Diario

La banalità del male revisited

Quarant’anni fa Hannah Arendt pubblicava il suo celebre reportage sul processo di Gerusalemme contro Adolf Eichmann. Ragionò sola, scoprendo una terribile normalità

di Sabina Loriga

 

«Decisivo non fu l'an­no 1933, quantomeno non per me; decisivo fu il giorno in cui venimmo a sapere di Auschwitz», dice Hannah Arendt nel corso di un'intervista alla televisione tedesca il 28 ottobre 1964. «All'inizio non riuscivamo a crederci, anche se io e mio marito abbiamo sempre detto che ci si poteva aspettare qualsiasi cosa da quella marmaglia. (. . .) Quello fu un vero trauma. Prima di allora ci dicevamo: be', ognuno ha i suoi nemici, è naturale. Perché un popolo non dovrebbe avere dei nemici? Ma questo era diverso. Era proprio come se si fosse spalancato un abisso sotto i nostri piedi, perché prima pensavamo che a tutto si potesse porre rimedio, come in un modo o nell' altro accade per quasi tutto in politica. Ma questo non sarebbe dovuto accadere. E non mi riferisco solo al numero delle vittime, mi riferisco al metodo, lo sterminio su base industriale, ecc. (...) Questo non doveva accadere. Era accaduto qualcosa con cui era impossibile venire a patti». Quand'era giovane, la Arendt aveva provato poco interesse per la politica e per la storia. Ma, a un certo punto, l'indifferenza non era stata più possibile: la Storia del Mondo era entrata nella vita di tutti i giorni, diventando un destino personale. Qualcosa con cui era impossibile venire a patti, ma che andava capito: com'era potuto succedere? Quali erano stati i meccanismi sociali e le responsabilità intellettuali che l'avevano reso possibile? E, poi, ora che la grande catastrofe era stata consumata, che cosa si poteva ricucire? Sarebbe stato ancora possibile appoggiarsi alla tradizione culturale dell'Occidente? Il processo ad Adolf Eichmann, accusato di crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l'umanità e crimini di guerra, si presenta come un'occasione eccezionale non solo per fare giustizia, ma anche per provare a capire. Nascosto in Argentina sotto il falso nome di Ricardo Klement, nel 1955 l'uomo che aveva diretto il servizio IV B 4 dell'Ufficio centrale di sicurezza del Reich, incaricato dell'evacuazione e del trasporto degli ebrei nei campi di sterminio, cede al piacere di rilasciare un'intervista radiofonica a un altro ex-membro delle Ss, il giornalista olandese Willem Sassen: un bicchiere di vino basta per ricordare «i più begli anni della sua vita», definire il comandante di Auschwitz Rudolf Höss un collega buono e simpatico, parlare degli ebrei come di un ospite che non ha saputo rispettare le regole della casa. . . È una mossa imprudente: scoperto, cinque anni più tardi viene rapito dai servizi segreti israeliani in un sobborgo remoto di Buenos Aires. Ne scaturisce una difficile vertenza diplomatica tra l'Argentina e Israele per la sua estradizione e un dibattito alle Nazioni Unite sulle intenzioni israeliane. Appena diventa chiaro che il processo si svolgerà a Gerusalemme, Hannah Arendt si offre come inviata al New Yorker. Il suo doloroso reportage esce in cinque puntate nel febbraio e nel marzo 1963, provocando incomprensioni, lacerazioni, rotture. Sarà pubblicato, come libro, due mesi più tardi col titolo Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil (tradotto da Feltrinelli nel 1964). Quando l'imputato entra nella gabbia di vetro sono le 8.55 dell'11 aprile del 1961. Avviene tutto semplicemente, senza annunci. Come racconta il poeta Haïm Gouri, un altro cronista d'eccezione, inviato del quotidiano israeliano Lamerhav, «È entrato e si è seduto. Alto, magro, vestito di scuro, con una camicia bianca ben stirata e una cravatta. Ha la pastura di una statua: volontà ferrea di mantenere la calma o insensibilità di un uomo che non sa chi è?». Al suo fianco due poliziotti, più in là la pubblica accusa, i giudici, gli avvocati difensori. E