Diario
Dormono,
dormono sulla collina
di Giovanni De Luna
Allora,
più di mezzo secolo fa, furono luoghi in cui si combatteva e si moriva.
Cassino, il passo della Futa, Anzio, Faenza, Salerno, S. Anna di Stazzema... una
geografia di morte, di battaglie, di eserciti, di prigionieri, di ostaggi. Per
cinque anni l’Italia di Mussolini fu in guerra, per due anni, poi, l’Italia
fu violata, attraversata, devastata dalla violenza bellica. Vennero a combattere
in Italia da tutti gli angoli del mondo: americani, francesi, inglesi, tedeschi,
neozelandesi, indiani, polacchi, senegalesi, marocchini, algerini, tunisini,
nepalesi, ecc… Dal luglio del 1943 al maggio 1945, subimmo una durissima legge
del contrappasso: il fascismo che aveva inseguito i suoi deliri imperiali in
terre lontane, portò la guerra sull’uscio delle nostre case, in un turbinio
di stragi naziste (15 mila vittime civili), bombardamenti (65 mila vittime
civili), rappresaglie, battaglie campali. Invasori, liberatori, occupanti,
comunque si chiamassero, le truppe straniere guardarono all’Italia come a un
Paese vinto. E si comportarono di conseguenza. Oggi i luoghi di morte sono
diventati luoghi di memoria. La loro geografia ridisegna la mappa degli sbarchi
(Gela, Salerno, Anzio), le lunghe soste sul fronte della «linea Gustav», poi
l’interminabile inverno sui contrafforti della «linea gotica», il dilagare
delle armate angloamericane nella pianura padana. Sessanta anni dopo in quei
posti ci sono solo cimiteri: l’unico lascito duraturo di tutte le guerre. Sono
cimiteri, ma nessuno è un «campo santo», un luogo esclusivamente consacrato
al dolore e al ricordo. Spesso le loro croci testimoniano odi mai sopiti,
delitti mai espiati. È così per le sepolture delle vittime delle stragi
tedesche. Tra il 1943 e il 1945 la furia dei nazisti contro i civili italiani
fece registrare oltre 400 episodi di uccisioni collettive (con un minimo di 8
morti): alla fine, il totale fu di circa 15 mila vittime. Mai, mai nella nostra
storia una simile violenza si è abbattuta contro gli italiani all’interno dei
confini nazionali. Anche i «ragazzi di Salò» furono coinvolti e la loro
complicità alimenta un ricordo lacerante che resiste a ogni tentativo di «pacificazione».
Il terrore scatenato dall’esercito tedesco contro i civili italiani
rappresenta un fenomeno unico per tre ragioni: l’imponenza delle cifre delle
vittime; la partecipazione attiva di altri italiani; il fatto che tutti quegli
episodi si siano configurati non genericamente come azioni di guerra ma come
crimini in violazione alle leggi vigenti e alle convenzioni internazionali. Dei
400 casi di stragi accertate, solo una decina, però, diedero luogo a un
processo, con condanne esemplari come quelle inflitte a Herbert Kappler per le
Fosse Ardeatine e Walter Reder per Marzabotto. Per il resto, tutti i
procedimenti furono insabbiati e le 15 mila vittime non ebbero giustizia. Fu una
ferita della memoria che a lungo ha pesato sulla possibilità di costruire una
visione solidale della tragedia della guerra civile: le vittime possono anche
perdonare i carnefici, possono anche comprenderne le ragioni, a patto però che
i carnefici paghino le loro colpe, riconoscano i propri torti e che la giustizia
sottragga il contenzioso tra torti e ragioni alle faide e ai rancori privati.
Per quelle stragi non andò così; nel dopoguerra, la Procura generale presso il
Tribunale supremo militare si adoperò per insabbiare e occultare i fascicoli
processuali, garantendo ai colpevoli una totale impunità. E su quelle tombe non
fu possibile nessuna elaborazione del lutto, nessun caritatevole oblio. Ma anche
in tutti gli altri cimiteri la memoria si ostina a restare divisa; gli inglesi
(a Faenza) sepolti tutti allo stesso modo, senza nessuna distinzione gerarchica;
i morti marocchini (a Cassino) «separati» dai francesi, ma con le stesse
lapidi («Mort pour la France»); i giovanissimi ghurka (16 anni, 17 anni…)
distinguibili grazie alle spade incrociate nel marmo, ma anche quelli americani
ad Anzio, i tedeschi sulla Futa: ogni cimitero una concezione diversa della
morte come della politica, della cultura, della storia. Furono nemici allora,
restano diversi ora. Basta girare i cimiteri di guerra per capire come non sia
vero che «i morti sono tutti uguali». Basta leggere i registri dei visitatori,
con le ultime scritte risalenti al dicembre 2002: «Grazie per aver difeso la
mia patria dagli invasori angloamericani. Sieg heil» (cimitero tedesco
al passo della Futa); «Grazie a voi, noi adesso siamo liberi»; «We have not
forgotten» (cimitero alleato a Nettuno); «Li hanno portati dall’India a
morire per la nostra libertà» (Faenza). Ma anche «Warum???» (passo della
Futa).
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da «Diario del mese», 24 gennaio 2003, per gentile concessione |