nervoso fino all’esasperazione e durante i bombardamenti aerei veniva colto da crisi che lo lasciavano esausto. Noi, sue sorelle, lo provvedevamo di libri: ci chiedeva in continuazione volumi di storia in particolare del primo Risorgimento. Era divenuto un profondo conoscitore delle biografie di Mazzini e di Garibaldi. Negli ultimi tempi aveva cominciato a mandare a memoria perfino un dizionario e al mattino quando veniva ad aiutarci in cucina ci chiedeva il significato delle parole più astruse e meno correnti che riusciva a trovare, divertendosi a metterci nell’imbarazzo. Gli fornivamo l’occasione per lunghe dissertazioni che nascevano dal bisogno che era in lui, e che noi comprendevamo, di sentirsi vivo attraverso le sue stesse parole. Ma anche quelli erano rari momenti di distensione. Giorgio, minuto per minuto, giorno per giorno, visse nove mesi di terrore. Egli fu tra noi quello che per primo entrò nella nera anticamera della morte e quando la morte giunse egli cedette senza resisterle. Maria Luisa era la sorella maggiore. Una bellissima ragazza, dal carattere assai somigliante per molti aspetti a quello di Roberto. Quando fummo ad Auschwitz e più tardi, divisi dai nostri parenti, a Belsen e a Braunschweig, ella divenne per Bice e per me come una madre. A distanza di quindici anni, talvolta, quando attorno a me regna il silenzio, mi pare di riudire la sua voce, esile e arrochita, levarsi nella baracca, quando cantava per Bice e me, per tenere desta in noi l’assurda speranza di sopravvivere. Una sera, eravamo appena tornate alla stalla di Braunschweig che dividevamo in poche ebree italiane con settecento correligionarie ungheresi, una sorvegliante venne a leggere un elenco di noi deportate. Tra esse vi era quello di Maria Luisa. Nostra sorella si incolonnò con le altre chiamate. Bice e io credevamo che fossero destinate a un turno supplementare di lavoro come spesso accadeva. Non fu dato a nostra sorella il tempo di salutarci. Non la rivedemmo più. Bice, più di ogni altro figlio, rassomigliava a nostra madre. Soprattutto nel carattere. Era la penultima nata. Una bambina ancora ad Auschwitz, a Belsen, a Braunschweig. Per quattro giorni il suo cadavere rimase abbandonato su una panca di legno e alla fine era scomparso sotto la neve. Mio padre Ettore Sonnino e mia madre Giorgina Milani, all’età rispettivamente di sessantaquattro e di cinquantotto anni, furono uccisi nelle camere a gas di Birkenau il 28 ottobre 1944. Paolo, all’età di ventisette anni e Roberto, all’età di ventisei anni, furono uccisi nel mese di novembre. Giorgio, all’età di diciannove anni, fu ucciso pochi giorni dopo i suoi fratelli. Maria Luisa all’età di venticinque anni fu uccisa a Flossenburg il 20 marzo 1945. Bice fu uccisa a Braunschweig nella notte tra il 15 e il 16 gennaio 1945. Aveva ventun anni. Il numero che la morte aveva impresso sul mio braccio, e che ancora porto, è: A26699. Nel settembre del 1950, dopo cinque anni di case di cura e di sanatori, io sola, dell’intera mia famiglia, sono tornata alla vita.


II. Le prime avvisaglie dell’incubo ci raggiunsero tra il 1934 e il 1935. Ebrei tedeschi scacciati dalla Germania nazista giungevano in continuazione a Genova, dove abitavamo fin dal 1925, e la Comunità forniva loro soccorso nella misura che poteva, indirizzandoli per altri aiuti presso le famiglie dei correligionari. Il loro numero andò crescendo al punto che finimmo per avere ben poco da dividere con essi. Queste prime vittime dell’antisemitismo nazista, malvestite e affamate, entravano nella nostra casa quasi vergognose e si profondevano in mille ringraziamenti se potevamo dar loro qualcosa. Nessuno tra essi conosceva l’italiano, ma molti parlavano il francese e in questa lingua tentavano di spiegarci a voce bassa, e come se paventassero di non essere creduti, ciò che in Germania stava accadendo. Negozi e abitazioni di correligionari assaltati e devastati, ebrei bastonati a sangue, uccisi, una furia cieca, premeditata che andava salendo. I racconti che udivamo ci sembravano appartenere a un mondo così distante da noi da rappresentare una realtà diversa dalla nostra. Non riuscivamo a immaginare nessun nostro vicino di casa, nessuna nostra conoscenza, nessuno tra i mille e mille sconosciuti che incontravamo ogni giorno, capaci di entrare nella nostra casa, di aggredire nostro padre e nostra madre, di far del male a noi perché ebrei. Noi dicevamo queste cose ai nostri correligionari esuli dalla Germania di Hitler ed essi scrollavano il capo mestamente. Il nazismo è una cancrena che si diffonderà assai lontano, commentavano. Dopo il 1935 gli arrivi cessarono bruscamente e noi pensammo che la situazione si fosse in qualche modo normalizzata. L’agonia degli ebrei tedeschi era invece iniziata e noi lo ignoravamo come ignoravamo che cominciavano a entrare in funzione quei campi dove, appena nove anni dopo, la nostra famiglia sarebbe stata sterminata. L’esodo degli ebrei dalla Germania di Hitler aveva seminato in noi sospetti e inquietudini, per quanto ancora vaghi. Seppure del tutto estranei a ogni partecipazione alla vita comune della collettività umana cui appartenevamo e non schierati né da una parte né dall’altra della barricata, non poteva sfuggirci la somiglianza tra fascismo e nazismo, né i passi che le due dittature fatalmente andavano facendo l’una incontro all’altra. Sensazioni ancora confuse, non ancora giunte a livello di coscienza, presagi che respingevamo come facevano altri nostri correligionari perché è proprio di una parte degli ebrei credere che il desiderio di farsi ignorare si tramuti perciò stesso nella realtà di essere ignorati. Erano quelli gli anni in cui le condizioni della nostra famiglia andavano peggiorando. Papà e mamma, dopo il matrimonio, si erano trasferiti da Roma a Portici e, quindi, nel 1923, con i figli già nati, Paolo, Roberto, Maria Luisa e io, a Milano. A Milano erano venuti alla luce Bice e Giorgio e questi aveva pochi mesi di vita quando a seguito di un nuovo trasloco ci sistemammo a Genova. Mio padre aveva assunto la gestione di un negozio in piazza Campetto e ciò pareva averci aperto buone prospettive per l’avvenire. Tre anni dopo, però, in seguito alla sua cattiva sorte, papà dovette riprendere l’antica e magra professione di rappresentante di commercio. Nel 1935, come ho già detto, Roberto lasciò gli studi e si impiegò. Di quel periodo ho ricordi assai poco gradevoli. Erano numerosi i giorni in cui non avevamo nulla, nel significato letterale della parola, da mangiare. Parecchie volte, Maria Luisa, Bice e io avemmo come pranzo e cena un gelato che il vecchissimo avvocato Giuseppe Fontana, il quale ci trattava come sue nipotine e mai avrebbe potuto immaginare le nostre condizioni, ci regalava incontrandoci nei giardini di piazza Manin. Difendevamo la nostra miseria dagli estranei con tutti gli espedienti possibili. Eravamo diventati tutti assai bravi nell’impedire a chiunque non appartenesse allo stretto ambito familiare di entrare in casa nostra e di rendersi conto dei vuoti che si erano aperti nei mobili e nelle suppellettili. Per noi ragazze era quella l’età in cui piace invitare a casa le amiche e le compagne di scuola ed essere invitate a nostra volta per giocare, studiare e trascorrere un po’ di tempo assieme. Noi non potevamo aspirare né all’una né all’altra cosa, eravamo costrette a mantenere i rapporti con le nostre coetanee a un livello del tutto superficiale, imparando a contenere e a soffocare qualsiasi impeto di simpatia. Tanto pudore, o tanta vergogna, della nostra miseria oggi non mi appare più del tutto comprensibile se non inquadrato nel dramma economico e sociale che investiva in quell’epoca numerose famiglie della piccola e media borghesia, quelle, almeno, che non erano riuscite o non avevano voluto inserirsi nel regime. Accettavamo di nascondere il nostro vero stato come fosse naturale farlo e se qualcuno ci avesse detto che così facendo obbedivamo ai pregiudizi, all’incapacità di affrontare la realtà e alla fondamentale inerzia delle classi da cui provenivamo e non, invece, alle leggi della dignità e del decoro ci saremmo ribellati. Io per prima. Si aggiunga, inoltre, che noi eravamo originari del Sud, da cui eravamo giunti con tradizioni e costumi fermi come principi irrevocabili, e che, pertanto, ci riusciva assai difficile assimilare o farci assimilare dall’ambiente genovese. Un’altra ipoteca che gravava su noi era rappresentata da quella particolare atmosfera deformante di ogni realtà che fu propria del fascismo. L’ottimismo ufficiale del regime non ammetteva e non tollerava drammi economici familiari. Noi che di fascismo non eravamo contagiati avvertivamo assai bene l’incolmabile frattura tra la realtà e l’ottimismo ufficiale, ma penso che quest’ultimo, in fondo, finisse, anche se inconsciamente, per legittimare in qualche modo ciò che giudicavamo fosse dignità e decoro. Tutti questi e altri elementi erano all’origine di quella fase di isolamento della nostra famiglia che avrebbe potuto concludersi quando, qualche anno più tardi, l’impiego di Paolo e di Maria Luisa e infine il mio, oltre quello di Roberto, ristabilì in parte la situazione. Dal 1938, purtroppo, tale isolamento divenne per legge forzoso. Dopo il 1935, come ho detto, gli ebrei esuli dalla Germania di Hitler cessarono di bussare alla nostra porta. Ma proprio in quell’anno il fascismo dava il via alle proprie sanguinose avventure [1] e il nazismo prendeva posizione al suo fianco. In seguito vi furono giorni in cui i nostri macilenti e terrorizzati visitatori di un tempo parevano far capolino dai grandi titoli guerrieri dei quotidiani e la loro presenza, incerta e fumosa, si rivelava accanto a noi in paure indistinte che tacevamo l’uno all’altro. La nostra famiglia, intanto, andava riacquistando una certa tranquillità economica. Paolo riuscì a impiegarsi presso le Assicurazioni generali Venezia, Roberto all’Istituto nazionale delle assicurazioni e Maria Luisa al Monopolio banane. Giorgio studiava all’Istituto tecnico Tortelli e Bice e io all’Istituto commerciale Regina Elena. Le leggi razziali furono promulgate all’improvviso nell’agosto del 1938. Qualche tempo prima il governo fascista aveva dichiarato che in Italia non esisteva la «questione ebraica». L’avvenimento ci colse di sorpresa. Un fulmine abbattutosi sulla nostra casa. Nel giro di pochissimi giorni Paolo, Roberto e Maria Luisa furono licenziati. A ottobre Giorgio, Bice e io fummo costretti a lasciare le scuole statali e a iscriverci alla scuola ebraica. Allora io avevo sedici anni, un’età in cui i giovani, in generale, hanno già desto il senso critico e con esso cominciano ad affrontare e a giudicare la vita. Le mie sorelle e io eravamo state cresciute ed educate secondo principi che ci avevano tenute al di fuori di qualsiasi contatto con i nostri coetanei, con la società, con il mondo. Eravamo tenute all’oscuro di tutto ciò che riguardava gli affari familiari di esclusiva pertinenza dei nostri genitori e in genere questi ultimi evitavano di discorrere dinanzi a noi di qualsiasi argomento esulasse i semplici rapporti domestici. Può apparire inverosimile, ma io ignoro quanto in quell’epoca guadagnassero i miei fratelli. Le nostre vicende e quelle che accadevano oltre il cerchio magico della nostra famiglia erano fatalità di cui era vano ricercare la causa. La mia era una famiglia di agnelli, di buoni, pronta a subire qualsiasi torto anziché macchiarsi di uno solo, desiderosa di fare il meno chiasso possibile e di occupare il minor spazio possibile su questa terra. Anche la sera in cui Paolo, Roberto e Maria Luisa annunciarono il loro licenziamento e dinanzi a noi si aprì la voragine dell’avvenire evitammo di lamentarci perché nessuno potesse udirci, rimanemmo in silenzio a meditare sull’incognita terribile dell’indomani. Gli avvenimenti di quei giorni sono registrati in maniera piuttosto confusa nella mia mente. Papà era pessimista e si rendeva conto che almeno nei rapporti ufficiali con le ditte la sua professione, se era stata sempre magra di successi, diveniva da ora in poi assolutamente sterile. La mamma, che forse più di tutti noi intuiva le dimensioni del nostro presente e del nostro breve futuro, invecchiò rapidamente, in pochi giorni, chiusa in un silenzio sempre più disperato. Roberto e Maria Luisa parevano i più ottimisti e con le loro parole spronavano tutti noi. Ma al di sotto delle preoccupazioni più contingenti, nel profondo delle nostre ansie, vi era la sensazione che qualcosa di sconvolgente stesse per scatenarsi. Ancora una volta i nostri visitatori del 1934 e del 1935 rivelavano di avere lasciato nella nostra casa e in noi la loro presenza vischiosa, quasi concreta, che andava prendendo corpo. Quella Germania di Hitler che ci era apparsa così distante cominciava a confondersi con la nostra terra, la terra da cui siamo nati, la terra mia e dei miei avi. La realtà che avevamo sempre voluto ignorare improvvisamente e nella sua forma più brutale si impadroniva di noi. Alle prime discriminazioni e ai primi divieti altri se ne aggiunsero. Non passò giorno di quell’agosto e dei mesi successivi in cui i quotidiani non riportassero il testo di sempre nuove sanzioni a carico di noi ebrei. Di ventiquattr’ore in ventiquattr’ore il nostro margine di libertà e di vita ci veniva progressivamente ridotto. Ad aggravare la nostra tensione cominciarono a circolare notizie riguardanti l’abbandono dell’Italia da parte di famiglie ebree. Parecchie tra esse emigravano in Francia con l’illusione di mettersi al sicuro. Un anno dopo l’intera Europa sarebbe stata una tomba per gli ebrei ovunque essi si trovassero. I più fortunati furono coloro che riuscirono a raggiungere le due Americhe. In quell’estate del 1938, a mano a mano che venivano pubblicate le disposizioni relative alla nostra declassazione al rango di subumani e la campagna razziale andava prendendo vigore rilevantissimo in particolare sulla stampa con articoli e saggi cui si prestarono anche taluni uomini che si definivano scienziati e altri i cui nomi rivedo talvolta ancor oggi tra quelli dei difensori della stessa «civiltà» di allora che ha appena mutato etichetta, spesso noi uscivamo di casa guardando la gente cui eravamo usi e alla quale appartenevamo, timorosi e diffidenti. Quasi temessimo che la campagna antisemita potesse suscitare anche nell’uomo della strada reazioni a noi contrarie. Anche i miei fratelli all’inizio erano preoccupati che qualcosa del genere potesse accadere. E invece non solo in quel tempo ma soprattutto negli anni che seguirono scoprimmo attorno a noi una solidarietà umana silenziosa ma operante. Le misure antiebraiche suscitavano generalmente nuovi motivi contro la dittatura fascista e nei nostri confronti più simpatia di quanta ne avessimo mai ricevuta. Ne è prova il fatto che nell’autunno seguito a quell’estate d’angoscia Paolo fu assunto dalla ditta Fratelli Schiavetti, Roberto dalla ditta Terracini e Maria Luisa dapprima nello studio dell’avvocato Greco e successivamente in quello degli avvocati Sciarretta e Medina. Nel 1941 io stessa occupai il posto lasciato vacante nella S.A.I.C., di proprietà dei signori Morelli e Ginepro, da un ebreo tedesco che era stato rinchiuso in un campo di concentramento a Montefiascone. Ognuno di noi nel domandare lavoro era tenuto a declinare la propria qualità di ebreo, ma essa – salvo qualche caso di «prudenza» – non provocava se non aperte professioni antifasciste fatte sovente col tono di chi ha tardato troppo a trovare qualcuno con cui sfogare un sentimento a lungo represso, sicuro di potersene fidare. Se il dramma degli ebrei italiani anche dopo l’8 settembre 1943 non attinse le proporzioni tragiche altrove subite dai nostri correligionari ciò fu dovuto alla meravigliosa e umana coscienza del nostro popolo. E io ritengo che proprio la mia testimonianza possa essere più preziosa di altre perché nel corso dell’anno che vivemmo alla macchia, assillati e tormentati dall’incubo, sempre più vicini alla nostra tremenda fine, ho potuto conoscere e valutare il significato di ciò che vado dicendo. Ricordo un povero contadino di Sampierdicanne, nei pressi di Chiavari, dove ci eravamo rifugiati, ripetere che l’umanità non si divide in ebrei e non ebrei ma in ricchi e poveri, tra chi possiede tutto e chi non possiede nulla, tra chi lavora la terra e non ne gode i frutti e chi non la lavora e si appropria della mietitura e della vendemmia. Queste parole di antica saggezza mi sono rimaste nel cuore e sono certa che esse racchiudono l’estrema verità dei popoli. Io, ebrea italiana, ne ho sperimentato il valore quando per me la mia sola esistenza rappresentava un reato da punire con la morte.


