Diario

Gli scafisti della Shoah.

L’autore ci racconta di come un giorno, dopo la guerra, si trovò a essere armatore. Comprava navi, per far entrare clandestinamente in Palestina gli scampati al massacro

di Dario Navarra

 

Anni Cinquanta, Haifa. In un angolo del porto, attraccate a un molo in disuso, alcune decine di strane navi, di dimensioni diverse, dalle forme antiquate: alcune immigrate dalla navigazione lacustre americana, altre, grossi pescherecci, vecchie navi da carico. Salendo a bordo una caratteristica comune: le stive trasformate in dormitori con castelli di legno per ospitare centinaia di cuccette. Sono i resti gloriosi della flottiglia che trasportò dopo la fine della guerra migliaia di profughi, superstiti alla Shoah, dai campi di smistamento di Francia e Italia alla loro nuova patria, Palestina allora, Israele poi – immigrazione illegale, perché la potenza Mandataria, l’Inghilterra, limitava a cifre irrisorie il permesso d’entrata nel Paese che lei stessa Inghilterra si era impegnata a riconoscere come National Home al popolo ebraico. Estate 1945, anni 1946 e 1947. Centro di Milano, via Unione 5, la ex Casa del Fascio trasformata in centro di raccolta, centro nevralgico del movimento dei profughi che dall’Europa centrale si riversavano verso le coste mediterranee per proseguire per la Palestina. L’Organizzazione era in mano a inviati palestinesi, molti di loro soldati della Brigata Ebraica e delle Unità Palestinesi che avevano combattuto con l’Ottava Armata Britannica in Africa e Italia; a questi si erano uniti molti volontari di enti locali ebraici e non. Facendo parte di una organizzazione sionistica pionieristica ebbi la ventura di vivere da vicino e di persona questa esperienza. Le navi venivano acquistate dall’Organizzazione, inviate poi in cantieri nascosti per il riarmo e per l’adattamento alle nuove esigenze. La compera veniva fatta da cittadini italiani; così fu che mi trovai armatore e proprietario di un paio di barche. A capo di tutto il complesso di operazioni un capacissimo palestinese, Jehuda Arazi, soprannominato il Vecchio (avrà avuto cinquant’anni ) – sua assistente una mitica figura, Ada Sereni, romana di origine, membro fondatore del più grande kibbutz di Palestina/Israele – moglie, vedova di Enzo Sereni, una delle più belle figure del Movimento Operaio e pionieristico, deceduto a Dachau dopo essersi fatto paracadutare, con altri, dietro alle linee tedesche, nel tentativo di salvare vittime dalle grinfie naziste. Ada, venuta in Europa a cercare Enzo, si dedicò all’organizzazione dell’immigrazione illegale. Ada era a Milano, con la copertura di ufficiale dell’esercito inglese con la funzione di direttrice di un club per truppe palestinesi: via Cantù a due passi dal Duomo e da via Unione. Mi chiamò un giorno. Mi diede una valigetta piena di banconote, quei famosi lenzuoli delle mille lire, un biglietto di vagone letto per Bari e l’indirizzo di un albergo e di un ufficio. Per fortuna con me c’era un avvocato romano – a turno si vegliava la valigetta. Era un’epoca turbolenta, agitata sia pur splendida per l’atmosfera di rinascita, di costruzione, di speranza. La transazione fu veloce – non vidi nemmeno i miei natanti. Alcuni anni dopo mio padre ebbe la spiacevole convocazione di agenti del fisco per tassare suo figlio proprietario di navi! Ne uscimmo per miracolo. Una volta lì a Bari ebbi un altro incarico; seguire l’imbarco di una nave in partenza quella notte da una spiaggia della zona; fui incaricato di restare sulle strade conducenti al punto d’imbarco per trattenere eventuali curiosi. L’operazione doveva essere clandestina di fronte alla forze di occupazione inglesi che cercavano