poi il pubblico: israeliani, europei, americani, asiatici, africani, anche qualche tedesco, con gli occhi puntati su di lui, tutti immersi in un faticoso silenzio, «agitato dal fruscio emesso da centinaia di persone che fanno di tutto per non essere tradite dai loro sensi». Hannah Arendt ha più o meno la stessa impressione: un uomo di mezza età, statura media, magro, calvizie incipiente, dentatura irregolare, occhi miopi, un tic nervoso delle labbra, attento a non perdere l'autocontrollo. Se lo aspettava diverso. Pensava di trovarsi di fronte un essere disumano, incomprensibile e, invece, ecco un piccolo grigio burocrate, un uomo qualunque, normale (uno degli psichiatri dice: «più normale di quello che sono io dopo averlo ascoltato» ). E che, pieno di pietà per se stesso, si mette a raccontare una storia atrocemente semplice. Prima, da ragazzo, non troppa voglia di studiare, poi poca fortuna nel mondo del lavoro, finché un giorno era stato inghiottito dal nazismo «senza accorgersene e senza aver avuto il tempo di decidere». Non conosceva il programma del partito, non aveva mai letto Mein Kampf, non aveva mai nutrito sentimenti di avversione per le sue vittime, però aveva sempre preso molto sul serio il suo lavoro: quello che per ebrei, zingari, oppositori politici, era stata la fine del mondo, lo sentiva come un lavoro giornaliero, monotono, con i suoi alti e bassi. Non era un opportunista, non aveva fatto come Kurt Becher, un altro funzionario delle Ss, che nel 1942 aveva concesso ad alcuni ebrei ungheresi il permesso di espatriare in cambio del controllo delle loro aziende (come nel caso celebre di Manfred Weiss e di tut­ti i suoi familiari). Lui no, era sempre rimasto ligio alla legge e, ai suoi occhi, gli ordini di Hitler possedevano forza di legge. L' 8 maggio 1945 era stato un giorno tragico soprattutto per questo: «Sentivo che la vita mi sarebbe stata difficile, senza un capo; non avrei più ricevuto direttive da nessuno, non mi sarebbero più stati trasmessi ordini e comandi, non avrei più potuto consultare regolamenti - in breve, mi aspettava una vita che non avevo mai provato». La conclusione di questa insipida narrazione autobiografica è scontata: Eichmann si dichiara non colpevole «nel senso dell'atto dell'accusa». I veri protagonisti del processo di Gerusalemme, la Norimberga del popolo ebraico, sono i testimoni. Diversamente dal procuratore americano Robett H. Jackson, che nel 1946 aveva fondato l'atto di accusa soprattutto su una massa di documenti probatori (ordini, rendiconti, trascrizioni telefoniche e molti filmati), il procuratore Gideon Hausner chiama a raccolta le vittime: «Volevo che la storia fosse raccontata da un campione rappresentativo dell'intero popolo - professori, domestici, artigiani, scrittori, contadini, commercianti, dottori, funzionari, operai. Appartenevano a tutti i gradi della scala sociale com'essa si presentava nel momento in cui la catastrofe si era abbattuta sull'intera nazione». Da un punto di vista strettamente processuale non c'è nessun bisogno di ricorrere alla memoria delle vittime - le prove sono schiaccianti - ma il suo vero obiettivo è di educare i giovani, dare una lezione di storia e «il solo mezzo di far toccare la verità era quello di chiamare alla sbarra il maggior numero di sopravvissuti ammissibile nella cornice del processo. (...) Spero di riuscire a dare al fantasma del passato un'ulteriore dimensione: quella del reale». Incoraggiata dal primo ministro David Ben Gurion, la pubblica accusa imposta il processo, più che su quello che Eichmann aveva fatto, su quello che gli ebrei avevano sofferto. L’israeliano Haïm Gouri ha dato ascolto, un ascolto pieno e assoluto, a questa sofferenza. Nel suo bellissimo reportage, La gabbia di vetro, l'imputato scompare ben presto: «Improvvisamente mi rendo conto», scrive il 2 maggio, «che oggi non ho ancora guardato in direzione della gabbia di vetro. Le cose hanno