III. Quel giorno, ed era la prima volta che accadeva, Paolo fu invitato a Novi Ligure dai dirigenti della ditta presso cui lavorava. Assolto il suo incarico venne a trovarmi e quando entrò nel mio ufficio ero così poco preparata a una sua visita che stentai perfino a riconoscerlo. Al termine dell’orario lo presentai al mio collega e uscii con lui. Ero veramente contenta di questo incontro tanto inaspettato e solo preoccupata che Paolo chiedesse di vedere come ero sistemata a Novi Ligure dove si erano trasferiti gli uffici della S.A.I.C. a causa dei bombardamenti che si susseguivano su Genova. Avevo dovuto insistere non poco presso mio padre perché mi autorizzasse a seguire i signori Morelli e Ginepro. Da qualche tempo la mia famiglia era sfollata a Sampierdicanne, a pochi chilometri da Chiavari e io ero costretta a trascorrere tutta la settimana lontana dai miei. Partivo da Chiavari il lunedì all’alba e vi tornavo la sera del sabato successivo. Papà nelle ore che trascorrevo in famiglia si industriava a convincermi che avrei dovuto rinunciare all’impiego e starmene a casa. Era per lui un fatto straordinario che due delle sue figlie lavorassero, ma era addirittura inconcepibile che una di esse fosse lontana sei giorni su sette. Papà da tempo era stato costretto a interrompere ogni attività e si sottoponeva a qualsiasi sacrificio pur di non aggravare, con la sua, la situazione della famiglia. Non era più l’uomo che ricordavo nel passato: non aveva perduto nulla della sua fisionomia di un tempo, ma era invecchiato al di là dei suoi anni. A noi pareva che nostra madre anziché sei avesse adesso sette figli e che uno di essi fosse nostro padre. Sarei stata ben lieta di poter evitare di lavorare e vivere da sola a Novi Ligure, ma non potevo far mancare il mio stipendio alla mia famiglia che già si dibatteva in gravi difficoltà. Mi era sufficiente, del resto, l’atteggiamento di mamma, quando papà insisteva nelle sue fatiche, a farmi comprendere quanto fosse necessario che continuassi a lavorare. Un poco alla volta ero riuscita a tranquillizzare papà facendogli credere che a Novi ero sistemata decentemente e che nulla mi mancava. In verità tutto il personale impiegatizio della S.A.I.C. era rappresentato a Novi da un mio collega, il signor Mantelli, e da me. Il signor Mantelli si era trasferito con la famiglia e a lui era toccata una camera necessariamente spaziosa. Io ero finita in una stanzetta ricavata nell’abbaino, una stanzetta minuscola dal soffitto basso e obliquo secondo l’inclinazione del tetto. Non me ne lamentavo certo perché, in fondo, godevo di un’indipendenza che mai avevo avuto e, superato lo shock dell’adattamento, avevo finito per trovare piacevole perfino la strana disposizione del letto da cui vedevo il progressivo discendere del soffitto. Nessuno, neppure Paolo, sarebbe stato in grado di apprezzare quelle che definivo le mie comodità. Per questo motivo temevo che, data un’occhiata all’abbaino, mio fratello sarebbe tornato a casa scandalizzato provocando il mio immediato richiamo. Ricordo tutto ciò perché rappresentò il mio cruccio in quelle ultime ore dell’8 settembre 1943. Riuscii a evitare che Paolo si interessasse troppo al mio alloggio e insieme andammo a cenare in una piccola trattoria. Avevamo appena iniziato a mangiare quando la radio dette l’annuncio del comunicato dell’armistizio. Era ancora giorno per le vie di Novi e la gente andava e veniva. A un tratto fu come se una paralisi avesse colpito la cittadina e i suoi abitanti: il silenzio calò mentre lo speaker procedeva alla lettura del comunicato. Io stavo attenta ma comprendevo soltanto che la guerra era finita e già pensavo che all’indomani non avremmo più dovuto aver paura del cielo e che i bombardamenti sarebbero cessati e con essi anche l’incubo si sarebbe dissolto. Non riuscivo a comprendere l’atteggiamento di Paolo seduto dinanzi a me, il cui volto andava facendosi sempre più teso e preoccupato. Quando lo speaker tacque, nell’osteria e per le strade si levarono grida. Un tumulto. Paolo respinse il piatto e si alzò.
«È necessario che tu venga via subito con me», mi disse. «Dobbiamo tornare immediatamente a casa». Gli chiesi il perché. «Ci sono guai in vista», rispose.  «La guerra è finita...», ripetevo. «Non per i tedeschi», disse ancora mio fratello. Ebbi l’impressione che sapesse qualcosa di cui non intendeva mettermi al corrente. Sentivo dentro di me la voglia di cantare e di gridare come vedevo fare alla gente per le strade. Paolo mi chiese dove avremmo potuto trovare a quell’ora i miei principali. Andammo in ufficio e vi era solo, ancora intento al lavoro, il signor Morelli. Anch’egli aveva appreso dalla radio la notizia dell’armistizio. In pochi giorni gli alleati avrebbero occupato l’Italia e cacciato via i tedeschi, disse. Mio fratello gli annunciò la sua decisione di ricondurmi a casa. La commentò definendola esagerata. «Qualsiasi cosa possa accadere, la signorina Sonnino non corre alcun pericolo fino a quando rimane con noi». Mio fratello insistette. Ripeté che per i tedeschi la guerra non era finita e che significava non conoscerli credere che avrebbero abbandonato così facilmente la partita in Italia. Morelli ribatté che c’erano in Italia sufficienti divisioni di soldati nostri in grado di fronteggiare qualsiasi minaccia da parte germanica. Paolo gli augurò e si augurò che le cose andassero secondo le sue previsioni. Ci accomiatammo dal mio principale che, dopo quel giorno, non avrei più rivisto. Raccolsi le mie poche cose e partimmo alla volta di Sampierdicanne. Lungo il viaggio frammenti di conversazioni colti tra i passeggeri, l’atmosfera stessa regnante nel convoglio, la confusione che notavo nelle stazioni e l’apparizione di divise tedesche in luoghi dove mai ne avevo notate cominciarono a convincermi che mio fratello non aveva esagerato affatto nel presagire il pericolo. Quando giungemmo a Sampierdicanne trovammo la nostra famiglia in allarme. Da Chiavari e da Genova continuavano a giungere notizie sui minacciosi movimenti delle truppe tedesche e sui primi sbandamenti dei reparti italiani. Prima di giungere a casa avevamo incontrato numerosi militari che chiedevano abiti borghesi. Uno di essi aveva detto che gli altri ufficiali avevano cominciato a dileguarsi. Nel cuore della notte si sparse la voce che le caserme di Genova erano già sotto controllo tedesco e che i soldati italiani che non erano riusciti a fuggire venivano fatti prigionieri. Era impossibile avere conferma della fondatezza di tante notizie e di tante voci anche perché spesso le une contraddicevano le altre. Si parlava di divisioni di alpini in marcia di avvicinamento e si aspettava da esse la liberazione. Già da quella notte, però, la sensazione generale era di una dissoluzione pressoché totale degli schemi che fino allora ci avevano aiutato a vivere e sui quali ci eravamo modellati. Mio padre e i miei fratelli discussero fino all’alba e conclusero che era necessario abbandonare subito Sampierdicanne e trovarci un rifugio sicuro. Ho l’impressione, mentre scrivo queste righe, che in quella notte, sia pure senza il concorso di una volontà consapevole, noi giungemmo alla conclusione di un processo che dentro di noi era ormai maturato. Senza esserne consci noi avevamo sempre saputo, dopo il 1938 e forse anche prima, fin da quando l’antisemitismo nazista inviò fino a noi le sue prime testimonianze, che sarebbe venuto il momento in cui avremmo dovuto fuggire e in fondo ci eravamo preparati a esso come a una sorte ineluttabile. L’indomani la catastrofe si presentò in tutte le sue dimensioni. Le truppe naziste dominavano ormai la situazione. Nelle stazioni e lungo le vie davano la caccia ai militari italiani. Chiavari, in poche ore, aveva mutato aspetto. Maria Luisa tornò alla sera da Genova con notizie ancora più drammatiche. La nostra città era invasa e vi regnava la più grande angoscia. La nostra situazione appariva disperata. Paolo e Roberto perché ebrei erano stati esentati dal servizio militare ma avrebbero potuto essere catturati dai tedeschi come soldati sbandati e in questo caso dovevano attendersi ben più che la prigionia. Avremmo avuto bisogno di carte d’identità con generalità false, ma né nostro padre né i miei fratelli sapevano come procurarsele. Ci trovammo all’improvviso come una lepre che la muta dei cani ha scacciato dal bosco e che si sorprende allo scoperto, senza difesa. Il tempo delle illusioni era tramontato per sempre e ormai, con i tedeschi padroni della nostra terra e quindi della nostra sorte sapevamo, almeno in parte, ciò che ci attendeva.  Per il momento decidemmo che i ragazzi sarebbero rimasti nascosti in casa mentre noi donne ci saremmo date da fare per scoprire una comune via di salvezza. Per due volte nei giorni successivi sperimentammo concretamente la solidarietà umana che fino allora ci aveva sorretto; per due volte ci vennero offerte soluzioni che avrebbero potuto salvarci la vita. Maria Luisa continuava ad andare e venire da Genova ed era la sola che avesse conservato il proprio lavoro. Alla fine di settembre apparve indispensabile il nostro allontanamento da Sampierdicanne perché la zona ormai era divenuta particolarmente pericolosa per i nostri fratelli. Maria Luisa fu perciò consigliata di licenziarsi. L’avvocato Sciarretta si rese perfettamente conto delle nostre preoccupazioni e disse a mia sorella che, se lo avessimo voluto, avrebbe potuto procurarci un rifugio sicuro. Occorreva raggiungere Termini [2] e là rivolgersi a un suo fratello che avrebbe provveduto a ospitarci. Egli, che era a conoscenza della nostra difficile situazione economica, era anche disposto a metterci a disposizione i mezzi per il viaggio. Quando Maria Luisa tornò a casa e ci riferì la proposta tirammo tutti un sospiro di sollievo. Si apriva dinanzi a noi uno spiraglio di luce che, seppure esile, rappresentava però qualcosa di meno incerto delle condizioni in cui vivevamo. Cominciammo a discutere con entusiasmo del viaggio e di ciò che avremmo trovato a Termini. La mamma ci stette ad ascoltare poi ci fece notare, con la sua voce sempre tranquilla, che per i nostri fratelli sarebbe stato un grosso rischio. Paolo, Roberto e Giorgio correvano il pericolo di essere catturati dai tedeschi appena avessero messo piede fuori di casa. Paolo e Roberto ammisero che quanto diceva mamma era vero e proposero di dividerci. I nostri genitori e noi tre sorelle saremmo partiti per Termini e Paolo, Roberto e Giorgio avrebbero cercato di raggiungere la Svizzera. I ragazzi erano come tutti noi a conoscenza che fin dall’indomani dell’8 settembre era sorta come dal nulla, o forse si era messa in attività anche nell’Italia occupata, un’organizzazione particolarmente efficiente per il trasferimento degli ebrei sul territorio elvetico. Il centro dell’organizzazione era a Milano. Naturalmente occorrevano dei denari per poter sconfinare e altro denaro occorreva per vivere in Svizzera. Noi non ne possedevamo e pur conoscendola non avevamo neanche preso in considerazione quella via di fuga. Ma più ancora della mancanza del denaro continuava ad agire in noi l’influsso del cerchio magico della famiglia e del luogo a cui ci eravamo abituati. Andare in Svizzera prendeva l’aspetto di un’avventura al di là del possibile, di uno sradicamento inconcepibile. Io credo che questa sia la verità perché, per un anno, girammo in tondo rimanendo sempre sostanzialmente allo stesso punto di attesa che il nostro destino si compisse. Oggi ciò può apparire quasi assurdo, senz’altro puerile, ma è quanto accadde. Paolo e Roberto erano certi che in Svizzera se la sarebbero cavata anche senza quattrini. Con Giorgio erano sei braccia, disse Roberto, a disposizione di tre stomaci.
La mamma e il babbo si opposero decisamente a questa soluzione. La mamma sostenne che il rischio che i nostri fratelli avrebbero dovuto correre per raggiungere la Svizzera non era inferiore a quello che si presentava lungo il percorso da Genova a Termini. Forse era maggiore. Disse che non si sarebbe mai perdonata di essersi messa lei al sicuro e di avere lasciato i suoi tre figli in balia del caso. Cominciò a piangere come se già si immaginasse lontana dai ragazzi a tormentarsi sulla loro sorte. Papà, dal canto suo, dichiarò che se c’era pericolo dovevamo affrontarlo assieme. Ovunque. Paolo e Roberto insistettero. Da qualche anno si era aggiunta a noi una sorella della mamma, zia Anna Milani; eravamo una famiglia di nove persone, un esercito, la definiva Roberto. Tentare di viaggiare tutti assieme, egli affermava, è una follia. È un secondo esodo che non può passare inosservato. Noi cinque donne guidate da papà avremmo avuto tutte le possibilità di arrivare incolumi a Termini e là attendere la fine della guerra. Continuammo a discutere e a discutere e finalmente la mamma ebbe il sopravvento: avremmo tentato tutti assieme il viaggio per Termini. Maria Luisa tornò dall’avvocato Sciarretta per comunicargli la nostra decisione. L’avvocato la interruppe a metà discorso: Termini era stato occupato il giorno avanti dalle truppe alleate. L’avvocato allargò le braccia e disse che ci aveva offerto a tempo debito quella possibilità. Ripiombammo nella disperazione. Sampierdicanne e tutta la zona del Chiavarese era in permanenza battuta dalle truppe naziste e dai fascisti. I nostri fratelli vivevano in imminente e continuo pericolo. Maria Luisa tornò dall’avvocato Sciarretta. Questi si dimostrò comprensivo e suggerì un convento nell’Abruzzo di cui egli conosceva il priore. Ancora una volta ci offrì del denaro. Ricominciammo a discutere e stavolta, in base alla prima esperienza, sull’evenienza che quel tratto dell’Abruzzo che ci era stato indicato potesse essere occupato prima che noi vi giungessimo. In questo caso – se l’occupazione ci avesse colto in viaggio – che cosa avremmo fatto? Finimmo per scartare definitivamente anche questa seconda possibilità di salvezza. Alla fine di settembre e ai primi di ottobre fu chiaro che se avessimo tardato anche di un solo giorno la nostra partenza da Sampierdicanne avremmo corso il rischio di farci intrappolare dai tedeschi. Più di uno in quella località era a conoscenza che eravamo ebrei. Roberto decise di chiedere aiuto a una propria collega di ufficio, la signora Maria Luisa Bancalari. Vincendo le riluttanze della mamma, preoccupata per il suo viaggio a Genova, andò a trovarla e tornò dicendo che la signora Bancalari avrebbe provveduto, a mezzo della sua domestica, a trovarci un alloggio in Val Trebbia e più precisamente in un paesello nei pressi di Rovegno. Attendemmo con ansia qualche giorno e finalmente la signora Bancalari ci informò che erano a nostra disposizione alcune camere nell’unico alberghetto di Pietranera di Rovegno, chiuse da mesi, e che un contadino era disposto a fornirci una cucina. Un mattino radunammo le nostre cose su un carretto e, a piedi, partimmo alla volta di Chiavari. Attorno a noi si raccolse un bel po’ di gente tra curiosa e compassionevole per vedere andare via «la famiglia ebrea». Ci guardarono con qualcosa negli occhi che non dimenticherò più. Se i miei fratelli lo avessero chiesto sono certa che ci avrebbero aiutato a mettere le valigie sul carretto e avrebbero stretto la mano a tutti purché, per primi, l’avessimo tesa. Mentre ci allontanavamo non potemmo fare a meno di pensare a quella gente e al fatto che, seppure ognuno di noi valeva una taglia di duemila lire, nessuno ci aveva denunciato. Gente umile, gente sconosciuta, poverissima, quella che lasciavamo alle spalle, gente che non possedeva assolutamente nulla e che ci aveva donato altri mesi di vita. Il viaggio fino a Pietranera di Rovegno fu pieno di allarmi, pauroso. Ovunque soldati tedeschi e repubblichini. Ore di spasimo per noi e più ancora per i nostri fratelli che potevano essere catturati da un momento all’altro. Pietranera era già stata investita dall’autunno. Le foglie degli alberi erano gialle e i prati mostravano tracce opulente di verde frammiste a chiazze grigie e marroni. La vallata del Trebbia era percorsa dai primi venti freddi. L’alberghetto era assai più modesto di quanto avevamo immaginato. Pareva abbandonato e deserto da secoli. Ci sistemammo alla meglio nelle camere che ci furono indicate. Iniziammo un’esistenza del tutto diversa da quella cui eravamo usi. Non avevamo assolutamente nulla da fare. Fino a quando potemmo, trascorrevamo le giornate passeggiando per i boschi, sempre vigili e attenti per non richiamare su di noi l’attenzione di estranei. Alla sera andavamo a letto assai presto e io ricordo i miei lunghi pesanti sonni senza sogni. Noi ragazze preparavamo i pasti nella cucina che era lontana un centinaio di metri dall’albergo. Erano pasti che non esigevano molte cure: polenta, castagne secche o appena cadute dagli alberi, farina di castagne. Le patate erano un lusso e dovevamo a Roberto, che girava per le cascine e per i paeselli vicini, se potevamo mangiarne di tanto in tanto. La signora Bancalari più di una volta ci inviò pacchi contenenti pasta e altre vettovaglie e in quei giorni per noi era festa. La nostra tensione non era però diminuita. Eravamo in continuo stato d’allarme. La zona era percorsa quasi quotidianamente da reparti tedeschi che si dirigevano verso le montagne. A ogni loro apparire abbandonavamo l’albergo o la cucina e ci disperdevamo per i boschi. Un giorno fuggimmo per l’avvicinarsi di un gruppo di uomini in divisa e al nostro ritorno apprendemmo che si trattava di militari inglesi evasi dai campi di prigionia. Nessuno ci disse perché erano transitati da Pietranera. Per oltre un mese vivemmo ai margini di una zona controllata in buona parte dai partigiani e lo ignorammo. Avevamo la salvezza a portata di mano senza saperlo. Soltanto al mio ritorno appresi che cosa racchiudessero allora i monti che avevamo attorno. E appresi anche quali legami ci fossero tra quei monti e i contadini che protessero anche noi con il loro silenzio. L’inverno sopraggiunse rigido. Nell’albergo non era possibile accendere fuochi e così ci abituammo a vivere nella cucina dove ininterrottamente una grande stufa borbottava arroventata. Ci consideravamo assai fortunati per il modo in cui le cose si erano messe. L’invito del maresciallo della stazione dei carabinieri di Rovegno ci colse alla sprovvista. Chiedeva che qualcuno di noi si recasse a un colloquio con lui. Sulle prime restammo terrorizzati ma Roberto ci fece osservare che se si fosse trattato di ciò che temevamo sarebbero venuti a catturarci senza invito e senza preavviso. Egli disse che probabilmente si trattava di una richiesta di informazioni visto che, da tempo, eravamo a Pietranera e non avevamo denunciato la nostra presenza. Fu deciso che lo stesso Roberto si sarebbe incontrato con il maresciallo dei carabinieri. Partì un mattino di buonora mentre nevicava e tornò intorno a mezzogiorno. Ogni traccia di ottimismo era scomparsa dal suo viso. Ci raccogliemmo attorno a lui in cucina ed egli ci narrò come erano andate le cose. Il maresciallo si era dimostrato assai gentile. «Invitandola a venire qui, gli aveva detto, io espongo me stesso e i miei uomini a un rischio che lei può benissimo misurare. Noi sappiamo da tempo che la sua famiglia è ebrea. Purtroppo non siamo soltanto noi a saperlo. La voce è corsa. Se qualcuno dovesse fare la spia ai tedeschi anche noi ci andremmo di mezzo per non avervi segnalato tempestivamente. Certo è che non saremo noi a consegnarvi al comando germanico. È necessario, però, che abbandoniate subito Pietranera nel vostro e nel nostro interesse. Tutto ciò che io posso fare per voi è consigliarvi di andarvene». Roberto gli aveva chiesto qualche giorno di tempo per trovare un altro paese dove rifugiarci e il maresciallo aveva finito per accordarglielo. Roberto pranzò e partì immediatamente alla ricerca di un nuovo rifugio. Aveva detto che si sarebbe presentato come uno sfollato da Genova in cerca di alloggio per la propria famiglia. Il primo contadino cui si rivolse gli disse che non avrebbe saputo dove ospitarlo. A un tratto abbassò il tono della voce e confidò a Roberto che quella zona era pericolosa per tutti. Roberto ne chiese la ragione e il contadino lo guardò a lungo prima di rispondergli. Finalmente gli disse che nelle vicinanze si nascondeva una famiglia di ebrei e che sicuramente un giorno o l’altro i tedeschi avrebbero finito per saperlo e allora sarebbero stati guai per tutti. Per gli ebrei, disse, e per noi che ce ne siamo stati zitti. Roberto si affrettò ad allontanarsi. Girovagò per tutto il pomeriggio inutilmente. I contadini non avevano posto per gli sfollati. Erano vaghi, circospetti, diffidenti. Più di una volta dalle loro parole affiorò il senso di pericolo in cui la zona viveva sia per la vicinanza delle montagne, sia per altre cause. L’accenno alla famiglia di ebrei egli lo ascoltò altre volte. Nei giorni successivi Roberto tentò ancora di trovarci un rifugio e finalmente dovette arrendersi. Non c’era posto per gli estranei tra quelle colline e sui monti. In quei giorni di affannose ricerche egli aveva potuto rendersi conto della verità che era nelle parole del maresciallo di Rovegno e di un altro fatto assai più importante: come già a Sampierdicanne, anche qui a Pietranera noi eravamo stati protetti e salvati dal silenzio della gente. Scaduto il termine che ci era stato accordato, fummo costretti a prepararci per la partenza. Abbandonammo Pietranera nel cuore della notte, dividendoci in due gruppi e scivolando lungo i sentieri fradici di acqua dei boschi ormai spogli per l’inverno. Il freddo era intensissimo. Il cielo era gelido. Come la luna che ci rischiarava il cammino. La corriera ci portò fino a Prato, all’estrema periferia della città. Avevamo preferito scendere in quella località piuttosto che procedere fino al centro ignorando ciò che vi avremmo trovato. Eravamo tornati al punto di partenza. Ci trovavamo, con le poche cose portate con noi da Pietranera, in un luogo sconosciuto, alle soglie di una città che non era più la nostra, che ci appariva come un’enorme trappola entro cui, ineluttabilmente, eravamo condannati a tornare. La nostra fuga, e ancora non lo sapevamo, si era conclusa. Adesso, appoggiati alla spalletta del Bisagno, ignoravamo dove andare e che cosa fare. Se fossimo sbarcati su una terra sconosciuta, naufraghi, la nostra condizione non sarebbe stata diversa. La differenza consisteva nel fatto che qui il pericolo era immediato. La gente ci guardava con una certa curiosità. C’erano numerosi militari in circolazione: sarebbe stato sufficiente che uno di essi ci avesse chiesto le carte d’identità. Non ricordo quanto tempo rimanemmo a dibattere, più entro noi che tra noi, quella situazione angosciosa e paradossale. Maria Luisa finalmente decise di telefonare a una collega dell’ufficio degli avvocati Sciarretta e Medina, la signorina Perla Moroni. Cercammo un bar munito di telefono e attendemmo nostra sorella. Non ci nascondevamo la precarietà del tentativo: l’amica di Maria Luisa poteva essere assente proprio quel giorno dal lavoro, oppure poteva anche non volersi mischiare alla nostra vicenda per il pericolo che essa comportava. Era anche possibile che, nonostante tutta la sua buona volontà, ella non sapesse dove indirizzarci e come aiutarci. Aspettare il ritorno di Maria Luisa fu snervante. Avevamo perfino timore di guardarci l’uno con l’altro. Finalmente nostra sorella uscì dal bar. Agitò una mano nella nostra direzione: la signorina Moroni l’attendeva in ufficio. Ci avrebbe dato le chiavi di un appartamento sfitto in un caseggiato sinistrato di via Archimede. In quell’appartamento rimanemmo un mese. Le finestre erano senza vetri e mancava ogni possibilità di riscaldamento. Non avevamo né luce né gas, ma la casa ci pareva una reggia. Là dentro eravamo al sicuro. Avevamo dovuto sistemarci tutti e nove in un solo vano perché gli altri erano occupati da mobili, ma neanche l’essere costretti a trascorrere ore e ore senza muoverci per non urtarci l’uno contro l’altro ci pareva un sacrificio troppo grande. Dopo un mese dovemmo andarcene perché la signorina Moroni ci comunicò che quella casa non era più sicura. Ci trovammo un’altra volta alle prese con il drammatico problema di cercarci un rifugio. Stavolta fu Roberto a muoversi. La signora Bancalari, che già ci aveva aiutato procurandoci l’albergo a Pietranera, riuscì a trovare per noi un appartamento a Carignano. Come quella di via Archimede, anche la nostra nuova casa era sinistrata. Il giorno in cui vi entrammo ci rendemmo conto che si trattava di una tappa provvisoria e che avremmo dovuto cercarci un alloggio meno aleatorio. Se ne interessò nuovamente Roberto. Un sacerdote [3], che egli conobbe a mezzo di un amico, affittò a proprio nome un appartamento in via Montallegro e noi vi andammo ad abitare dopo un mese di permanenza in Carignano. Il sacerdote, sempre a proprio nome, fece in modo che potessimo usufruire dell’energia elettrica e del gas. In via Montallegro la mia famiglia aveva già abitato quando da Milano si era trasferita a Genova. Praticamente iniziata in quella strada, la nostra storia si sarebbe conclusa sullo stesso asfalto, tra le stesse mura, sulla stessa scena. Del periodo trascorso in via Montallegro, nove mesi, ho ricordi assai vivi. Ricordi legati l’uno all’altro dall’angoscia che riempiva le nostre giornate. Furono nove mesi di acutissima tensione senza un attimo di tregua. Paolo e Roberto dovettero necessariamente procurarci i mezzi per vivere. Nelle loro condizioni era tutt’altro che facile cercar lavoro. Da quando, al mattino, uscivano di casa fino al loro ritorno vivevamo nell’ansia della loro cattura. Paolo riuscì a trovare alcune contabilità di piccole aziende e qualche allievo per lezioni private. Tra questi ultimi vi era un carabiniere che si immedesimò tanto nella nostra condizione da farci avere carte annonarie false. Roberto, grazie alle conoscenze contratte quando lavorava presso la ditta di tessuti Terracini, poté tornare nel giro degli stessi affari. Lo rivedo uscire di casa con la borsa dei campionari sottobraccio. Papà era crollato. Camminava con il bastone. Un uomo ridotto allo stremo, sconvolto da un cataclisma che lo annientava perché contro di esso non aveva nulla, alcuna forza, da opporre.  La situazione più drammatica era senza dubbio quella di Giorgio. Dall’età della ragione in poi Giorgio era cresciuto, dapprima nel regno della discriminazione e poi in quello dell’incubo. Ignorava il significato della fanciullezza e dell’adolescenza, era rimasto agli anni più puerili, legato a nostra madre da un attaccamento sempre più morboso. Aveva un carattere dolcissimo. Quando lo assalivano le crisi di terrore, e avveniva di sovente, ci gettava nella costernazione. La sua intelligenza, pronta e vivacissima, era senza dubbio la causa della sofferenza che lo tormentava, della profondità del dramma che egli viveva, della sensibilità abnorme che si era andata sviluppando in lui, provocandone l’esasperazione di tutti i sentimenti. In quei nove mesi avvennero due fatti, in se stessi di scarsa importanza, ma per noi di rilievo. Il 16 agosto 1944, mentre mi trovavo a far compere al mercato di via XX Settembre, avvertii uno strattone alla borsa che portavo appesa al braccio e un individuo, lo stesso che me l’aveva strappata, darsi alla fuga con essa. Alcuni uomini presenti lo rincorsero e riuscirono a raggiungerlo. La borsa mi fu restituita e mi fu chiesto se intendevo sporgere denuncia contro il ladro [4]. Avevo già risposto di no quando intervenne un agente di polizia in borghese. Un tipo straordinariamente cerimonioso il quale insistette sul mio dovere di cittadina di far punire il ladro. Io ero gelata dalla paura. Cercai di resistere al poliziotto e, vedendo inutili le mie fatiche, scoppiai in lacrime. Piangevo disperata perché mi rendevo conto del pericolo in cui mi sarei cacciata se fossi andata in un qualsiasi posto di polizia. Mi guardai attorno per scoprire una via di fuga, ma era impossibile: l’agente, il ladro e io eravamo circondati da un capannello di curiosi. Tutti e tre ci incamminammo verso il commissariato che allora aveva sede al primo piano di Palazzo Ducale. L’agente non riusciva a comprendere la ragione delle mie lacrime e l’addebitava allo shock subito. Dinanzi al sottufficiale, al momento di declinare le mie generalità, fui assalita da un’altra ondata di panico. In via Montallegro avevamo detto di chiamarci Melani ma l’infantile trucco con la polizia non poteva servire. Mi venne chiesta la carta d’identità. Ero tutta un tremito quando la porsi. Fortunatamente su di essa vi era ancora l’indirizzo di via Montello che avevamo abbandonato dopo lo sfollamento a Chiavari senza più tornarvi. Il sottufficiale registrò freddamente nome, cognome e indirizzo e m’invitò a sottoscrivere il verbale. Lo firmai e non so come riuscii a padroneggiare per quell’attimo la mia mano. Domandai se potevo andarmene e mi fu risposto di sì. Lasciai il commissariato di corsa, col cuore in gola. Mi imbattei in piazza De Ferrari in Paolo al quale raccontai l’accaduto. Mio fratello mi rimproverò piuttosto duramente per la mia disattenzione. Gli feci notare che non era colpa mia e lui disse che lo era: se fossi stata più attenta il ladro non mi avrebbe borseggiato. L’indomani la notizia era sui giornali. Quindici righe su una colonna con le mie generalità complete. Per molto tempo fui attanagliata dal sospetto che quella notizia avesse messo i tedeschi sulle nostre tracce. Sospetto assurdo, come provano gli avvenimenti seguiti, ma da quale tardai a liberarmi. Del secondo episodio fu protagonista papà. Alla fine di settembre rimase vittima di un incidente che avrebbe potuto accelerare il tempo della nostra cattura. Quel giorno egli era uscito per una breve passeggiata quando casualmente cadde e si fratturò una spalla. Dovette difendersi più che dal dolore dai soccorritori che intendevano trasportarlo all’ospedale di San Martino lontano poche centinaia di metri dal luogo dove era caduto. Finalmente fu portato a casa. Ci rivolgemmo al professore Pasquale Cattaneo, di cui sapevamo la fiducia che meritava, ed egli ci promise che avrebbe inviato subito un collega. La spalla di papà fu ingessata e tale era ancora la mattina del 12 ottobre e nella notte tra il 27 e il 28 dello stesso mese, la lunga, tormentosa notte di Auschwitz.
IV. Il 12 ottobre 1944 fu un giorno che nacque in un cielo d’intensità azzurrina, tersa e trasparente, dell’estate al declino e dei primi freschi venti autunnali. Torrenti di luce inondavano dal giardino la nostra casa di via Montallegro. Ricordo ogni istante di quel giorno, ogni sua immagine. Rivedo mia madre e mio padre nel loro grande letto matrimoniale, due vecchi ormai, logorati dall’angoscia, volgere il capo verso di me al mio ingresso per il saluto mattutino e sento, sento come fossero fiamme, i loro occhi sul mio volto. Una mattina come un’altra; come milioni di altre che la precedevano e che l’avrebbero seguita. Per noi unica, diversa da qualsiasi altra del passato e dell’avvenire. È quella che racchiude le ultime immagini di ciò che fino allora eravamo stati, della mia famiglia, dei miei genitori, dei miei fratelli e delle mie sorelle. Tutto ciò che è avvenuto in quelle ore per noi avveniva per l’ultima volta. E nulla lo faceva presagire. Noi le vivemmo come al solito, prigionieri della paura di sempre, dell’ansia. Mio padre e mia madre nel letto matrimoniale, è questo l’ultimo loro ricordo che ho conservato, ancora creature di questa terra, ancora donna e uomo, ancora umani. Uscii attorno alle otto e mezzo diretta al mercato di via Dante. Erano da poco trascorse le dieci quando risalii sul tram per fare ritorno a casa. Durante il percorso osservavo per la strada le scene di ogni giorno, sussultando alla vista delle divise tedesche e fasciste, tremando ogni volta che per una ragione qualsiasi la vettura rallentava per il timore di un improvviso rastrellamento. Nel giorno ormai alto i soldati, a volte, mi si rivelavano per ciò che erano: uomini anch’essi. Talvolta, appena la paura rompeva l’esile barriera eretta dalla ragione, mi apparivano come macchie nere, i neri contorni dell’incubo entro il quale ci dibattevamo. Oltrepassata la Casa dello studente, mi portai sulla piattaforma anteriore della vettura preparandomi a discendere. Alla fermata di via Papigliano, la penultima prima di giungere in piazza San Martino, mi attendeva Bice. La vidi mentre il tram stava per arrestarsi, protesa in avanti a cercarmi. Mi fece cenno di raggiungerla. Era pallidissima. Aveva gli occhi rossi. Parola per parola ricordo il nostro breve, concitato dialogo. «È più di mezz’ora che ti aspetto. Sono venuti a prendere papà». «Quando e chi è venuto a prendere nostro padre?». «Due agenti in borghese. Papà era appena alzato. Sanno chi siamo». «Dove lo hanno condotto?». «Alla Casa dello studente hanno detto. Hanno preso papà... hanno preso papà...», continuava a ripetere Bice. La borsa che avevo appesa al braccio mi parve all’improvviso pesantissima. Non riuscivo a pensare. Avevo la mente svuotata. Presi Bice per una mano. Mia sorella scottava come avesse la febbre. Mi disse che la mamma aveva già telefonato a Paolo e Roberto perché rincasassero subito. L’appuntamento era sulla piazza San Martino per fuggire subito, assieme. Tra poco verranno a prenderci, bisogna far presto. Camminavamo spedite, come allucinate, a me pareva di andare nel buio di una galleria, non vedevo nulla di ciò che avevo attorno, né le case, né i passanti. Mi precedeva Bice di qualche passo quando da via Papigliano giungemmo in piazza San Martino. Nostra madre, i nostri fratelli e Maria Luisa avrebbero dovuto essere alla fermata del tram. Bice si volse verso di me sconsolata. Non c’era nessuno dei nostri al luogo indicato per l’appuntamento. Avevamo ancora un’assurda speranza mentre imboccavamo via Montallegro: che mamma e i ragazzi fossero stati costretti, per una ragione qualsiasi, a non attenderci ma che si fossero già messi in salvo. Bice e io in qualche modo avremmo fatto in modo di rintracciarli e ricongiungerci a essi. Importante era che se ne fossero andati da quella casa. La speranza durò qualche istante. Dinanzi al cancello del giardino della nostra casa stazionavano due individui. Chi sono lo indoviniamo subito. Il peggio è accaduto. Ci fermiamo un attimo. I due ci hanno veduto ma ci hanno prestata scarsa attenzione. Saremmo ancora in tempo a voltare le spalle e a fuggire. Basterebbe che riuscissimo a tornare sui nostri passi con un minimo di naturalezza. Zia Anna è fuori casa, potremmo attenderla e poi in tre affrontare nuovamente la sorte. Cercare di salvarci, di sopravvivere. Credo che né in Bice né in me, neanche per un attimo, affiorassero questi pensieri. Riprendemmo a camminare tenendoci per mano sapendo benissimo dove stavamo andando. Dove dovevamo andare. Nostra madre, Paolo, Roberto, Giorgio e Maria Luisa erano là dentro, come se ci aspettassero. E ci aspettavano. Uno dei due agenti ci venne incontro e si rivolse a me. «Lei è la signorina Melani?... Scusi, la signorina Sonnino?» Risposi di sì. «E questa è sua sorella, non è vero?». Era perfino gentile. «Prego signorine, si accomodino da questa parte». Attraversammo il giardino e salimmo la scalinata che portava nella camera da letto dei nostri genitori. Mamma e i ragazzi erano là dentro. Nella stanza regnava un’incredibile confusione. Mamma si era abbandonata piangente sul letto. Indossava il suo solito abito nero: era pronta per uscire quando era arrivata la polizia. Maria Luisa le era accanto. Le stringeva le spalle. Paolo e Roberto stavano discutendo con altri due agenti. La cattura è avvenuta in un modo che nessuno di noi aveva preveduto. Perfino i poliziotti ci appaiono diversi da come li avevamo immaginati. Ci osservano con una certa indifferenza, ma non si spazientiscono. Roberto stava dicendo loro: «Prendete noi uomini e lasciate stare le donne. Mia madre è vecchia. La guardi», ingiunge a un poliziotto. «Dove vuole portarla, in galera?...» Il poliziotto si stringe nelle spalle. Hanno avuto l’ordine di arrestare tutti i membri della famiglia. Una famiglia di ebrei, sottolinea con un risolino a fior di labbra. E prosegue subito che lui non capisce tanto dramma. Parla con un accento meridionale che deforma le parole. Un altro poliziotto lo interrompe e interloquisce come parlasse tra sé e sé: «Ebrei... veramente ebrei. Hanno inchiodato Nostro Signore Gesù Cristo, gli ebrei». Si rivolge a noi, anch’egli con un risolino a fior di labbra. «In che guaio vi siete messi da allora. In che guaio. E chi può darvi retta dopo quello che avete fatto?». Il primo riprende a dire che le lacrime e il pianto sono sprecati. Egli ha l’ordine di accompagnarci alla Casa dello studente: là saremo invitati a firmare un documento in cui ci impegniamo a lavorare per la Germania, dopo di che l’operazione sarà finita e si tornerà a casa. Roberto si controlla a fatica. Paolo ha rinunciato a discutere. Giorgio si è accasciato su una sedia. Sembra privo di vita. Nelle pause di silenzio si odono i nostri singhiozzi. I poliziotti ci ordinano di prepararci. Dobbiamo andar via. Roberto e Paolo fanno gli ultimi e inutili tentativi per convincerli a lasciare stare la mamma e noi sorelle. Parliamo e gridiamo piangendo tutti assieme. I poliziotti guardano fuori dalla porta, oltre il giardino, per la strada, come per spiare se qualcuno ci ode. «Non facciamo chiassate!», ripetono. «Non facciamo chiassate!». «Signora», dice uno di essi alla mamma, «si tratta di una passeggiatina. Da qui alla Casa dello studente. Che sono? Duecento metri. Tra un’ora lei sarà di ritorno a casa con i suoi figli e suo marito...». Quelle parole, quei minuti, sembrano irreali, fantastici ora nella memoria. Eppure sono parole udite e minuti vissuti così come sto raccontando. Noi avevamo immaginato la cattura come un ciclone che all’improvviso si abbattesse su di noi e invece avveniva quasi nel silenzio, fasciata in quella cattiva e inutile menzogna.
Finalmente ci decidemmo. Maria Luisa e Bice furono autorizzate ad andare nella loro camera per munirsi di qualche indumento. Roberto disse che avevamo in casa una piccola somma e chiese di poterla affidare a un nostro vicino, il signor Alessandro Trolli, un vecchio e distinto signore che abitava nell’appartamento sopra il nostro, con la moglie malata e una figlia. Il signor Trolli, come appresi più tardi da Roberto, fu gentilissimo. Roberto gli spiegò chi eravamo e perché ci arrestavano e il signor Trolli, nonostante la presenza dell’agente che aveva accompagnato mio fratello, disse che era un delitto perseguitare degli innocenti. Disse anche che gli rincresceva moltissimo quanto stava accadendo e che era ben felice di esserci utile. Si dichiarò disposto a conservare qualsiasi somma avessimo ritenuto opportuno affidargli e che stessimo sicuri che l’avremmo ritrovata intatta. Soltanto al mio ritorno ebbi la spiegazione della generosità dimostrata verso di noi dagli agenti nel consentirci di affidare il denaro al signor Trolli e una prova indimenticabile dell’onesta fermezza di quest’ultimo. Appena ci ebbero portati via, infatti, due agenti tornarono dal nostro vicino per chiedergli di consegnare loro immediatamente il denaro che gli avevamo affidato. Il signor Trolli si oppose alla richiesta e resistette alle minacce che gli furono fatte. Nei giorni successivi cercarono ancora di avere da lui il nostro denaro, ma inutilmente. Al mio ritorno trovai la somma intestata a nome della mia famiglia in un deposito bancario. Lasciammo la nostra casa incolonnati. I poliziotti ci avevano ordinato di non richiamare su di noi l’attenzione dei passanti. Lungo la via, Maria Luisa, che continuava a piangere, dicevano: «Ma signorina, la smetta. Ci faccia questo piacere. Dica che cosa le abbiamo fatto o che cosa le abbiamo detto per farla piangere così!». Ignoro che cosa sia avvenuto di quegli agenti, se siano morti o se siano vivi, ignoro quale mestiere o quale professione esercitino attualmente; ma forse i loro figli sono già adulti come Paolo e Roberto lo erano allora o giovani come eravamo Maria Luisa e io o ragazzi come Giorgio e Bice. Chi comandò il nostro arresto fu Brenno Grandi, che riuscì a essere assolto nel processo che subì nel 1947 perché poté dimostrare di avere infierito sugli ebrei non a scopo di lucro; ma essi, quei quattro agenti che eseguirono i suoi ordini, ovunque oggi siano, sappiano che dal momento in cui ci trascinarono fuori dalla nostra casa, in quella prima e unica volta che ci videro, dettero l’avvio al nostro viaggio verso la morte. Essi stessi per me, oggi, hanno nella memoria il volto della morte. A metà di via Papigliano scorgemmo zia Anna che, ansimando, stava tornando a casa. Anche zia Anna ci vide e si fermò di colpo. Roberto le fece un gesto con la mano che i poliziotti, che pure ci sorvegliavano con cura, non videro e non capirono. Zia Anna comprese invece benissimo e la vedemmo scomparire in un negozio. Ella fu la sola tra noi che riuscì a evitare la deportazione. Un poco più avanti Roberto si animò a un tratto e chiamò qualcuno che stava camminando sul marciapiede opposto. Un amico, ci disse a bassa voce indicandocelo, mentre l’altro attraversava la strada per raggiungerci. Un pezzo grosso alla Casa dello studente. Forse ci aiuterà. Si trattava di un giovane poco più che ventenne. Ascoltò Roberto in silenzio e ci guardò nel viso uno a uno. Si unì a noi e con noi entrò nella Casa dello studente. Con disinvoltura si diresse a un ufficio la cui porta era sormontata da una grande scritta in tedesco. Bussò e all’avanti ci fece segno di entrare. L’ufficio era piuttosto vasto. Dietro una scrivania stava seduto un ufficiale germanico. «Buongiorno!», gli disse l’amico di Roberto. «Ottima caccia stamattina. Una famiglia ebrea al completo. Complimenti». Scambiò un saluto con l’ufficiale che gli strinse la mano e se ne andò senza rivolgerci un’occhiata. Registrarono i nostri nomi minuziosamente e ci fecero firmare un foglio. Alcune guardie ci guidarono, quindi, nello scantinato e aprirono la porta di una cella. Mamma vi entrò per prima e gridò: «Ettore...». Nostro padre stava seduto su una panca infissa al muro e piangeva disperatamente. Non udimmo neanche la porta della cella richiudersi alle nostre spalle. Papà ci raccontò tra i singhiozzi che lo avevano interrogato a lungo chiedendogli dov’erano Paolo, Roberto e Giorgio e che egli aveva risposto di non saperlo. «Ti hanno battuto?», gli domandò la mamma. Papà accennò di no col capo. La cella era piccolissima. Noi otto l’affollavamo. Dovevamo sederci sulla panca o per terra a turno. Trascorremmo lungo tempo piangendo l’una abbracciata all’altra, noi sorelle e la mamma, e Giorgio in mezzo a noi stravolto dalla paura. Roberto a un certo momento si mise a bussare con i pugni chiusi alla porta. Si aprì uno spioncino e due occhi lo scrutarono. «Portate qualcosa da mangiare a queste donne!», gridò mio fratello. Lo spioncino si richiuse. Dopo un quarto d’ora ci venne consegnato del cibo che nessuna di noi toccò. Lo stesso Roberto si sforzò di mangiare ma sputò l’unico boccone che era riuscito a mettersi in bocca. Paolo continuava a chiedersi chi ci aveva tradito e denunciato [5]. Finì per suggestionare anche Roberto. Passarono in rassegna tutte le persone di loro conoscenza e le scartarono tutte. Roberto disse che l’operazione del nostro arresto era avvenuta in maniera tale da dimostrare che i nazisti e i fascisti della sezione antiebraica della Casa dello studente avevano su di noi informazioni scarse e poco sicure. Se fossero stati perfettamente edotti della nostra qualità di ebrei, ci avrebbero catturati tutti assieme a un’ora qualsiasi della notte oppure a mezzogiorno o alla sera. Qualche ora dopo il tramonto fummo fatti uscire dalla cella, caricati su un cellulare e trasferiti alle carceri di Marassi.

