Diario

Sequenze dal lager «modello».

Aiuole, concerti, deportati ebrei sorridenti... Questo doveva vedere la Croce rossa a Theresienstadt, questo vide. E per depistare i sospetti i tedeschi fecero girare anche un film
di Stefano Liberti

 

Theresienstadt, Cecoslovacchia, 18 aprile 1944. Sul palco del teatro locale va in scena il corpulento Kurt Gerron con il suo spettacolo di cabaret «Karussell». La sala è gremita e la folla sembra divertirsi. Kurt è irresistibile e ogni smorfia, ogni battuta viene salutata da un lungo scrosciare di applausi. Sembra una normale serata di intrattenimento, se non fosse per alcuni dettagli: la scena si svolge in un ghetto chiuso da filo spinato controllato a vista dalle Ss; il teatro è una stanzaccia muffosa e fredda e il pubblico è costituito da ebrei trattenuti coattivamente in questo angolo di Boemia. Theresienstadt quindi non è altro che un tassello di quella topografia del terrore concepita e messa in piedi dai nazisti per risolvere il cosiddetto «problema ebraico». Un tassello tuttavia un po’ particolare: inaugurato alla fine del 1941, questo campo di concentramento a 50 chilometri da Praga nasce come «lager modello», sorta di ghetto felice dove vengono mandati gli ebrei più famosi, intellettuali, uomini di cultura e di teatro, veterani di guerra pluridecorati; tutte persone la cui eliminazione non sarebbe passata inosservata. In questo «Privilegiert-Kz», lager per vip, si incontrano quindi musicisti, attori, pittori, cineasti, scrittori. E la sera si legge, si suona, si fa teatro. Le autorità tedesche tollerano, poi addirittura incoraggiano questo fervore creativo e intellettuale, che gli internati vivono come unico palliativo per esorcizzare il terrore. Viene persino creata un’apposita Freizeitgestaltung (Amministrazione per le attività del tempo libero) che, gestita da altri prigionieri ebrei, deve coordinare e stimolare, se non addirittura imporre, le attività culturali degli internati. Tanta tolleranza, tuttavia, non deve sorprendere. Per i nazisti infatti si tratta di cogliere un’occasione unica: l’opportunità di tendere al mondo un rilucente specchio per le allodole che cercheranno al momento opportuno di trasformare in un formidabile strumento di propaganda. Nel 1941, gli architetti della soluzione finale hanno già cominciato a gettare le basi del loro criminale piano di sterminio. I primi campi di concentramento sono attivi in Germania, Auschwitz entrerà in funzione l’anno successivo, dopo la famigerata conferenza del Grosser Wannsee di Berlino. A Theresienstadt cominciano ad affluire ebrei da gran parte dei territori occupati dall’esercito con la croce uncinata: Boemia, Moravia, Austria, Olanda, Danimarca. Nell’ottobre 1943, la storia di questo lager speciale prende una piega inattesa. In seguito alle proteste del governo danese, che chiede ai nazisti lumi sul destino degli ebrei catturati a Copenhagen, le autorità tedesche decidono di permettere una visita al campo a rappresentanti della Croce rossa internazionale ma non prima della primavera 1944. Nei mesi successivi viene quindi portata avanti a Theresienstadt una frenetica Stadtverschönerungsaktion, un’azione di abbellimento volta a preparare il lager (che verrà da allora in poi eufemisticamente definito jüdische Siedlungsgebiet, centro residenziale ebraico) alla visita della delegazione. Vengono ridipinte le facciate delle case, pulite le strade, piantati fiori, costruita una sala musicale sulla piazza del mercato, riempite di prodotti le vetrine dei negozi. E, come ultimo provvedimento, si decide di porre rimedio al problematico sovraffollamento: 7500 persone sono spedite ad Auschwitz. L’ispezione ha infine luogo il 23 giugno 1944. Nelle tre ore che passano nel campo, i due delegati del governo danese e il membro della Croce rossa internazionale (lo svizzero Maurice Rossell) vedono i prigionieri occupati in normali attività lavorative. Assistono a una partita di calcio, a un concerto di musica sinfonica e alla rappresentazione di un’operetta da parte di un gruppo di bambini. Non si accorgono minimamente del terrore che domina i reclusi, cui era stato imposto di mostrarsi felici sotto minaccia di morte. Dal punto di vista della propaganda nazista, la visita è un successo assoluto. Rossell scriverà un rapporto benevolo, in cui dirà di aver visto «una normale cittadina, con i suoi abitanti e le sue attività». Soddisfatta, la