preso delle proporzioni che vanno al di là dell'imputato». Ecco, al suo posto, il vecchio Zindel Grynszpan, il padre di Herschel, che all'inizio del novembre 1938 aveva assassinato il barone Ernst vom Rath, giovane consigliere dell'Ambasciata tedesca a Parigi; ecco Georges Wellers in mezzo ai bambini del campo di Drancy; ecco KaZetnik 135633, «lo storico del pianeta Auschwitz»; ecco Simon Srebnik (il cantore di Shoah) e Mordechaï Podklenik, due dei tre soli sopravvissuti di Chelmno; ecco Isaac Nehama, uno dei 9 mila ebrei costretti a esibirsi in esercizi ginnici nella piazza di Salonicco, prima di essere deportati a Auschwitz; ecco Itzhak Zuckermann, l'eroe dell'insurrezione del ghetto di Varsavia; ecco Michael Podchlewnick, l'uomo del Sonderkomando che scaricava i cadaveri asfissiati e un giorno si è ritrovato tra le braccia i corpi della moglie e dei due figli... Uno dopo l'altro, 111 emissari ci guidano «nel pianeta di cenere»: Sobibor, Belzec, Chelmno, Treblinka, Maidanek, Auschwitz, Einsatzgruppen. Troppi? Per Haïm Gouri no: sono loro «l'elemento essenziale del processo, perché sono i delegati ufficiali dell'Olocausto». Sono loro «i fatti». Paradossalmente, nel suo ascolto, Haïm Gouri è stato forse aiutato dalla lontananza fisica. Nato e cresciuto a Tel Aviv, ha scoperto la verità inverosimile dello sterminio solo nel 1947, durante un viaggio in Ungheria. Hannah Arendt, deportata nel campo di concentramento francese di Gurs, prima di potersi salvare negli Stati Uniti, sceglie una strada diversa, apparentemente più arida. L'impianto del processo non la convince: «Qui si devono giudicare le azioni [dell'imputato}, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l'umanità, e neppure l'antisemitismo e il razzismo», Non condivide neppure il giudizio su Eichmann. Diversamente dai giudici, che lo ritengono un malvagio che ha agito sapendo di commettere dei crimini e che adesso mente per cercare di salvarsi la pelle, la Arendt gli crede. Lei non vede un demone del male, un mostro, ma un gregario, che si trova a suo agio solo nel linguaggio burocratico. Un uomo vacuo, ligio, incapace di esprimersi e di pensare: «E nulla sarebbe più lontano dalla sua mentalità che "fare il cattivo" ­come Riccardo III - per fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele (...) Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (...) e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali. (...) Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi». Non solo. Al contrario dei criminali comuni, Eichmann non mente. Alle volte esagera, millanta, ma non mente: gli «bastava ricordare il passato per sentirsi sicuro di non star mentendo, (...) perché lui e il mondo in cui aveva vissuto erano stati, un tempo, in perfetta armonia. E quella società tedesca di 80 milioni di persone si era protetta dalla realtà e dai fatti esattamente con gli stessi mezzi e gli stessi trucchi, con le stesse menzogne e con la stessa stupidità che ora si erano radicate nella mentalità di Eichmann». Certo, il ragionamento non vale per tutti e sarebbe fuorviante parlare di colpa collettiva. Qualcuno era stato capace di conservare intatta la capacità di distinguere il male dal bene: «Sotto il terrore la maggioranza si sottomette, ma qualcuno no, così come la soluzione finale insegna che certe cose potevano accadere in quasi tutti i Paesi, ma non accaddero in tutti». I danesi avevano resistito, il sergente della Wehrmacht Anton Schmidt aveva salvato la vita del partigiano Abba Kovner, e non per denaro: «Come tutto sarebbe stato oggi diverso (...) se ci fossero stati più episodi del genere da raccontare». Ma durante il regime nazista l'abitudine di ingannare se stessi era divenuta quasi un presupposto morale per sopravvivere, la coscienza in quanto tale era morta, «al punto che la gente non si ricordava più di averla e non si rendeva conto che il "nuovo sistema di valori" tedesco non era condiviso