V. A Marassi fummo divisi. Nostro padre e i nostri fratelli condotti nel braccio dei detenuti e noi, nostra madre, Maria e io, rinchiuse in un camerone dove già si trovavano altre donne. Era un camerone squallido e tetro. La luce vi pioveva da una stretta ferritoia posta in alto. L’aria era pesante, irrespirabile. Noi quattro ci radunammo in un angolo, lontano dalle altre sventurate. Era facile capire chi fossero osservando come si comportavano e, più ancora, ascoltando i loro discorsi, inframmezzati da brevi risate nervose. La mamma ci disse a bassa voce di non guardarle. Mia madre era letteralmente sconvolta per il luogo in cui si trovava. Avevamo paventato e temuto la cattura; entro noi stessi, forse, avevamo sempre saputo che un giorno o l’altro l’evento sarebbe accaduto, ma la sua realtà, ora in quella cella, era tale da sovvertire ogni previsione. Almeno così ci parve allora. Le carceri di Marassi ci parvero già l’incubo e invece furono soltanto una tappa di avvicinamento a esso. Ma era la prima realtà dell’incubo per noi. Più ancora della Casa dello studente dove non avevamo fatto a tempo a rinchiuderci neppure per un attimo in noi stessi. Le donne, sulle prime, dimostrarono della curiosità nei nostri confronti, vollero sapere chi fossimo e una di esse disse che non sapeva che vi fosse un reato «ebreo». Insistettero per parlare con noi ma, di fronte al nostro silenzio, finirono per lasciarci in pace. Credo che provassero pena per noi.
Avevamo messo nostra madre al centro e noi le stavamo attorno, strette l’una all’altra. Io sentivo riacutizzarsi le fitte e i dolori di un ascesso glandolare per cui ero in cura da qualche tempo, ma mi vergognavo di parlarne. Mamma se ne ricordò all’improvviso, all’ora in cui ero solita prendere le medicine. Mi guardò a lungo e mi strinse la mano. I sette giorni trascorsi a Marassi ci parvero interminabili. L’inattività e la convivenza con tante estranee aggravarono il nostro stato d’animo. Soffrimmo le prime umiliazioni. C’era un unico bugliolo per tutte le detenute e Maria Luisa, Bice e io ci tormentavamo soprattutto nell’assistere al dramma di mamma quando doveva servirsene. I nostri genitori erano all’antica, vissuti in un estremo rispetto delle forme e del pudore. Non ricordo di avere mai veduto mamma in vestaglia da camera o di avere mai udito in casa nostra una parola che violasse la correttezza. Dico questo per sottolineare ciò che mamma dovette sperimentare in quei giorni. La pena più profonda che era in noi era rappresentata, però, dall’ignoranza della sorte di papà e dei ragazzi. Mamma temeva che li avessero già condotti via, deportati; trascorreva dall’angoscia di non più rivederli alla speranza di incontrarli ancora, quasi senza soluzione di continuità. Cercammo di impietosire il secondino che ci portava il cibo e lo convincemmo a darci notizie. L’indomani egli giurò e spergiurò che i quattro Sonnino erano tutt’ora a Marassi. Nostra madre gli chiese, come se invocasse chissà quale deità, se era possibile portar loro i nostri saluti e vederli. Seppure per un istante. Il secondino promise che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere. Così trascorse altro tempo d’attesa. Ignoro se la promessa che ci era stata fatta fu un mezzo per calmarci o se corrispondeva veramente all’umanità che viveva nel cuore di quel secondino. Rivedemmo papà e i ragazzi la sera del settimo giorno di detenzione quando fummo fatte uscire dal camerone e trasferite in un sito altrettanto squallido dove trovammo i nostri congiunti con altri nostri correligionari. Papà e Giorgio ci apparvero prossimi al collasso. Giorgio si lanciò tra le braccia della mamma e si strinse a essa disperatamente. Roberto e Paolo si sforzavano, come al solito, di apparire in condizioni di spirito soddisfacenti. Coloro che erano in attesa di partire con noi erano oltre un centinaio. Ricordo tra essi il signor Della Pergola, che a suo tempo era proprietario di un negozio di calzature in Galleria Mazzini; la signora Polacco con due delle sue figlie e un impiegato di cui ho dimenticato il nome ma che ci parlò di sé – era dipendente di una ditta di prodotti farmaceutici – e della moglie dalla quale era stato diviso. Attendemmo per ore che ci venissero a prelevare. Era già notte fonda quando, nel cortile del carcere, rimbombò il motore di un automezzo. Un camion con rimorchio. Donne e uomini furono divisi. Alle guardie italiane erano succedute quelle tedesche. Presto, presto, ci ordinavano. Ci spingevano in malo modo sul camion gridando come ossessi se non eravamo pronti e solleciti nell’obbedir loro. Poche lampade elettriche rischiaravano la scena. Io mi trovai nella calca e, mentre superavo il parapetto del camion, avvertii un acutissimo dolore alla caviglia. Mi abbandonai su una panca e fui costretta a togliermi una scarpa: la caviglia stava ingrossando a vista d’occhio. Il viaggio da Genova a Bolzano durò ventiquattr’ore. Attraversammo città e paesi sconvolti dalla guerra; incrociammo colonne di gente che fuggiva i bombardamenti; di chilometro in chilometro l’agghiacciante testimonianza del massacro e della distruzione bellica si accumulavano in una misura che aumentava il nostro terrore. Le guardie tedesche ci controllavano dall’alto della cabina dell’automezzo sulla quale era piazzata una mitragliatrice. Da parte nostra non vi fu alcun tentativo di fuga. Gli uomini che avrebbero potuto farlo, soprattutto tenendo conto del loro numero in confronto di quello delle guardie, avevano le mani legate dalle minacce di rappresaglie che erano state indirizzate a tutti noi qualora avessimo violato gli ordini che ci erano stati dati alla partenza. Si aggiunga inoltre che, salvo pochi casi, in genere sul camion e sul rimorchio viaggiavano membri della stessa famiglia. Ma più ancora del timore delle rappresaglie io ritengo trattenesse tutti noi la rassegnazione al nostro destino. Una sorta di fatalismo di antica data, connaturato alla nostra gente. Mentre l’automezzo correva stavano aggrappati ai bordi del parapetto o alle corde del tendone come se quel viaggio fosse ineluttabile, come se per noi non ci potesse essere altro. Come se essere ebrei volesse dire dover essere massacrati. Il vento ci sferzava i volti rigati di lacrime. Ma soltanto di lacrime. Adesso, nel ricordo, io grido ai miei fratelli: «Salvatevi! Non pensate a noi!...». A volte desidero che il ricordo sia la realtà e che in essa io sia come sono oggi e tendo le mani ai miei fratelli e agli altri ebrei come se potessero udirmi: «Salvatevi! Non temete le rappresaglie! Conquistate la libertà e lottate anche per noi...». Arrivammo a Bolzano nella serata del 20 ottobre. La mia caviglia era grossa e tumefatta. Riuscivo a camminare a stento. La vista del campo ci parve meno paurosa di quanto avevamo previsto. L’altalena di speranze e di terrori che era in noi ci portava a stati d’animo continuamente diversi e contraddittori: vivevamo in una sovreccitazione tale che, al nostro giungere al campo, avevamo tutti gli occhi lucidi e la testa in fiamme come se fossimo in preda alla febbre.  Ci sistemarono alla meglio in alcune baracche. Cademmo subito in un sonno profondo. Soltanto all’alba del giorno dopo, quando le sorveglianti ci destarono, ci rendemmo conto, mamma e noi tre sorelle, che eravamo nuovamente divise da papà e dai ragazzi. Il sole era ancora basso all’orizzonte quando ci fecero uscire dalle baracche per l’appello. Subito dopo ci divisero in squadre per il lavoro. A causa dello stato della mia caviglia mi fu detto che potevo rimanere nella baracca. La mamma, Maria Luisa e Bice, incolonnate con le altre, furono condotte via. Le vidi allontanarsi e tornai a sdraiarmi sulla cuccetta dove avevo dormito. Stavo distesa senza pensare, affondata in quella nebbia che già allora avvertivo entro me e che sarebbe diventata sempre più fitta e nera fino a farmi smarrire dentro di essa. Le notizie che quel giorno e alla sera raccogliemmo sul campo di Bolzano furono scarse, ma abbastanza significative. Ci fu detto che nei mesi precedenti a diverse riprese era stato sovraffollato e non soltanto di ebrei. Può apparire strano ma fu soltanto quel giorno che per la prima volta udii parlare di partigiani, di gappisti, di resistenti. Cominciarono ad apparirmi chiare certe allusioni che avevo colto sulla bocca dei contadini di Pietranera di Rovegno, certi loro improvvisi misteri, e alcuni fatti accaduti in città che allora né io né il resto della mia famiglia avevamo compreso, assillati dall’ansia di non aver alcun rapporto con estranei, come se ciò fosse sufficiente a elevare tra noi e gli altri, tra noi e i nostri persecutori, una barriera che ci rendesse invisibili. La mamma, Maria Luisa e Bice tornarono alla sera. Mamma era esausta. Dal mattino le avevano fatte lavorare senza tregua in un grande castello, che probabilmente era destinato ad accogliere un comando militare tedesco. Prima di notte, nonostante la stanchezza della mamma e delle mie sorelle e il dolore della mia caviglia, lasciammo la baracca e ci avventurammo fino ai reticolati guardandoci attorno per il timore di essere scoperte. Là ci attendevano Paolo e Roberto senza che ci fossimo passati parola per l’incontro. Essi sapevano che avremmo fatto di tutto per vederli. Chiedemmo ansiosamente notizie di papà e di Giorgio. Roberto ci pregò di non preoccuparci troppo. Paolo disse che, alla fin dei conti, eravamo ancora tutti vivi e, semmai, ci saremmo disperati quando sarebbe stato il caso di farlo. Ci apparvero perfino commoventi tanto erano ansiosi di infonderci un poco di speranza e di fiducia. L’indomani corse voce che era in preparazione un transport per la Germania. Non ci fu appello e il lavoro fu sospeso. La giornata trascorse nell’attesa. Nel campo vi era uno spaccio al quale era possibile acquistare mele. A sera mamma, quando pareva che la partenza fosse imminente, ci chiamò attorno a sé e ci confidò di essere riuscita a nascondersi addosso e a far sfuggire alla perquisizione, subita all’ingresso nelle carceri di Marassi, alcune decine di lire. Frugò in una scarpa e ci dette il denaro perché comprassimo mele per il viaggio. Fu l’ultimo dono di nostra madre. Partimmo il giorno dopo, rinchiusi nei vagoni piombati. Il convoglio era scortato da un nugolo di Ss. Poche ore dopo avere lasciato Bolzano eravamo in territorio tedesco. Era il 23 ottobre.