con ogni mezzo di ostacolare questo flusso di immigranti clandestini in Palestina. La mia arma erano banconote assai efficaci sempre ma sopratutto in quel periodo di miseria. Vi era anche uno strano conflitto di interessi e questa volta con elementi italiani; era l’epoca della fuga di gerarchi e militanti fascisti verso la Spagna, anch’essi per nave; dovevamo barcamenarci informando certi funzionari del Pci e del Psi che erano attivi cacciatori di clandestini per evitare malintesi e reciproco disturbo. Venne il mio turno di partire. Da Milano fui dirottato a Bari in treno, da lì a Metaponto con alcuni palestinesi per organizzare il luogo di imbarco: una spiaggia isolata, enorme, con dei capannoni tipo hangar di lamiera – pronti a ospitare centinaia di profughi. Installammo cucine da campo, e servizi dei più primitivi. Arrivarono di notte dopo non so quante ore di viaggio su camion militari inglesi con la Stella di Davide sulle porte. Furono fatti scendere a lume di torce: donne, uomini, bambini, vecchi – miscuglio di lingue, divisi a seconda di organizzazioni politiche e/o religiose: ognuno con un minimo bagaglio che era tutto il loro avere, trascinato da migliaia di chilometri dopo aver attraversato due tre quattro confini. Come unici documenti, il marchio sul braccio e la carta Displaced Person. La vita al campo era organizzata: l’attesa snervante, l’isolamento completo dal mondo; a mezzanotte un treno saliva verso nord e lo si sentiva a distanza sbuffare e fischiare – si scrutava ogni indizio che potesse indicare la partenza – un giorno arrivò Ada Sereni… La voce si sparge – si parte.  All’una di notte tutti furono fatti alzare, incolonnati sulla spiaggia; là in fondo sul mare la sagoma di una nave; a gruppi di 20 salimmo sulle scialuppe – più di trenta traghetti di una ventina di minuti l’uno – nel silenzio più completo – ordini bisbigliati; io ero l’ultimo della lunga fila. Dietro di me buio e vuoto. Issati a bordo col sacco, indirizzato a un castello, una cuccetta stretta; sopra di me, tre piani, sotto, due. Tenua luce nella stiva – relativo silenzio – ogni tanto qualche pianto di bimbo, litanie dei religiosi che pregano – ordini in yiddish – eravamo sette del gruppo di italiani ed ero l’unico che in qualche modo capiva l’yiddish dai ricordi scolastici di tedesco. Un paio d’ore di attesa e poi lentamente si parte – non si può salire in coperta fino a che saremo in mare aperto. Dopo qualche ora si scatena una tempesta: la nave balla, rulla, sale e scende – vento, pioggia – la gente sta male, io compreso. Tutti alla ricerca del sacchetto provvidenziale. Non posso dimenticare la voce in yiddish di un vecchio che mi chiama, implorante «chaver, chaver» (compagno) un sacchetto; la tempesta non si placa; si aggiunge un guasto meccanico; durante la seconda notte riescono a far entrare la nave nel Golfo di Taranto, in un angolo del porto; si torna in equilibrio, ma è proibito uscire a respirare: poco distante una nave da guerra inglese. Un altro giorno – non si respira. Uno per volta si sale alle latrine; ebbi un magnifico incarico di fiducia; distribuire a ogni entrante i foglietti di carta igienica razionati; questo mi permise di stare fuori a godere la brezza del Golfo; durante la notte ordine di ripartire. I capi non si sentono di poter continuare con la barca mal messa, la gente esausta. Si torna a Metaponto in attesa di un’altra nave; mi viene un attacco di itterizia e mi rispediscono a Milano. Quella nave fu riassestata e partì più tardi ed ebbe fortuna – riuscì a eludere la caccia degli inglesi e sbarcò clandestinamente il suo carico di immigranti sulle coste di Palestina dove furono immediatamente accolti e