Croce rossa deciderà di abbandonare la sua pretesa di visitare i campi più orientali, in particolare Auschwitz. Tanto perfetta e riuscita è la messa in scena che le autorità tedesche pensano di poterla riproporre su vasta scala: rispolverano così un vecchio progetto di documentario su Theresienstadt e decidono di realizzarlo. Opera di propaganda sui generis, il film doveva mostrare al mondo intero la generosità e la benevolenza dei nazisti nei confronti degli abitanti del jüdische Siedlungsgebiet. Non era quindi destinato al pubblico tedesco: abituato ad opere in cui gli ebrei erano rappresentati in modo caricaturale con caratteri innati di malvagità (come Der ewige Jude e Jud Süss), quest’ultimo non avrebbe potuto tollerare un documentario che mostrava la «bella vita» degli ospiti di questo particolare campo di prigionia. Della regia e della sceneggiatura dell’opera verrà incaricato proprio Kurt Gerron. Cineasta e commediante eclettico, gloria della scena berlinese, indimenticabile Tiger Brown e straordinario interprete della canzone «Mackie Messer» nella prima rappresentazione dell’Opera da tre soldi di Brecht nel 1928, poi mago incantatore accanto a Marlene Dietrich nell’Angelo Blu nonché regista di decine di film della casa di produzione Ufa, Gerron aveva attraversato mezza Europa per sfuggire alla persecuzione delle camicie brune. Dopo l’avvento di Hitler, era riparato a Parigi, poi ad Amsterdam e sempre aveva continuato a calcare le scene. Con l’occupazione dell’Olanda, era stato acciuffato dai nazisti e, alla fine del febbraio 1944, mandato nel «Privilegiert-Kz», in quanto veterano decorato della Prima guerra mondiale e attore di fama. Quando Gerron giunge a Theresienstadt, la Stadtverschönerungsaktion è quasi conclusa, e la Freizeitgestaltung è nel pieno delle proprie attività: ogni giorno si susseguivano spettacoli, conferenze, cabaret, concerti di musica classica e sinfonica, persino serate jazz e manifestazioni musicali dedicate alla Entartete Musik, quella «musica degenerata» che il nazismo aveva messo al bando. Gerron si mette al lavoro e, insieme ad altri noti attori, mette in scena «Karussell», uno spettacolo di cabaret che, nel corso di 15 repliche, riscuote un notevole successo. È a questo punto che i nazisti, riesumata l’idea del film, pensano a lui per la realizzazione. Dell’opera – nota con il suo titolo apocrifo Der Führer schenkt den Juden eine Stadt (Il Führer regala una città agli ebrei) – sono rimasti solo due frammenti: uno è conservato al Bundesfilmarchiv di Berlino, l’altro all’archivio dello Yad Vashem in Israele. Le uniche fonti di cui disponiamo per la ricostruzione del documentario e dei particolari della sua realizzazione sono quindi questi due spezzoni – che coprono circa 23 minuti dell’ora e mezzo dell’originale – , i racconti di un pugno di superstiti e alcuni schizzi di scena che Jo Spier, un noto pittore olandese giunto nel campo verso la fine del 1943, ha disegnato nel corso delle riprese. Si tratta di fonti tutto sommato sufficientemente esaustive, che ci permettono di abbozzare una ricostruzione abbastanza verosimile della struttura dell’opera e del clima in cui essa venne realizzata. Dalle scene disponibili e dai disegni di Spier, sembra evidente lo scopo del film: doveva rappresentare le attività culturali del lager, far comparire – in modo fugace come comparse o più strutturato come attori veri e propri – gli ebrei più noti rinchiusi nel campo, mostrare un’atmosfera ludica e allegra. Si trattava insomma di riproporre su celluloide la pantomima che aveva caratterizzato l’ispezione della Croce rossa, riproporre quella specie di modello di shtetl paradisiaco che così buona impressione aveva suscitato sui delegati in visita. Nell’agosto del 1944 si comincia a girare. Il ghetto viene trasformato in un gigantesco panopticon, in cui ogni recluso diventa attore di un se stesso proiettato in una sorta di mondo ideale. «Le riprese erano un grosso assurdo teatro, in cui ognuno era guidato da un unico sentimento: la paura. Non c’era altro linguaggio a Theresienstadt se non la paura. E questa paura dominava anche Gerron». Quest’affermazione proviene da uno dei pochissimi testimoni esterni: Ivan Fric, cameraman di Praga, incaricato delle riprese sotto la direzione formale di Gerron e la supervisione di fatto delle Ss. Fric descrive con dovizia di particolari il clima di terrore che dominava