VI. In viaggio verso l’ignoto. Nel vagone la luce è scarsa, un poco alla volta l’aria diventa irrespirabile. Lo spazio a nostra disposizione è così limitato che non possiamo muoverci. A malapena riusciamo a sederci dandoci il cambio. Molte tra noi sono donne anziane, vecchie signore che recano nell’abbigliamento tracce evidenti di pulizia e di eleganza. Si sono raccolte a un capo del vagone e parlano e si lamentano tra loro. Una specie di nenia, le loro voci basse. Tra le giovani ricordo la signora Eleonora Recanati Foà [6] di Torino e la moglie dell’ingegnere Corrado Saralvo [7]. L’ingegnere viaggia nel vagone in cui sono stati rinchiusi gli uomini. La signora Saralvo soffre di una forma acuta di diabete. Ha con sé una borsa contenente l’ago ipodermico e fiale di insulina che di tanto in tanto si inietta. Ricordo inoltre una donna, credo si chiamasse Maggi [8], incinta di sei mesi, ossessivamente preoccupata di scoprire il mezzo per nascondere il proprio stato ai tedeschi. Si rivolge alle signore anziane e chiede loro di aiutarla. Nessuna si sente di illuderla. Non sappiamo dove ci stanno conducendo. Ignoriamo il destino che ci attende, ma le illusioni e le speranze sono morte. La prima giornata di viaggio trascorre nella stessa eccitazione febbrile che avevo conosciuto nei giorni precedenti. La seconda ci coglie stanchi, affamati. Un poco alla volta i rapporti vanno riducendosi a poche parole appena sussurrate. Frequentissimi gli improvvisi scoppi di pianto. Il terzo giorno occhieggia grigio e giallo nel vagone. Abbiamo rinunciato a qualsiasi formalismo: pur di stare seduti ci acconciamo a qualsiasi posizione. L’aria è mefitica. Manca anche il bugliolo in questa tragica cella viaggiante. Mamma, Maria Luisa, Bice e io non ci muoviamo da ore. La mamma singhiozza continuamente. L’abbracciamo stretta come mai abbiamo fatto. Le mele acquistate a Bolzano sono ancora intatte. Come il pane che ci hanno dato. Lo stomaco rifiuta il cibo. E poi vi è in noi il pensiero dei ragazzi. Anche a Bolzano abbiamo dato loro una parte delle nostre razioni di viveri. Nel pomeriggio del terzo giorno il convoglio si arresta. Udiamo un coro di grida provenire dal vagone degli uomini: «Acqua! Acqua!...». Una guardia tedesca fa scorrere la porta del nostro vagone e indica ad alcune tra noi di scendere. La caviglia mi fa molto male, ma non posso resistere e scendo anch’io. Ci troviamo in mezzo a una pianura sotto il cielo plumbeo. Raffiche di vento gelido ci investono. Un piccolo casello abbandonato e vicino una fontana. Gli uomini continuano a gridare: «Acqua! Acqua!...». Riempiamo i pochi recipienti che abbiamo con noi, qualche scatola e un bicchiere di latta, e ci rivolgiamo alle guardie. Chiediamo se possiamo far bere i nostri parenti, i nostri fratelli. Le guardie rispondono di sì purché facciamo presto. Dalla feritoia in alto si tendono dieci mani. Per un attimo, quando i recipienti vengono ritirati, vedo i volti di Paolo e di Roberto. I loro occhi mi fissano. Scompaiono. Le guardie ci spingono verso il nostro vagone. Ci minacciano con il calcio delle armi. Risaliamo e il convoglio riparte. Quante tra noi sono discese, per lo sforzo cadono esauste. Il quarto giorno il convoglio si arresta diverse volte. Più di una volta abbiamo la sensazione che torni indietro sulla via già percorsa; ma probabilmente abbiamo perduto il senso della direzione. Siamo svuotate. La sensazione più precisa che ricordo è l’orribile certezza di essere nata e di dover vivere per tutta l’eternità tra quegli assi di legno in movimento, in quel lezzo. La mia esistenza è una riva che si allontana sempre di più, che sempre di più diventa come invisibile, avvolta in nebbie pesanti. Il pazzo desiderio di tornarvi, di ridestarmi nel mio letto dopo una notte di incubi, sfuma; a tratti non lo ritrovo più dentro di me. Dalla feritoia del vagone entrano la notte e il gelo quando il convoglio si arresta ancora una volta. Siamo immerse nella sonnolenza che ci ha colto ormai da ore. Quasi la coscienza si fosse ridotta fino a dimenticare se stessa. La sosta si protrae ma non vi prestiamo attenzione. A un tratto al di fuori esplode un inferno di grida e di colpi di fischietto. Sembra che mille cani stiano latrando nella lotta. Le porte dei vagoni vengono aperte con violenza. Fasci di luce ci abbacinano. Soldati in divisa nera e grigia ci urlano parole incomprensibili. Balziamo in piedi, atterrite. Un grosso camion sta manovrando per avvicinarsi al vagone. Quando si ferma, gli intraducibili ordini si moltiplicano. Viene gettata un’asse di legno tra la porta del vagone e il camion. Un soldato ingiunge a una donna di muoversi. L’asse è un ponte sottile, che trema, ma bisogna attraversarlo. Io sono tra le prime, nel gruppo delle giovani, le donne anziane si sono ritirate in fondo al vagone; una di esse è svenuta. Ho il tempo di dare un’occhiata al luogo in cui ci troviamo mentre a fatica, con la caviglia dolorante, cammino sull’asse e prima che il tendone del camion sul quale siamo caricate si abbassi. Immagini della durata di frazioni di secondo. Immagini d’eternità. Lontano, una distesa di piccole luci e nella nebbia immensi tralicci come scheletri, altissimi. Un mare di fango, una pianura di fango. Una pazzia gelida, buia, fangosa. Avverto di essere entrata in una dimensione dove nulla vi è di umano, totalmente nemica di tutto ciò che è umano, una dimensione che ha assorbito perfino i propri creatori, divenuta un meccanismo gelido, fangoso e buio, fatale e inesorabile, sormontato da una piccola fiamma che ho veduto per un attimo rompere lontano l’oscurità, come bruciasse nel cielo, e che ancora ignoro che cosa sia. Il camion ci trasporta dinanzi a una grande baracca. Scendiamo. Attendiamo le altre. Attendiamo i nostri fratelli. La signora Saralvo ci chiede: «Credete che porteranno anche gli uomini qui dentro?...» La donna incinta ha le mani sul ventre quasi volesse difendere ciò che vi è dentro. A poco a poco la baracca si affolla. Ci troviamo al centro dell’incubo che dieci anni prima ci aveva inviato i suoi messaggeri. Tutta l’Europa è in suo dominio, anche se ormai il tempo è contato.

