Diario
I fuggitivi di Auschwitz
Il
7 aprile del 1944 due ebrei evasero in modo rocambolesco dal sottocampo di
Birkenau, e raccontarono cosa avevano visto e passato. Così la notizia venne
accolta nel mondo...
di Liliana Picciotto
Il
nome di Auschwitz, e ancor di più del suo sottocampo Birkenau, rimase ignoto
all’Occidente per ben due anni dall’inizio dell’assassinio di massa che i
tedeschi vi stavano perpetrando dal marzo del 1942. Nel giugno del 1942 erano
giunte voci sulle esecuzioni in massa di politici polacchi ma nulla più, le
notizie non facevano ancora riferimento al genocidio della popolazione ebraica
attuata a Birkenau, ignoto probabilmente allo stesso movimento di Resistenza del
campo. Poco dopo, il 29 luglio, un’altra traccia: un industriale tedesco che
aveva accesso alle più alte autorità naziste di nome Eduard Schulte, in
viaggio a Zurigo, raccontò che un piano era stato discusso al quartier generale
di Hitler per l’assassinio di 3.5-4 milioni di ebrei deportati preventivamente
nei territori dell’Est. Schulte pregò l’amico con cui era in contatto di
mettere sull’avviso sia le organizzazioni ebraiche, sia le cancellerie
occidentali. Di Auschwitz e di Birkenau però, come luoghi legati al genocidio,
non circolò allora nessuna notizia. Il primo, confuso, riferimento ufficiale a
Birkenau, in uno dei rapporti che le organizzazioni ebraiche internazionali
stilavano periodicamente sul destino degli ebrei d’Europa, comparve in
relazione alla deportazione degli ebrei dal ghetto di Theresienstadt, in Boemia.
Il 6 settembre 1943, due trasporti erano giunti a Birkenau e i deportati erano
stati incoraggiati a inviare cartoline postali ai loro parenti e amici a
Theresienstadt stesso o in Cecoslovacchia. L’indirizzo dei mittenti delle
cartoline-beffa, che servivano a dimostrare che i deportati erano in vita e
stavano relativamente in buone condizioni, era «Birkenau, bei Neuberun, Ost
Oberschlesien» (Neuberun era in effetti una cittadina a qualche miglio di
distanza da Birkenau). Nessuna istituzione occidentale aveva fino ad allora
messo in relazione il nome di Auschwitz che cominciava a ricorrere nelle
informative, con Birkenau, né quest’ultimo con lo sterminio. Molto più
tardi, nel marzo del 1944, ambienti della resistenza polacca riuscirono a far
sapere al console polacco a Istanbul che tra l’estate del 1942 e l’autunno
del 1943, 850 mila ebrei erano stati gassati ad Auschwitz (nessuna menzione
venne fatta di Birkenau). Per la prima volta fu rivelato dove fossero spariti
gli ebrei caricati sui treni dei vari Paesi occupati e diretti «verso ignota
destinazione». Anche questa volta, benché la notizia fosse stata pubblicata in
polacco sul Bollettino del consolato, non fu notata, né dagli Alleati, né
dalle organizzazioni ebraiche. Il 24 marzo 1944, il presidente degli Stati
Uniti, tenendo conto delle informazioni giuntegli da varie fonti fin dagli inizi
del 1942 sull’assassinio degli ebrei in Polonia, ma senza riferimenti
specifici a luoghi e situazioni, dichiarò che chiunque avesse partecipato alle
deportazioni degli ebrei verso la loro morte in Polonia sarebbe stato, dopo la
guerra, punito. Nel medesimo senso si espresse il ministro degli Esteri inglese
Anthony Eden qualche giorno dopo. In nessuna delle due dichiarazioni si fece
però menzione né di Auschwitz, né di Birkenau. La stessa mancanza di
riferimenti precisi al campo di sterminio si nota nella riunione che
rappresentanti delle organizzazioni ebraiche internazionali tennero a Ginevra ai
primi di aprile 1944 con diplomatici statunitensi durante la quale si parlò
soprattutto della tragica sorte degli ebrei della Transdnistria e degli impianti
di sterminio di Treblinka. Ci volle il rapporto di Walter Rosenberg (alias
Rudolf Vrba) e di Alfred Wetzler (due ebrei addetti alle registrazioni dei nuovi
prigionieri) della fine di aprile 1944 perché la realtà venisse completamente
alla luce. Questi due evasi da Birkenau rivelarono che cosa stava succedendo
dentro alla cosiddetta «Zona di interesse» di Auschwitz, la vasta area attorno
al campo resa deserta dalle autorità tedesche per non permettere nessun
contatto tra i prigionieri ivi deportati e la popolazione civile circostante. Ma
come si erano svolti i fatti? Come erano fuggiti i due? Diciamo subito che gli
evasi dal complesso del campo di Auschwitz e dei suoi numerosi sottocampi non
furono tanti, su un totale di più di un milione di prigionieri si contano 667
fuggitivi, di cui 270 ripresi e messi a morte, gli altri, quasi tutti
appartenenti alla resistenza polacca, o prigionieri di guerra sovietici
riuscirono nel loro intento. Gli ebrei, benché costituissero la grande
maggioranza della popolazione prigioniera, non avevano nessuna possibilità di
fuga perché mancavano loro due elementi fondamentali: il contatto con la