il set e il controllo incessante e pervasivo dei nazisti. La sua è una descrizione lucida, sincera e partecipata. Ma per certi versi manchevole: Fric non si spinge al di là della superficie, non sembra cogliere l’atmosfera particolare che caratterizzava questo singolare campo di prigionia. Intendiamoci, è indubbio che a Theresienstadt dominava la paura, come è innegabile che le condizioni di vita erano terribili, segnate dalla fame, dalla malattie, dagli stenti e dalle privazioni. I numeri parlano da soli: delle 141 mila persone che passano per il campo di prigionia tra il 1941 e il 1945, 33.430 sono morte lì per le drammatiche condizioni di vita e 88 mila vennero mandate nei campi di sterminio di Auschwitz, Majdanek e Treblinka. Tuttavia, a leggere le testimonianze dei pochi sopravvissuti, non si riesce proprio a ridurre le molteplici forme di espressione artistica fiorite nel «Privilegiert-Kz» al risultato delle operazioni coercitive compiute dai nazisti per i loro fini propagandistici. Nelle parole di molti ex reclusi, il teatro, la musica e persino le riprese del film assumono una straordinaria funzione lenitiva della difficoltà della detenzione, diventano piccoli e irrinunciabili spicchi di normalità in un’esistenza segnata dalla sofferenza e dalla paura. «Quando cantavamo, dimenticavamo la fame, dimenticavamo dove ci trovavamo», racconta Ela Stein Weissberger, che era bambina quando venne mandata a Theresienstadt con la famiglia. Non solo, ma quella paura così palpabile per Fric, si era trasformata in alcuni casi in formidabile pulsione creativa: Viktor Ullmann, celebre musicista austriaco, comporrà proprio in questo campo di prigionia alcune tra le sue migliori sinfonie e persino un’opera eccezionale (Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung, L’imperatore di Atlantide o il rifiuto della morte), una lucida metafora della folle ascesa del nazismo che, raffigurando un grottesco personaggio bramoso di conquistare il mondo, susciterà le ire e la censura delle Ss. A differenza di Ullmann, che operò una forma estrema di resistenza artistica, il comportamento di Gerron fu, almeno apparentemente, meno nobile: si piegò ai desideri dei suoi carcerieri con la speranza di aver salva la vita. Ancora una volta, tuttavia, la lettura dei racconti dei superstiti ci spinge verso un’interpretazione diversa. A quanto riferisce l’attrice Nava Shan, il cineasta «si comportava come se fosse regista in un grosso studio dell’Ufa, era completamente ossessionato dal suo lavoro e aveva dimenticato dove si trovava e che tipo di film stesse girando. Sembrava solo felice di svolgere ancora il proprio lavoro». Diverse testimonianze sembrano concordare: Gerron attuò il compito che gli era stato riservato con un perfezionismo quasi maniacale. Girava e rigirava le scene, sceglieva con cura le inquadrature, indugiava su dettagli di poco conto. Forse voleva tirare per le lunghe le riprese, ritenendo che finché il film non fosse concluso nulla potesse accadergli. Ma, più probabilmente, qualcosa di diverso era scattato nella sua mente: dai racconti lividi dei sopravvissuti sembra veramente che Gerron avesse finito per credere nel progetto e si fosse ripromesso di condurlo in porto nel miglior modo possibile. Da questo punto di vista, il suo atteggiamento sembra folle, ma rappresenta nondimeno una manifestazione estrema della straordinaria capacità di estraniazione di un essere umano di fronte a una situazione altrimenti insostenibile. Per sublimare il terrore di una morte incombente, Gerron si rifugiò nell’arte, persino in un simulacro di arte come era quella impostagli dai nazisti. Il film venne concluso nel dicembre 1944 e montato a Praga all’inizio del 1945. Di esso furono organizzate quattro visioni private a Theresienstadt, destinate a pochi spettatori. La sua funzione propagandistica era stata resa vana dall’evolversi degli eventi e dalla piega presa dalla guerra: avanzando sul fronte orientale, l’Armata rossa aveva liberato i campi di sterminio, rivelando al mondo intero l’orrore della Soluzione finale. Quanto a Gerron, non poté mai vedere l’opera che aveva girato. Spedito ad Auschwitz poco prima della fine delle riprese, morì in una camera a gas il 15 novembre 1944.

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da «Diario del mese», 24 gennaio 2003, per gentile concessione

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