dal mondo esterno». In Le origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951, la Arendt aveva messo a fuoco il concetto di male radicale: «Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può essere distrutto. Ma, nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire». Dieci anni più tardi, quando vede Eichmann in carne e ossa nella gabbia di vetro, scopre che il male è un fenomeno superficiale, estremo, ma non sempre radicale. Capisce di avere sopravvalutato l'impatto dell'ideologia sull'individuo: «Lo sterminio in se stesso era stato più importante dell’antisemitismo o del razzismo». Allora la domanda più urgente diventa: «Quanto tempo occorre a una persona media per superare l'innata ripugnanza per il crimine?». Eichmann va preso sul serio perché è l'espressione della nuova peculiarità dei crimini nazisti: «Nessuno arrivò a capir bene che l'orrore di Auschwitz era diverso da tutte le atrocità del passato». A Gerusalemme persino i giudici, persino l'accusa sono portati a pensare quella vicenda come il più orribile pogrom della storia ebraica. Ma tra le leggi di Norimberga e le camere a gas c'è l'abisso, non solo per loro gravità ma per loro essenza: «L'espulsione e il genocidio, sebbene siano entrambi delitti internazionali, devono rimanere distinti; la prima è una crimine contro le altre nazioni, mentre il secondo è un attentato alla diversità umana in quanto tale». Ed è proprio quest'abisso che spinge Hannah Arendt a un doppio, difficilissimo, passaggio. Prima di tutto, la degiudaizzazione della catastrofe. Nessun dubbio sulla colpevolezza dell'imputato (e, diversamente da Martin Buber, sulla necessità della sua esecuzione). Ma, per la Arendt, il crimine più importante da giudicare non è quello dello sterminio fisico degli ebrei, ma del crimine contro l'umanità, perpetrato sul corpo del popolo ebraico: solo la scelta delle vittime, ma non la natura del crimine, può essere ricondotta all' antico odio per gli ebrei. L'imputato non è solo responsabile di aver contribuito a uccidere milioni di persone; ha fatto qualcosa di più grave: ha violato l'ordine dell'umanità. Il secondo passaggio è ancora più doloroso. Si tratta di trovare la forza di interrogarsi sul contributo dato dai capi ebraici alla distruzione del proprio popolo: «Per un ebreo è uno dei capitoli più foschi di tutta quella fosca vicenda», «ma noi ne dobbiamo parlare». Non si tratta di chiedersi perché gli ebrei non siano insorti, la domanda è indecente. Neanche di soffermarsi sul coinvolgimento di alcuni ebrei nella carneficina: «Queste cose erano soltanto orribili. Qui non c'era problema morale... Quello che la indigna (come succede, negli stessi anni, anche a Raul Hilberg, Bruno Bettelheim e al rabbino Michael Weissmandel), è l'atteggiamento dei consigli ebraici, gli Judenrä­te, prima dello sterminio: perché, invece di aiutare gli ebrei a fuggire, avevano compilato le liste delle persone e dei loro beni? perché avevano fornito le forze di polizia per caricarle sui treni? perché avevano taciuto sulla destinazione dei treni? Questa politica di appeasement aveva contribuito alla congiura del silenzio sul trattamento degli ebrei da parte dei nazisti: «La verità vera era che sia sul piano locale che su quello internazionale c'erano state comunità ebraiche, partiti ebraici, organizzazioni assistenziali. Ovunque c'erano ebrei, c'erano stati capi riconosciuti, e questi capi, quasi senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti. La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni». È una risposta spietata e Gershom Scholem accuserà la Arendt di aver manifestato «ben scarse tracce d'amore per il popolo ebraico». Ma è una risposta che contiene soprattutto molta rabbia e molta preoccupazione per il futuro. Rabbia per non avere capito abbastanza in fretta la peculiarità dell’orrore di Auschwitz e la convinzione che questa lentezza sia stata la conseguenza di una