VII. Una grande spoglia baracca. Una lunga, interminabile notte. Roberto è venuto ad annunciarci che siamo ad Auschwitz. Il nome non ci ha detto nulla. Immaginiamo di essere in Germania e invece siamo in Polonia. Le donne sono raccolte al centro della baracca, unite una all’altra per scaldarsi reciprocamente con il calore dei propri corpi. Noi giovani andiamo spesso a spiare all’esterno guardando attraverso i vetri delle due finestre che si aprono su una parete della baracca. Una muraglia di tenebre. Non riusciamo a vedere nulla. Roberto e Paolo passano da un gruppo all’altro e di tanto in tanto vengono a riferirci ciò che si dice, le notizie che corrono. Giorgio è in grembo a nostra madre, rannicchiato come fosse tornato indietro nel tempo, come chiedesse a chi l’ha generato di riprenderlo in se stessa, di annullarlo gradatamente, di togliergli la vita che gli ha dato. Papà si muove come un automa, come fosse privo di sensi e di volontà. L’ingessatura della spalla gli da più che mai fastidio, ma non se ne lamenta. Forse non se n’accorge neppure. Le nostre percezioni sensorie hanno subito un collasso. Viviamo ai margini della coscienza. In un mondo assurdamente irreale e reale nel contempo. È questa l’ultima notte che la mia famiglia trascorre assieme, unita. Non ve ne saranno altre. Otto creature legate da vincoli di sangue che si stringono d’appresso per l’ultima volta. Rivedo mia madre, mio padre, i miei fratelli, le mie sorelle, io stessa, attingere in noi, dalla nostra unione, l’estremo calore umano che ci è consentito. Ricordo i frammenti uditi dalla storia delle famiglie da cui la mia è nata. L’oscuro destino entro cui si sono sempre dibattute. Da appena due generazioni i Sonnino e i Milani hanno potuto essere liberati dall’umiliazione del ghetto di Roma entro cui i padri dei padri erano nati e cresciuti. Le mura del ghetto caddero nel 1870 e da quell’anno i miei avi furono liberi. Ma portavano in sé il ricordo di ciò che avevano subito, delle notti d’angoscia in cui gruppi di fanatici penetravano nel ghetto per rapire i loro figli e consacrarli col battesimo a un’altra religione, delle sofferenze della segregazione, dell’abiezione verso cui erano sospinti. La nonna materna di mamma si chiamava Rosselli e un giorno di tanti anni prima io avevo udito bisbigliare che Carlo e Nello erano stati uccisi dai fascisti ma non sapevo chi fossero, né che facessero. Al nome di Crescenzio Del Monte, poeta che scrisse in giudaico romanesco, cugino di primo grado di mamma, è intitolata una via di Roma, a Trastevere, dove le lapidi ricordano Belli e Trilussa. Zia Ersiglia, una sorella del nonno materno, aveva sposato un Modigliani, parente del pittore e lo zio Ettore Modigliani aveva per moglie Nelly Nathan, nipote del sindaco di Roma, e fino al 1938 era stato direttore della Pinacoteca di Brera. Due famiglie che avevano duramente lottato per conquistarsi la vita ed erano riuscite a vincere le prevenzioni razziali di certi ambienti della borghesia romana e napoletana e a farsi rispettare. Soltanto due generazioni libere tra il ghetto di Roma e la notte di Auschwitz. Una breve parentesi. L’ondata è tornata a rinchiudersi su di noi. Le ore trascorrono lente nella baracca. Un sussulto di orrore quando si apre la porta ed entra uno scheletro dagli occhi lucidi che indossa una divisa a strisce cascante sul suo corpo incredibilmente magro. Gli uomini gli si affollano attorno. Lo scheletro ha un secchio in mano. Si trattiene qualche istante poi con il suo passo lento attraversa la baracca e scompare. Ne seguono altri. Sono addetti ai servizi del campo. Turno di notte. Uno di essi si arresta dinanzi a me. Mi indica la caviglia fasciata e mi fa segno di togliere subito le bende. Indugio perché non comprendo. La parola selezione mi colpisce tra le altre. Lo scheletro si rivolge agli uomini e parla loro concitatamente. Parla in tedesco. Vi è chi lo traduce. Occorre far scomparire subito qualsiasi segno che possa rivelare una nostra menomazione fisica. Ferite o malattie. Le selezioni si vanno facendo sempre più severe. Le camere a gas e i forni funzionano a ritmo serrato. Chi non è in grado di lavorare viene eliminato. Mi tolgo subito la garza di carta e la sottile benda che mi stringono la caviglia. Le parole sembrano uscire non dalla bocca di un uomo, ma dalla notte. Imploriamo papà di fare altrettanto con la sua ingessatura. Papà scuote il capo. Sembra che non comprenda ciò che gli diciamo. Si lascia cadere in mezzo a noi e rimane immobile, con gli occhi chiusi. La mamma gli prende una mano e gliela stringe. Roberto, Paolo, Maria Luisa, Bice e io ci raduniamo attorno ai nostri genitori e a Giorgio. Così trascorriamo il resto della notte e qualsiasi cosa dicessi di quel tempo non avrebbe senso tradotto in parole, sarebbe un’esile ombra di quella realtà. Lo ruberei a me stessa, a ciò che è mio, disperatamente soltanto mio. L’alba si preannunciava con grigie dita alle finestre della baracca quando vi irruppero le Ss. Con il mitra spianato, si dispongono attorno a noi, chiudendoci in un cerchio. Tre ufficiali, di cui uno porta i contrassegni di medico, ci ordinano di alzarci e di schierarci in colonna. Mano a mano che ognuno di noi viene chiamato, fa un passo in avanti e il medico lo scruta, lo esamina, gli tasta i muscoli del braccio. Siamo divisi in tre gruppi: i vecchi, i giovani e le giovani. Tutto avviene rapidamente. Non facciamo neppure in tempo a scambiarci un saluto: il gruppo delle giovani è il primo a lasciare la baracca in mezzo a una tempesta di ordini gridati ad alta voce. Non riusciamo neppure a voltarci una volta, una sola volta, per rivedere mamma e papà e i nostri fratelli. Siamo spinti brutalmente all’esterno, nel fango che ci si incolla alle scarpe, nell’aria gelida. La signora Saralvo non è con noi: piangendo, ha detto al medico di essere malata. È stata aggregata al gruppo degli anziani e dei vecchi. È il 28 ottobre 1944.