integrati dalla popolazione locale… in barba agli inglesi. In quanto a me tornai a Milano e ci riprovai una seconda volta. E fu più facile. Ci imbarcarono a 150 km a sud di Genova – ne ho conservato un diario tratto da lettere che scrissi giornalmente a casa, usando un rotolo di carta igienica americana. Nave grande, solida, made in Usa. Ex nave lacustre; equipaggio pure americano; 1416 persone accatastate, ma assai meglio dell’esperienza precedente; viaggio favorito da tempo splendido, giugno-luglio 1947. Passato lo stretto di Messina. Trovo scritto nel diario di allora: «Strana questa Nave che va col suo carico umano verso una meta forse bella, ignota e che fa spavento». Dopo i primi giorni cominciano i preparativi per accogliere gli inglesi nel caso assai probabile che ci scoprano. Sempre dal diario: «Ultimo giorno, ore 11 – ci siamo avvicinando, ancora 12 ore – davanti a noi la costa siriana – primo impatto col Medio Oriente – terra sembra bruciata, pochi alberi sparsi». Tutti sono in stiva ma riesco a sgattaiolare su: dal primo giorno ebbi la fortuna di essere stato arruolato da un fuochista americano con il quale dividevo i turni di guardia in caldaia. «Merde, alle 11 e mezzo un Liberator inglese ci ha individuato; ci sorvola a bassa quota: i tre cerchi della Raf, il viso degli aviatori – passa e ripassa». Dopo poco due cacciatorpediniere si accostano, ci scortano fino alle acque territoriali. Tutta la gente sale sui ponti, cantano a squarciagola. Cosa succederà? Ci sarà violenza? Il capitano della nave ha fatto issare il vessillo bianco e azzurro con la stella di Davide. La nave riceve un nome ebraico: Hatikva – Speranza. Arrivati nelle acque territoriali i due caccia si avvicinano. Vi è stata una specie di collisione: i soldati inglesi saltano a bordo armati di tutto punto. Dai caccia puntano idranti su di noi; gettano qualche bomba lagrimogena – sono ragazzi giovani – alcuni armati di bastoni – dopo pochi minuti sono padroni della situazione – la nave oscilla paurosamente – donne urlano. Gli inglesi di rimando: «Sit down». Su ordine dei comandanti ebrei le macchine erano state rese inservibili: attaccano un rimorchiatore che ci porta in porto. Qualcuno cerca di buttarsi in acqua, motoscafi della polizia lo riacciuffano. Sulla banchina folla di cittadini di Haifa che cantano l’inno nazionale; dalla nave che ne porta il nome («Hatikva») si risponde. È calata la sera, a mezzanotte si sbarca. Alcuni si rifiutano e viene usata la forza; si scende, mi prendono il sacco grosso – il piccolo me lo tengo – si passa una spruzzata di Ddt. Si viene diretti a un altra nave lì accanto – destinazione campi di concentramento di Cipro. Una notte di viaggio ingabbiati nella stiva di una Victory, tipo assai noto allora di navi che rifornirono l’Inghilterra durante la guerra. Poi 11 mesi, prigioniero e ospite di S.M. britannica nei campi vicino a Famagosta. Prime esperienze di un ebreo italiano in mezzo all’ebraismo europeo, tra i profughi provenienti da Polonia, Russia Romania etc.. Primi incontri con gli israeliani inviati nei campi per aiutare, istruire, curare, instradare a divenire cittadini dello Stato in fieri. Il 23 aprile 1948 arrivai a Haifa. I primi trasferimenti su autobus blindati – gli scontri erano già iniziati – dopo due settimane la proclamazione dello Stato ebraico e fu la Guerra che ancora non è finita.
PS: In queste righe ricorre spesso il termine Palestinesi che vuole indicare gli ebrei del futuro stato, gli Israeliani del dopo 15 maggio.

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da «Diario del mese», 24 gennaio 2003, per gentile concessione

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