diffusa ostilità della tradizione ebraica verso la politica. Un'ostilità che permea anche la filosofia occidentale e che manda la Arendt talmente fuori dai gangheri da indurla a prendere congedo dalla filosofia una volta per tutte: «Non voglio avere nulla a che spartire con questa ostilità, proprio così!», dirà un anno più tardi, sempre nel corso dell'intervista televisiva del 1964,  «voglio guardare alla politica, per così dire, con gli occhi sgombri dalla filosofia». Negli anni successivi gli articoli del New Yorker sono spesso stati frettolosamente confusi con l'arringa dell'avvocato difensore, il dottor Robert Servatius, secondo il quale, in base al sistema giuridico nazista, l'imputato si era semplicemente limitato a eseguire degli ordini. Ma nel reportage non c'è nulla di assolutorio. Semmai è il contrario. Quello che preoccupa Han­nah Arendt è il sistema di valori che ha minato la capacità di giudizio: «Eichmann non ebbe bisogno di "chiudere gli occhi", come si espresse il verdetto, "per non ascoltare la voce della coscienza": non perché non avesse una coscienza, ma perché la sua coscienza gli parlava con una "voce rispettabile", la voce della rispettabile società che lo circondava». Di uomini come lui ce n'erano tanti, non erano né perversi né sadici, erano invece terribilmente normali: «Questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica che questo nuovo tipo di criminale (...) commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male». Per questo, nel difficile saggio Verità e politica, scritto nel 1967, si chiederà: chissà perché il pregiudizio morale corrente è così severo nei confronti della menzogna deliberata, mentre considera con indulgenza l’autoinganno; in fondo, dovrebbe essere il contrario (se non altro, il mentitore è ancora capace di distinguere il vero dal falso). Come scrive Karl Jaspers nel dicembre 1963, l'idea della banalità del male «è splendida, e come sottotitolo del libro è indovinata. Significa, questo male è banale, non il male». Purtroppo, qua e là, nel reportage, il vizio della generalizzazione ha preso il sopravvento. Ma è un vizio che va capito, almeno in questo caso. Quando dice che il male non ha né realtà metafisica né profondità, Hannah Arendt vuole combattere l'idea che dal male possa venire il bene, che la necessità produca libertà, o, più semplicemente, che il fine giustifichi i mezzi. Tutta la sua riflessione sul male investe un tema fondamentale: le condizioni del giudicare. Uno degli aspetti più inquietanti del grigio Eichmann è il suo bisogno di riconoscimenti e la sua incapacità di dare dei giudizi. Si ricorda della conferenza di Wansee come di una giornata indimenticabile perché erano tutti d'accordo: «In quel momen­to mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa». Ecco il fondo dell'abisso: «Chi era lui per ergersi a giudice? Chi era lui per permettersi di "avere idee proprie"? Orbene: egli non fu né il primo né l'ultimo a essere rovinato dalla modestia». Ancora una volta, il problema non riguarda solo l'imputato: «Anche le persone per bene, anche le persone più decenti nel fondo, hanno oggi una paura straordinaria di esprimere dei giudizi. Questa confusione nel giudicare può benissimo andare d'accordo con una buona e forte intelligenza, proprio come una buona capacità di giudizio può riscontrarsi in persone non molto intelligenti». E, in una nota personale, leggiamo: «Se in tali questioni uno dice a se stesso: chi sono io per arrogarmi un giudizio? - allora è già perduto». Meglio non essere innocenti... Per lei, che, con William Faulkner, crede che «il passato non è mai morto, anzi non è neppure passato», la memoria non è un dovere, ma una necessità, un bisogno, qualcosa di indispensabile per poter giudicare.

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da «Diario del mese», 24 gennaio 2003, per gentile concessione

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