VIII. L’aria era nebbiosa e fredda. Desolatamente grigia nell’allucinata simmetria delle baracche. Grida di uomini e latrati di cani. Imperiosi sibili di fischietti. Il fango raggiungeva le caviglie, spesso e vischioso. Colonne di fantasmi nella nebbia, immobili, in attesa, e parvenze d’uomo, appoggiate le une alle altre, sugli spiazzi tra le baracche. Appena uscimmo dal luogo dove avevamo trascorso la notte, ciò che ci accolse non ha nel linguaggio umano alcun riferimento. La mia memoria stessa, che pure lo ha registrato, si rifiuta oggi, a distanza di quindici anni, di restituirlo al pensiero e alla ragione. Per quanti sforzi io faccia, sullo schermo della mente le immagini trascorrono velocissime, confuse, come di un film proiettato troppo in fretta. Ci trascinavamo a fatica, esauste per il lungo viaggio e la mancanza di cibo, per la notte vissuta nella baracca, per il terrore che ci oscurava la coscienza di noi stesse. Bice era tra Maria Luisa e me. Non guardiamo, ci dicevamo l’una all’altra. E puntavamo gli occhi sul fango, uno straordinario fango che mai avevamo veduto. Non pareva terra e acqua: ma qualcosa di organico che fosse andato in decomposizione, carne putrefatta, divenuta liquame. E nello stesso tempo aveva una sua presenza. Come se dalla morte fosse verminata una mostruosa forma di vita, subdola e insidiosa, che ci afferrava alle caviglie, che ci impediva di camminare veloci come ci veniva ordinato. Non ricordo per quanto tempo subimmo quel supplizio da cui se tentavamo di alzare gli occhi precipitavamo nell’orrore. Eravamo una ventina di giovani. Ci condussero in una grande baracca e ci fecero allineare. Una a una fummo chiamate a fornire le nostre generalità. Dopo la registrazione, le sorveglianti ci ordinarono di muoverci. Un’altra baracca. Ci perquisiscono accuratamente. Nulla sfugge alle abilissime mani delle «kapò». Ma non abbiamo niente addosso. Quel poco che da Bolzano abbiamo portato con noi è rimasto nel luogo dov’è avvenuta la prima selezione. Anche le mele, che nessuno, neanche i ragazzi, hanno voluto mangiare. Passiamo un lungo tempo, un tempo che non possiamo misurare, nella baracca dove siamo state perquisite. Quando torniamo fuori è quasi buio. È trascorso un giorno. Dall’alto dei camini dei crematori svetta una fiamma che rompe il grigiore e le tenebre che si stanno addensando. Nell’aria è un lezzo pesante. Noi pensavamo a nostro padre e a nostra madre, ai nostri fratelli. Noi ci auguravamo che a nostro padre e a nostra madre fossero risparmiati il fango e quelle visioni. Non potevamo raffigurarci nostro padre e nostra madre vittime di violenze. Anche oggi se cerco di ricreare entro me la realtà in cui sono periti, mi sento la mente vacillare come se fiotti di liquido nero la invadessero. Quella sera cercavamo, come al mattino, di non guardarci attorno, di sfuggire i riflessi rossastri di quella fiamma. Il secondo giorno passammo ancora da una baracca-ufficio all’altra per una serie di ulteriori registrazioni di cui non comprendevamo lo scopo. Da quando eravamo giunte ad Auschwitz non ci era stato dato un tozzo di pane. Soltanto il quarto giorno, dopo la doccia e la rasatura, ci fu dato da mangiare. Poche ore prima ci avevano marcato sul braccio i nostri numeri: Maria Luisa A26698, io A26699, Bice A26700. Una ciotola di brodaglia e una fettina di pane nero. Maria Luisa disse che dovevamo farci forza e mangiare. Stava per dare l’esempio quando udimmo una voce alle nostre spalle chiederci: «Siete italiane?». Ci voltammo. Una donna pallidissima e magra tentò di sorriderci. Disse di essere la dottoressa Morpurgo di Trieste [9]e ci chiese se avevamo notizie di una sua sorella che risiedeva a Genova. Se ci risultava che fosse stata catturata e se aveva viaggiato nel nostro stesso transport. Le rispondemmo di no. La donna parve tranquillizzarsi. S’informò di noi. Le domandammo a nostra volta se avevamo qualche possibilità di vedere i nostri genitori e i nostri fratelli. «I vostri fratelli se sopravviveranno... Vostra madre e vostro padre no. Sono già stati gasati». Indicò la direzione nella quale sorgevano i camini e dove alla notte rosseggiava sinistra la fiamma. Continuò a parlarci tristemente, mentre piangevamo, dicendoci che dovevamo affrontare la realtà così com’era, soffocando ogni sentimento, evitando l’insorgere di qualsiasi illusione, lottando soprattutto per sopravvivere. Ci disse che non era umano piangere la morte dei nostri genitori: in quelle condizioni dovevamo essere lieti che nostro padre e nostra madre fossero periti. Non potevano avere sorte migliore. Bice pareva divenuta di ghiaccio. Mi era accanto e la sentivo gelida. Maria Luisa si scioglieva in lacrime. La dottoressa Morpurgo le carezzava i capelli. Prima che le sorveglianti le ordinassero di allontanarsi ebbe ancora il tempo di annunciarci che probabilmente non saremmo rimaste ad Auschwitz. Alcuni settori del lager erano già stati evacuati. Confermò che le selezioni erano divenute quotidiane ed erano rigorosissime. Con accresciuta tristezza concluse: «La bestia è ferita a morte ed è divenuta, se possibile, più feroce». Ci rinchiusero nel blocco numero 12 dove rimanemmo in attesa della nostra sorte. Se rivado a quei giorni, nella mia memoria trovo soltanto notte. Buio. Come se la mia ragione fosse paralizzata. Qualche giorno dopo si sparse la notizia che saremmo partite l’indomani. Nel pieno della notte ci destarono per l’appello. Eravamo schierate su uno spiazzo nudo e il buio incombeva cancellando ogni luce, ossessiva la fiamma rossa dei camini. Per resistere al freddo tentavamo di rifugiarci nei pensieri più strani e pazzi. Ma il gelo si insinuava nella pelle, nella carne, infondendo al cervello un torpore pesante. Finalmente ci dettero l’ordine di muoverci. Incolonnate, camminavamo in quel buio, senza sapere dove eravamo dirette. L’alba livida ci colse allineate lungo un convoglio. Salimmo sui vagoni e le guardie tedesche rinchiusero pesantemente le porte dietro di noi. Mentre il treno iniziava la sua corsa Maria Luisa, Bice e io cercammo di dare un’ultima occhiata ad Auschwitz: i nostri genitori e i nostri fratelli erano là. In fondo a ognuna di noi era l’inconfessabile speranza che nonostante tutto, nonostante ciò che avevamo veduto e appreso, mamma e papà fossero ancora vivi, che li avremmo riveduti assieme a Paolo, Roberto e Giorgio. Quel viaggio di due giorni non ha storia. Eravamo tutte allo stremo delle forze. Giacevamo l’una sull’altra senza muoverci, senza parlare. La fame, dopo un periodo di intensità spasmodica, pareva essersi acquietata. A me pareva di non avere più stomaco. Di non avere forma. Senza passato e senza avvenire. Avevo coscienza tuttavia che quello era soltanto l’inizio. Misuravamo, nei paurosi scheletri viventi delle altre compagne che erano con noi, le sofferenze che ancora ci attendevano. Quando il convoglio si arrestò e dopo una lunga sosta furono riaperte le porte dei vagoni, avemmo la sensazione di essere tornate al luogo da cui eravamo partite. Dinanzi a noi era la notte, una notte nebbiosa e gelida, e un mare di fango. La baracca che ci attendeva pareva uscita dai sogni di un folle: invasa da un lezzo che toglieva il respiro, con le cucce a castelli unite l’una all’altra, popolata da fantasmi. Ci pigiammo lì dentro cercando soltanto di darci calore a vicenda. Una di noi nell’attraversare il lager aveva chiesto dove ci trovavamo. «Belsen...», era stata la risposta. Dall’indomani mattina, all’alba, cominciarono gli appelli all’aperto, nell’aria gelida di un inverno rigidissimo. Esperimentammo fino in fondo la crudeltà. Per un futile errore durante il lavoro Maria Luisa fu battuta a sangue sotto i nostri occhi, miei e di Bice. Ogni mattina, all’uscita dalle baracche, le sorveglianti ci incitavano a muoverci più rapidamente, colpendoci una a una col bastone o con lo scudiscio. Avevamo il corpo coperto di lividure. Prima di prendere sonno, alla sera, il risveglio dell’indomani ci appariva come un incubo. Un mese dopo il nostro arrivo lasciammo Belsen. Maria Luisa, Bice e io, con una nostra correligionaria di Trieste, di cui non ricordo il nome, due di Lodi, la signora Eleonora Recanati Foà di Torino e la signora Noemi Jona [10] di Roma, fummo aggregate a settecento ebree ungheresi e trasferite in un campo dei dintorni di Braunschweig. Non ricordo quanto durò il viaggio. Né le condizioni in cui lo facemmo. Le assenze, nella mia mente, diventano sempre più prolungate. A Braunschweig fummo alloggiate in una stalla dove al massimo avremmo potuto stare in trecento. Un solo rubinetto doveva bastare per tutte. Le latrine erano una baracchetta di assi di legno sconnesse e putride. Ogni mattina all’alba attraversavamo la città dirette ai quartieri danneggiati dai bombardamenti. Maria Luisa, Bice e io, quando potevamo, camminavamo tenendoci per mano. Bice si era assai indebolita e, fin dagli ultimi giorni della nostra permanenza a Belsen, era stata colta da un’acutissima dissenteria. Maria Luisa era quella che più resisteva. Fisicamente era dimagrita e il petto e i fianchi le erano spariti, ma il suo cervello e i suoi nervi erano ancora sufficientemente saldi. Molte volte si sforzava di cantare per noi, di infonderci speranza e fiducia. Era più che nostra sorella. Bice e io finimmo per vedere in lei nostra madre. Al mattino, mentre andavamo al lavoro, tentava perfino di distrarci indicandoci ora un palazzo, ora un albero, ora un oggetto qualsiasi. Molte volte i passanti ci tiravano sassi e qualcuno si spinse fino in mezzo a noi per sputarci addosso. Ma esperimentammo anche l’altro aspetto, quello reale, quello non corrotto dell’hitlerismo, della Germania. Un mattino, dopo qualche ora di lavoro, Maria Luisa fu colta da malore. Cadde tra le macerie che stava spalando. Bice e io disperate, per il timore che la neve e il freddo aggravassero le condizioni di nostra sorella, l’aiutammo a rialzarsi e la ricoverammo in un portone. Eravamo lì da qualche minuto divisi tra l’angoscia che le sorveglianti scoprissero la nostra assenza e l’ansia ancor più grave che Maria Luisa peggiorasse, quando il portone che avevamo socchiuso si aprì. Entrò una donna tedesca, un’anziana signora con una corona di capelli bianchi attorno al viso, che reggeva un thermos. Ci fece segno che era per Maria Luisa. Il tè caldo rianimò nostra sorella. La signora cavò da una tasca del grembiule, che portava sotto il pesante cappotto, un po’ di pane e ce lo divise in tre porzioni. Se n’andò con un’ultima occhiata in cui ritrovammo qualcosa di ciò che avevamo perduto. Ripreso il lavoro, la scorgemmo dietro i vetri della finestra del palazzo di fronte a quello che le bombe avevano distrutto. Anche la signora Eleonora Recanati Foà trovò dei tedeschi che l’aiutarono. Ella era sofferente di una piaga a una gamba che minacciava di andare in suppurazione. Non so se in una farmacia o in un’abitazione privata nelle immediate vicinanze del posto di lavoro ricevette le cure che le evitarono il peggio. Le sorveglianti si accorsero però delle sue assenze e di quanto accadeva. A Braunschweig incontrammo anche dei civili italiani. Erano addetti ai lavori di sterro e ogni mattina ci distribuivano le pale e le piccozze. Non avevano mai veduto deportati nei campi di sterminio. Furono terrorizzati dal nostro aspetto di larve. Quando appresero che tra le ungheresi vi erano delle italiane, ci cercarono. Anch’essi erano in condizioni tutt’altro che soddisfacenti e il loro vitto era scarso. Si industriarono con ogni trucco di farci scivolare ogni mattina tra le mani, assieme agli utensili, pezzetti di pane a volte piccoli come bocconi e sottilissimi. Tutto ciò che avevano. Quando non avevano nulla da darci, ci attendevano con un’espressione triste sul viso. Essi cercarono anche di aiutarci per quanto riguarda gli indumenti. Eravamo praticamente nude e indifese nei rigori dell’inverno. Le nostre mani erano screpolate e sanguinavano. Non poterono far molto, ma ci dettero dei guanti, sia pure spaiati, pezzi di coperta e di stoffa per ripararci alla bell’e meglio. A Bice dettero un cappuccetto blu che le copriva il capo e le scendeva fin sul collo. Eravamo ai primi di gennaio del 1945. Una sera, al ritorno in baracca, una sorvegliante venne a leggere un elenco di nomi: dapprima tutti ungheresi e poi due italiani. Uno di essi era quello di Maria Luisa. L’ordine di raggrupparsi fu così brusco che Maria Luisa dovette correre. Pensammo che l’attendessero ore di lavoro notturno e ci angosciammo per lei, già stanchissima della lunga giornata. Al mattino, al risveglio, eravamo certe di rivederla da un momento all’altro. Anzi, aprendo gli occhi, contavamo di ritrovarla al nostro fianco rientrata nella stessa notte. Alla sera Bice e io non vedevamo l’ora di giungere nella stalla. Maria Luisa non c’era. Un’ungherese ci fece comprendere che era partita con le altre dirette a un campo lontano dal nostro. Bice e io quella sera piangemmo abbracciate, disperatamente.

IX. Dopo la partenza di Maria Luisa, Bice cominciò a peggiorare. Piangeva spesso e si lamentava. Andava perdendo le forze a vista d’occhio. I suoi diciotto anni parevano essersi contratti, quasi accartocciati, come una foglia d’albero, staccata verde, nella polvere al sole. Andava divenendo sempre di più una creatura senza età, pallida di quel pallore bianco, quasi cartaceo, dei «subumani». Era divenuta esile, si muoveva con lentezza, come se ogni gesto le costasse infinita fatica. Fino a quando ci fu Maria Luisa eravamo in due ad aiutarla: poi rimasi sola. Rimasi sola a trascinarla lungo la strada che conduceva al lavoro, sola a difenderla dalle sorveglianti, sola nel tentativo di evitarle le maggiori fatiche, sola a sforzarmi di trattenere in lei la vita. E anch’io mi scoprivo a compiere il gesto più elementare come se fosse terribilmente complicato e faticoso. Mi scoprivo senza più carne, pelle tesa sulle ossa. Ciò che più mi riusciva di fare era di starle accanto, di non perderla mai di vista. Soffrivo alla sera perché dormivamo separate. Bice in mezzo alle ungheresi, a fianco di un traliccio di legno che un tempo aveva contenuto una stufa o arnesi da lavoro, e io addossata a una parete della stalla. La sera del 13 gennaio Bice si lamentò più del solito sulla via del ritorno. La dissenteria era continua, inarrestabile; non esisteva posizione che la diminuisse almeno per un attimo. Sul lavoro, per la strada, sulla paglia. Quella sera mia sorella, dopo la prima cucchiaiata di broda, ebbe un conato di vomito, respinse la gamella e andò a gettarsi sul suo putrido giaciglio. Le rimasi vicina fino a quando le ungheresi non mi ordinarono di filare via. Avevo intenzione di rimanere desta per udire se Bice si lamentava, ma ero così spossata che caddi subito in un sonno profondo. All’alba, come al solito, le sorveglianti ci destarono urlando e agitando i bastoni. Accorsi presso Bice: aveva gli occhi aperti e fissava il soffitto. Ebbi la sensazione che non avesse dormito. Tentai di sollevarla perché si alzasse. Le sorveglianti sul piazzale davano già l’avviso dell’appello. Bice cercò di agevolare il mio sforzo ma ricadde pesantemente. La spronai. Fu inutile. Corsi disperata fuori dalla stalla. Una sorvegliante mosse minacciosamente il bastone verso di me. Piangevo e gridavo per farle comprendere che Bice stava troppo male per poter lavorare quel giorno. La sorvegliante si gettò su di me come una furia. Mi picchiava e io continuavo a gridare, mi batteva sul capo, sul volto, sul petto, e io continuavo a piangere, a gridare, non avvertivo il dolore delle percosse, non sentivo nulla, non ne ho traccia in me, ho soltanto l’angoscia che provavo nella previsione che non fossi riuscita a farmi capire, che la sorvegliante entrasse nella stalla e battesse anche Bice. Riuscii ad afferrare la donna per un braccio e a trascinarla verso la stalla. La sorvegliante finì per intuire ciò che dicevo. Si chinò su Bice, le dette una rapida occhiata, poi, dopo un moto di disgusto, mi cacciò fuori. Mia sorella rimase stesa sulla paglia mentre io, incolonnata con le altre, andavo a lavorare. La giornata fu di una lunghezza lancinante. È difficile trovare parole per descrivere come la misura del tempo sia semplicemente una convenzione: come esista dentro di noi un tempo che può restringersi e dilatarsi all’infinito sfuggendo a ogni metro. Quando venne la sera ero più spossata dall’attesa che dalla fatica. Bice era nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata al mattino. Vicino a lei vi era una gamella piena a metà di broda e un pezzo di pane. Appena mi vide entrare mi indicò l’una e l’altro con un piccolo cenno del capo. Aveva la testa avvolta nel suo cappuccetto blu. La guardai e ansia e speranza per un attimo mi cozzarono dentro. Bice aveva il volto disteso, gli occhi quasi limpidi. Le chiesi come stava. Per la prima volta, dopo molti giorni, mi rispose che stava benissimo. Chiesi a un’ungherese il permesso di dormire accanto a mia sorella. Non ebbi neanche risposta. La donna cadde quasi di schianto sul proprio giaciglio e chiuse gli occhi. Cercai di resistere al sonno. Sapevo che non avrei dovuto dormire. Ma la stanchezza era più forte della volontà. Il sonno era soltanto un rapidissimo chiudere e aprire gli occhi. La notte, dalle tenebre all’alba, durava un attimo. Mi destai al grido delle sorveglianti. Bice era immobile ancora con gli occhi aperti in quella strana fissità. La paglia sotto di lei e attorno a lei era marcita per la dissenteria. Con un filo di voce insistette a dirmi che stava benissimo. Pareva avesse raggiunto uno stadio in cui non c’era più sofferenza. Al termine dell’appello mi prosternai dinanzi alla sorvegliante che il giorno prima mi aveva battuto, le chiesi che mi facesse rimanere accanto a mia sorella. Ripetevo la parola «morte», la sola che avessi appreso in tedesco. Ero inginocchiata dinanzi a quella donna, col capo piegato fino a toccare con la fronte la terra. Il bastone si abbatté sulle mie spalle e avvertii una fitta al petto. Mamma, mamma..., chiamavo. Mamma, mamma... aiutami. Bice sta morendo, fa che questa donna capisca, che abbia un briciolo di umanità. Ero ancora curva così, prona a terra, quando udii il passo della colonna che si allontanava. Corsi come una pazza accanto a Bice. Bice non mi chiese neppure il motivo per cui non ero andata a lavorare. Le presi la mano e gliela strinsi. Un poco più tardi pensai che sarebbe stato bene ripulire il suo giaciglio e lavarla. L’afferrai con amore sotto le ascelle e stavo per sollevarla quando un lungo rantolo mi paralizzò. Distesi nuovamente Bice e le ripresi la mano. Rimasi così tutto il giorno, senza muovermi, senza parlare, con l’assurda speranza di trasmettere calore e vita a quel corpo. Sapevo ciò che stava per accadere, ma non volevo crederci. Bice era l’ultimo solido frammento del passato che mi rimaneva. Avvertivo con crescente paura i sempre più lunghi periodi di assenza della mia mente, gli abbandoni frequenti, la volontà di vivere sempre più fievole. Conoscevo quei sintomi perché spesso altre ne avevano parlato e sapevo che cosa significassero. Ma finché Bice fosse rimasta con me io sapevo anche che non mi sarei lasciata sopraffare. Ma erano rapidi lampi quelli che si accendevano in me per la mia sorte: ero troppo assorbita in quella di Bice. Rivedevo mia sorella bambina, la sorprendevo ancora una volta a crescere seria e tranquilla come la nostra mamma, incapace di manifestare un qualsiasi risentimento e di nutrirlo, buona. Bice era il frammento di un passato di ansie e di paura, ma anche di affetti. Andavamo a scuola assieme e ci chiamavano «le sorelle carciofo», un nomignolo che qualche volta ci faceva ridere. Carciofo perché eravamo punte e aculei. Dicevamo alle compagne di classe: ci piacerebbe invitarvi a casa, ma come possiamo fare? Abbiamo tutto all’aria. Stiamo facendo ordine. Un ordine che, per essere fatto, aveva bisogno di un intero anno scolastico. Se qualcuna insisteva diventavamo, senza volerlo, sgarbate. La cattiva sorte di mio padre e poi, dopo il 1938, il suo tracollo e il suo precoce invecchiamento e noi, sue figlie, a sforzarci di distrarlo, di ridestargli lo spirito allegro di un tempo: mille e mille immagini della nostra casa, della nostra famiglia, erano attorno a me e a Bice quel giorno. E forse Bice non le ricordava come immagini ma le viveva come realtà. Forse lei era tornata a casa da un lungo viaggio e aveva bussato alla porta e mamma era andata ad aprire e noi tutti le eravamo andati incontro per abbracciarla e baciarla. Nessuno di noi parlava di persecuzioni, di fughe, il cielo era azzurro e la luce azzurra e verde irrompeva dal giardino della nostra casa. Giorgio ballava con Bice e noi battevamo le mani e Bice non ricordava più ciò che era accaduto. E neanche di essere partita e di essere tornata. Una lacuna del tempo si rinchiudeva, se ne saldavano i lembi scacciandone il male, e per Bice forse la vita riprendeva dagli anni in cui i messaggeri dell’incubo non erano ancora arrivati fino a noi. Forse per questo Bice mi rispondeva di stare benissimo e rimaneva sdraiata senza più lamentarsi e col volto, bianco come la carta, disteso. Quando tornarono le ungheresi fui costretta a lasciare mia sorella. Io mi vergogno di scriverlo, ma anche quella sera, nonostante avessi impegnato tutte le mie forze per resistere, mi addormentai. Mi destai all’improvviso oppressa da una sensazione di terrore. L’alba era vicina. Chiamai la signora Foà, la pregai di andare a vedere come stesse Bice. La signora si alzò a fatica, ancora assonnata. Scavalcò il corpo delle altre donne che, nel sonno, si lamentavano e raggiunse il giaciglio di Bice. Si sporse su di esso e rimase un attimo immobile. La vidi stendere una mano per toccare mia sorella. Chiusi gli occhi. Mamma, mamma... imploravo. La signora Foà mi tornò vicino e mi posò una mano sul capo. È morta, disse con un soffio. Accanto a Bice assistetti al levarsi di un grigio giorno di neve. Nel corso della mattina una «kapò» venne a chiedermi le generalità di Bice. Annotò tutto con estrema diligenza su di un registro. Se n’andò senza dare un’occhiata a quel corpo senza vita. Nel pomeriggio vennero a prendere il corpo di Bice. Lo portarono fuori dalla stalla e lo depositarono su una panca accanto alla porta della latrina. Nevicava. Gettarono su mia sorella un sacco che le coprì a mala pena il ventre appiattito. Il volto, nella corona blu del cappuccetto, rimase esposto alla neve e così le mani e le gambe. L’indomani mattina, prima dell’appello, nell’ora in cui ci era consentito andare nella latrina, passai accanto a Bice. Vi ripassai la sera e l’indomani e poi la sera e ancora il giorno dopo e un altro giorno ancora. Dopo quattro giorni ben poco emergeva più di Bice dalla neve. È da quel momento che i miei ricordi si fanno confusi, staccati, impersonali. Il subcosciente li trattiene come un male che cova dentro di me. So che dovrei liberarmene ma non ne sono capace. Non sono capace di farli riaffiorare alla coscienza. Mi rammento che alla fine di marzo con la signora Foà, la signora Noemi Jona, l’ebrea di Trieste e un gruppo di ungheresi fui trasferita in un altro campo. A Berndorf [11]. Non sono sicura che sia questa l’esatta dizione del nome: è un nome che ho udito senza averlo mai veduto scritto. A Berndorf vi era una fabbrica sotterranea di accessori per aeroplani. Nelle gallerie l’aria era mite, faceva caldo; dopo il gelo sofferto durante i lavori alle macerie di Braunschweig, quel tepore ci accolse come un’estate. Ne ho un ricordo animalesco, come di un godimento cui la mente non partecipò in alcuna misura. La signora Foà fu addetta a un turno diverso dal mio. Rimasi con la triestina: due italiane tra centinaia di ungheresi. La triestina aveva un aspetto spaventoso tanto era magra. Ricordo che una sera parve cedesse e rinunciasse a vivere. Quando ciò accadeva la morte era vicina. Mi si strinse accanto e mi sussurrò all’orecchio che era stata arrestata a causa della sua matrigna che l’aveva denunciata. Bisogna che mio padre lo sappia, ripeteva. Bisogna che lo sappia. L’indomani si destò smarrita e riprese la solita esistenza. Dopo qualche giorno scomparve. Non la vidi più. In quel periodo, in un banale incidente, mi si ruppero gli occhiali. Fu come se divenissi cieca. Il mondo si restrinse attorno a me. Si trasformò in forme nebbiose ed evanescenti, ovunque minacce e pericoli. Ero sola e cieca. Nella mia mente a questo punto vi è un vuoto che non tento neppure di colmare perché so che sarebbe impossibile. Il vuoto si interrompe. Siamo incolonnate e attraversiamo Berndorf in una corsa pazza. Ci spingono su un vagone. Ne rinchiudono la porta. Il treno si muove. Non ho il senso della direzione. Ancora una volta mi manca. Quando il treno si ferma e la porta viene riaperta intravedo confusamente alcune di noi prendere dei corpi e farli rotolare giù. Il fatto si ripete sovente. Mi desto su qualcosa di morbido e di duro a un tempo. Tocco. Sono gambe, è un ventre, è un letto. Un volto. Gelido. Ho dormito su una morta. Ancora vuoto. Cori di grida come lunghi e impetuosi ululati di vento. Da ora in avanti non so più se le immagini della mia memoria si riferiscono a frazioni di realtà – l’intera realtà non è pensabile che possa essere stata registrata – o ad allucinazioni. Il convoglio si arresta ancora una volta, bisogna scendere, aiutare chi non può scendere: due ungheresi mi prendono per le braccia, scorgo poco distante la massa confusa delle compagne ammassate su uno spiazzo, riprendo coscienza e mi trovo bocconi con la bocca nella polvere, la sete mi tormenta, mi guardo attorno, lo spiazzo è diventato una pianura senza confine, sono sola, mi alzo gridando terrorizzata e comincio a correre, una botte d’acqua piovana, mi chino a bere, l’acqua è sporca, mi assilla la paura che possa farmi male, ma continuo a bere, poi riprendo a correre, un muro dinanzi a me, una baracca, qualcuno che mi distende su un pagliericcio e poi più niente.

X. Anche i ricordi dei giorni successivi sono confusi. Dal pagliericcio sul quale ero distesa scorgevo attraverso i vetri di una finestra pile di casse e divise kaki, mi arrivava all’orecchio un vociare confuso, rombi di motori sovrastavano all’improvviso ogni altro rumore, rombi che rimanevano a lungo nella mia mente. Avevo il corpo dolorante e la febbre altissima. Ero incapace di qualsiasi movimento e di qualsiasi pensiero. Avvertivo al mio fianco, nella stessa baracca, la presenza di altre donne ma non potrei dire chi e quante erano. Il velo di incoscienza si squarcia allorché una voce mi annuncia che l’indomani sarò trasportata all’ospedale. Il terrore mi squassa: urlo. Non voglio andare all’ospedale. So che cosa significa andare all’ospedale. Non voglio essere gasata. Tento di alzarmi per dimostrare che sto benissimo. Posso lavorare, certo che posso, sto in piedi, agito le braccia, non ho bisogno di cure. Perdo nuovamente la consapevolezza di me e del tempo. Un’altra immagine: l’indomani. Due uomini entrano con una barella e si dirigono verso di me. Ricomincio a urlare. Mi afferro ai bordi del pagliericcio, alle lenzuola. Non sono malata, mi sento benissimo. Mi sento forte. Non sono mai stata così ricca di energie. Per pietà, risparmiatemi. I due uomini mi sono vicini. Chiamo la mamma, Roberto, Paolo che mi vengano a difendere, perché impediscano a quei due di portarmi via. Ho l’impressione di lottare come una belva per difendere la mia vita e invece i due uomini mi sollevano senza alcuno sforzo e mi caricano sulla barella. Continuo a urlare. Tutti i miei sensi sono dolorosamente acutizzati. L’autoambulanza corre. Un’ampia scalinata. Corsie bianche. Un letto. Cado ancora nell’incoscienza. Una mano fresca sulla fronte. Riapro gli occhi. Un’infermiera è curva su di me. «Come stai?», mi chiede in italiano. Il primo mio pensiero è nuovamente percorso da scariche di terrore. «Sto benissimo. Posso lavorare. Mi faccia alzare. Vado subito al lavoro». L’infermiera non comprende. Ricordo il suo viso chino quasi a toccare il mio. «Ti ho chiesto come ti senti!». Scoppio a piangere. «Lei è italiana come me», singhiozzo, «la prego mi faccia andare via di qui. Mi faccia tornare in baracca. Posso lavorare. Non voglio essere gasata». Gli occhi dell’infermiera si dilatano. In quel torbido crepuscolo della mia mente li vedo diventare grandi, enormi. Pieni di pioggia. Due braccia mi stringono e un petto accoglie la mia testa rasata, il teschio che è il mio viso. L’infermiera comincia a parlare. Ogni sua parola mi riporta lentamente alla vita. Siamo al 17 maggio, mi dice. La guerra è finita da nove giorni. Qui sei nell’ospedale di Altona, ad Amburgo. Ci sei entrata il 9 maggio. Tento di scuotermi. No, dico, è impossibile. La guerra non è finita. Mi dica la verità, non m’illuda. Mi dica che devo morire piuttosto. L’infermiera mi accarezza il capo. La guerra è finita, insiste. Mi lascia un attimo: ritorna con sigarette, cioccolata, biscotti americani, me li sparge sul letto. Comincio a ridere. Brava, applaude l’infermiera, così. Così. Guardati attorno. Guarda che pulizia. Stamattina sembravi sveglia quando i medici sono venuti a visitarti. Di’, che forse i tedeschi ti manderebbero tanti medici? Ci credi ora che la guerra è finita? Io rido, ci credo, ci credo. Fatemi alzare. Fatemi tornare a casa. Forse i miei sono già in viaggio per l’Italia. I miei. Una nube. L’infermiera mi dà qualcosa da bere. Sta’ tranquilla adesso, mi sussurra. Cerca di dormire. Sei malata. Molto malata. Ma non morirai e potrai tornare a casa. Come i tuoi. Il 26 agosto, grande giornata. Con altri italiani lascio in barella l’ospedale di Amburgo. L’infermiera viene a salutarmi. Tra un paio di giorni sarai a casa. Un treno ospedale ci attende in stazione. Il convoglio parte quasi subito. Un’oscura e profonda felicità mi pervade e quasi alimenta la speranza di ritrovare i miei. La mente è ancora così debole che dico i miei e penso a tutti: papà, mamma, Roberto, Giorgio, Maria Luisa, Bice... Anche Bice. Solo a tratti un nero ricordo mi travaglia. Una panca e sopra un cumulo di neve. Il cielo plumbeo. Dopo poche ore il convoglio si arresta. Le crocerossine passano di vagone in vagone: chi può scendere e fare un breve tragitto si prepari. Gli altri pernotteranno sul treno. L’indomani ancora in barella vengo portata a terra. Lo spettacolo che si offre ai miei occhi torna a sconvolgermi la mente; perdo ancora una volta quel minimo di equilibrio nervoso che ero riuscita a raggiungere. Siamo dinanzi alle baracche del campo di Belsen [12]. Ignoro per quale ragione il nostro treno ospedale partito per raggiungere l’Italia sia stato costretto a quella sosta, ignoro i motivi per cui le autorità americane, che pure erano state così generose nei nostri confronti, si trovarono nella necessità di imporci quell’ultimo supplizio, ma mi è sufficiente richiudere gli occhi per risentire il collasso della mia ragione e delle mie forze dinanzi a ciò che tornavo a rivedere. La sosta a Belsen si protrasse sino alla metà di settembre. Gli americani non tralasciarono alcuno sforzo e impegnarono tutta la loro scienza per restituirci alla vita, per richiamare dentro di noi a raccolta la volontà di vivere. Impiegai quel tempo, cercando disperatamente, attraverso le crocerossine e alcuni deportati del vecchio campo che ancora vi rimanevano, tracce di Maria Luisa. Ritenevo che da Braunschweig l’avessero rimandata a Belsen, ma ogni ricerca fu vana. Il 21 settembre 1945 rivedo finalmente l’Italia. Al momento in cui varcavamo la frontiera il convoglio era un solo grido. Era la nostra vita, sfuggita allo sterminio, che gridava, urlava, impazziva. Fui ricoverata all’ospedale della Croce Rossa di Merano. Mi affrettai a scrivere ai miei parenti annunciando che ero tornata. Il primo ottobre un’infermiera corse trafelata ad annunciarmi che avevo una visita. Lasciai il letto e così com’ero corsi fuori: nella penombra del corridoio vidi avanzare verso di me qualcuno che mi parve di riconoscere. Un irrefrenabile impeto mi riempì il cuore e la gola: «Roberto! Roberto!...», urlai. Avevo gli occhi pieni di lacrime e dovette venirmi vicino per constatare che non era Roberto. Era Carlo, il figlio di zio Flavio. Chiesi ansiosamente a Carlo notizie dei miei. Mio cugino mi rispose sconsolato di non saperne nulla. Soltanto io fino a quel momento avevo comunicato di essere sopravvissuta. Ma non vi era da disperare, aggiunse Carlo. I rimpatri sono tutt’altro che conclusi. Scrissi subito al ministero dell’Assistenza postbellica. In data 9 novembre mi giunse una prima risposta. «Siamo assai dolenti di doverle riferire che dagli elenchi tutt’oggi in nostro possesso risulterebbe deceduta a Flossemburg il 20 marzo 1945 una signorina Maria Luisa Sonnino, nata il 5 ottobre 1920: temiamo si tratti della sua congiunta ricercata. Inoltre su un elenco trasmessoci dalla Comunità israelitica di Milano risulta deceduta “la famiglia Sonnino di Genova” senz’altri dati più particolari, notizia quest’ultima recata dal signor Giuseppe Mortara di Bologna». Soltanto due anni dopo, il 29 settembre 1948, potevo avere qualche notizia della fine dei miei fratelli. L’ingegnere Simone Spritmann, che faceva parte del nostro transport da Bolzano ad Auschwitz, mi inviò una lettera dalla quale stralcio qualche brano: «Nella notte, o meglio al mattino del 28 ottobre 1944, nel salone delle Saune, mentre noi eravamo schierati e un tenente delle Ss camminava dinanzi alle nostre file, io mi trovavo accanto al suo fratello maggiore. Ricordo questo benissimo. Egli accusò durante l’interrogatorio di essere affetto da postumi di pleurite. Egli fu unito al gruppo dove c’era suo babbo. Di Roberto posso dire poco. A me risulterebbe che sia andato in transport (nella camera a gas, nda). Egli sparì presto dalla circolazione. Invece Giorgio, povero, caro e dolce Giorgio, fu a lungo vicino a me. Era come un mio figlio. Ho dovuto lottare con lui, confesso che ho dovuto anche schiaffeggiarlo. Quel ragazzo si lasciava andare. Non voleva resistere. Non voleva nemmeno fare la coda in attesa del rancio. Per molto tempo fu aiutato soprattutto da me. Questo finché rimanemmo nella stessa baracca e allo stesso lavoro. Rimproveri, scherzi, nulla, nulla è valso. Si lasciò andare dolcemente fino al trasferimento al Krankenbau. Il fatto avvenne verso la fine di novembre. Non lo rividi più». Le ceneri di mia madre, di mio padre, di Paolo, Roberto e Giorgio sono ad Auschwitz: Maria Luisa è finita in una fossa comune. Di Bice ignoro il luogo della sepoltura. Nel maggio del 1946 lasciai l’ospedale di Merano e fui trasferita nella Clinica di Loano del professor Zanoli dove rimasi fino al maggio del 1948. Il primo giugno dello stesso anno fui ricoverata all’Istituto Codivilla di Cortina da cui uscii nel settembre del 1950. Mio zio Flavio Sonnino, fratello di mio padre, non lesinò denaro perché fossi curata nel migliore dei modi. Furono anni quelli di completa abulia, vissuti passivamente, compresi in una solitudine senza fine. Forme specifiche mi avevano aggredito in più punti, ebbi più volte la pleurite, per mesi fui costretta a rimanere a letto, per un tempo lunghissimo, anche dopo aver lasciato le case di cura, dovetti portare il busto per combattere la spondilite, ciò che rimaneva del mio istinto vitale forse sopravviveva soltanto nell’arrendevolezza con cui mi sottoponevo a ogni genere di cura. Sovente venivo colta da crisi di pianto che mi lasciavano stordita. Più di una volta mi sorpresi a desiderare di morire, il desiderio della morte era sempre presente in me ma senza nulla di drammatico o di doloroso, come qualcosa di naturale. A Merano, a Loano e poi a Cortina conobbi della gente; uomini e donne come me malati, ospiti delle stesse case di cura dove mi trovavo, ma non riuscii a stringere rapporti amichevoli profondi. Era ancora come se fossi in mezzo alle ebree ungheresi impossibilitata a comunicare. Il 21 settembre 1950, dopo sei anni di assenza, rimisi piede a Genova. Che cosa dire di quel mio ritorno? Di quel mio ritrovarmi in una città che avevo sognato e desiderato fino alla disperazione, che mi era apparsa come la mia casa e che ritrovavo ma deserta dei miei? Erano ad attendermi zia Anna e mia cugina Giulia, moglie di un nipote di mio padre. Mi attendevano anche le vie, le piazze, i luoghi dove ero vissuta con i miei fratelli e le mie sorelle, una realtà che esisteva ormai senza di loro ma di cui io facevo parte. Furono giornate di un’intensità indimenticabile. Di un dolore rinnovato alla radice. Quando potei mi interessai per conoscere la sorte di quanto avevamo lasciato nella casa di via Montallegro. L’appartamento era stato completamente saccheggiato e svuotato. Di tutto ciò che avevamo posseduto riuscii a recuperare un solo mobile. Una vecchia chiffonier. Qualche tempo dopo, avendo appreso del mio ritorno, una signora abitante in via Montallegro mi portò qualcosa che aveva trovato nella polvere il giorno in cui la mia casa era stata svaligiata: una fotografia di mia madre, la sola che io possegga dei suoi ultimi anni. Trascorsi qualche mese dividendo il tempo con zia Anna e poi la mia vita ebbe una svolta. Conobbi degli uomini e delle donne con i quali mi accorsi di potermi intendere. Non fu facile per me superare la barriera che mi divideva da loro. Ma quando ciò avvenne mi trovai come in un mondo nuovo: un mondo di creature semplici, ottimiste, profondamente serie e consapevoli dei valori della vita umana, dei diritti della personalità umana, dei sentimenti umani. È stato per merito loro che ho cominciato a vedere chiaro dentro di me e dentro la storia della mia famiglia: per merito loro se mi sono trovata più volte, dinanzi a un microfono, con voce incerta ma con tutto il mio dolore e tutte le mie speranze, a dire: «Compagni, amici, amiche, miei fratelli, operiamo tutti assieme perché a nessuna famiglia della terra tocchi più la mia lunga notte di Auschwitz, la lunga notte del martirio del mio popolo e di tutti i popoli europei...».
Note
[
1] Si riferisce alla campagna di Etiopia, iniziata il 3 ottobre 1935. Il 28 ottobre, il cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, parlando in Duomo, esalta il fascismo che «a prezzo di sangue apre le porte dell'Etiopia alla fede cattolica».
[
2] Si tratta dell’unico passaggio non chiaro. L’ipotesi più plausibile è che la signora Sonnino si riferisca a Terni, in Umbria, che venne liberata dagli alleati il 13 giugno 1943. Bice Parodi, una delle due figlie di Piera, ricorda vagamente che la madre raccontava di un lavoro, appunto a Terni, che il padre impedì alle figlie di accettare. Altre ipotesi: esiste un Termini in Campania dalle parti di Sorrento e un Termine, in Abruzzo, cioè abbastanza vicino alla seconda soluzione prospettata dall’avvocato Sciarretta. Il modo anche linguistico esclude che il riferimento sia alla stazione Termini di Roma. Improbabile che si tratti del paesino di Termini di Roverano, sul Monte Bracco, in Liguria, non lontano da Chiavari. Una destinazione tanto prossima non avrebbe posto tanti dubbi alla famiglia Sonnino.

[3] Parlando a Chiara Bricarelli il 23 febbraio del 1998, nell’ambito del progetto di Steven Spielberg, Survivors of the Shoah, la signora Sonnino dà un nome a questo sacerdote: Don Repetto. Si tratta di Don Francesco Repetto, segretario del Cardinale di Genova, Pietro Boetto, tra i Giusti italiani.

[4] Sempre nell’intervista Survivors of the Shoah, Piera Sonnino dice: «Il ladro era uno che era appena uscito dalle carceri di Savona (…) Io ho avuto sempre sullo stomaco questa faccenda che mi hanno derubato, che può aver dato all’occhio, che può essere stata colpa mia… Roba da matti».  

[5] Negli ultimi anni della sua vita, la signora Piera Sonnino era convinta che a segnalare agli agenti la presenza della famiglia fosse stata una certa signora Grossi che abitava nello stesso stabile di via Montallegro. A ordinare l’arresto era stato il colonnello Brenno Grandi che, secondo Piera, aveva incassato 5 mila lire per l’arresto di 8 ebrei. Dopo la guerra, Brenno Grandi fu assolto dall’accusa di avere agito a scopo di lucro.

[6] Eleonora Recanati, nata a Torino il 12 marzo 1922, coniugata con Guido Foà che sarà ucciso all’arrivo ad Auschwitz. Fu liberata a Ravensbrueck.

[7] Elena Segre, nata a Torino il 26 ottobre 1904. Morì ad Auschwitz in data ignota.

[8] Non è stato possibile identificare questa persona.

[9] Con ogni probabilità si tratta di Bianca Maria Morpurgo, nata a Trieste il 13 ottobre 1916, deportata ad Auschwitz il 30 gennaio 1944 e liberata a Lipsia. La sorella residente a Genova era Maura, nata a Trieste il 21 marzo 1908 e uccisa ad Auschwitz il 6 febbraio 1944.

[10] Nata Foà a Castagnole Lanze (Asti) il 14 febbraio 1908 e liberata nei pressi di Ravensbruck.

[11] Si tratta di Bendorf Am Mein, nelle vicinanze di Koblenz.

[12] Nell’intervista rilasciata a Survivors of the Shoah nel 1998, la signora Sonnino inverte la successione degli eventi. Si ritrova Belsen dopo la liberazione e parte per l’Italia da Amburgo.

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da «Diario del mese», 24 gennaio 2003, per gentile concessione

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