popolazione fuori dal campo che potesse dare una mano per prestare aiuto,
ricovero, cibo, vestiti e denaro; la possibilità di girare con una certa
facilità all’interno di Auschwitz o di Birkenau con mansioni di «alto
grado», così venivano chiamati gli elettricisti, i falegnami, i portatori di
cadaveri, gli infermieri e i lavoratori specializzati. Solo a partire dal 1943,
in effetti, gli ebrei ebbero accesso a posizioni del genere nella gerarchia dei
prigionieri e solo allora, con un minimo di possibilità di movimento,
iniziarono a pensare alla fuga. Oltre a ciò, la sorveglianza era strettissima:
oltre alla zona di sicurezza di quaranta chilometri quadrati, barriere di filo
spinato percorse da corrente elettrica e potentemente illuminate anche di notte,
torrette di guardia ogni 50 metri lungo il perimetro, unità speciali munite di
cani alsaziani appositamente addestrati in un canile interno al campo, una
rigida disciplina interna gestita da un’organizzazione piramidale dei
prigionieri stessi, resi responsabili e duramente puniti per ogni infrazione
commessa da terrorizzati sottoposti. Vrba e Wetzler, rinchiusi ad Auschwitz
dalla metà del 1942, il 7 aprile del 1944, dopo minuziosi e lunghi preparativi,
dopo essersi assicurati la complicità della squadra di prigionieri addetta al
deposito della roba rapinata ai deportati continuamente messi a morte al loro
arrivo («Canada») che fornì loro abiti borghesi, cibo e una mappa dei
dintorni, riuscirono in maniera rocambolesca a fuggire dal campo. Di turno alla
fabbricazione delle baracche nel campo in costruzione di Birkenau (BIII),
chiamato «Mexico», alla sera, invece di rientrare con le squadre di lavoro, si
buttarono in una buca precedentemente scavata, coperta da una pila di legname, e
vissero là per tre giorni e tre notti, senza respirare mai aria fresca, mentre
le sirene del campo annunciavano, con il lacerante suono che faceva tremare
tutti i prigionieri, la loro mancanza. Le Ss dettero loro la caccia con i cani,
ma alla fine del terzo giorno si dettero per vinti. I due coraggiosi uscirono
dal loro nascondiglio in piena notte e si diressero verso la frontiera
polacco-slovacca, dopo 15 giorni di un disperato percorso a piedi, il 25 aprile,
raggiunsero la Slovacchia dove furono accolti da un generoso contadino locale.
Nella cittadina di Zilina, riuscirono a mettersi in contatto con notabili ebrei
in clandestinità. Il 27 avevano già preparato un rapporto scritto. Era stato
chiesto loro di redigerlo separatamente in due stanze diverse. Così fu fatto.
Alla fine i due memorandum furono riuniti in un unico testo di 60 pagine
dattiloscritte, parzialmente in slovacco, parzialmente in tedesco. Il loro fu il
primo dettagliato resoconto sul meccanismo dello sterminio di massa applicato
dentro a Birkenau, luogo fino ad allora quasi totalmente ignoto agli osservatori
occidentali. Essi descrissero il campo, la sua planimetria, i suoi impianti di
sterminio, l’organizzazione interna e il servizio di sorveglianza, il sistema
della numerazione dei detenuti, la vita di ogni giorno, le reazioni degli Ss
alle fughe dei prigionieri, le selezioni iniziali sulla banchina di arrivo (le
rampe), le selezioni interne, le punizioni, le uccisioni, le uccisioni di massa
con il gas. Il proposito del rapporto fu di avvertire il mondo occidentale e
indurlo a intervenire. Entro la fine di aprile del 1944, raggiunse i leader
delle comunità ebraiche a Bratislava e Budapest. In Ungheria, dove il 15 maggio
erano iniziate le massicce deportazioni verso Auschwitz il rapporto iniziò a
circolare solo nel giugno successivo, mentre in Slovacchia esso fu subito
consegnato dai due leader, il rabbino Michael Dov Weissmandel e Gisi Fleischmann,
a Giuseppe Burzio, l’incaricato d’affari vaticano a Bratislava. Sembra che
monsignor Burzio abbia mandato il rapporto in Vaticano il 22 maggio 1944 ma che
questo raggiunse la destinazione solo alla fine di ottobre. Un’altra copia del
rapporto Vrba-Wetzler, inviato tramite la resistenza slovacca, raggiunse Jaromir
Kopecki, rappresentante diplomatico del governo slovacco in esilio di stanza in
Svizzera. Il messaggio raggiunse il segno, Kopecki si mise subito in contatto
con Fritz Ulmann, rappresentante dell’Agenzia Ebraica per la Palestina e con
il segretario del Congresso Mondiale Ebraico Gerhart Riegner di stanza a
Ginevra. Nello stesso tempo fece pervenire il rapporto, come richiesto da
Weissmandel e Fleischmann, assieme alla loro lettera datata 22 maggio 1944, al
rabbino Shoenfeld di Londra. L’annientamento dell’ebraismo ungherese era
ormai inesorabilmente in corso, Kopecki incluse nel messaggio i suggerimenti dei
due leader slovacchi affinché: 1) il Foreign Office informasse gli altri
governi alleati, soprattutto quelli che avevano loro cittadini rinchiusi nel
campo e che indirizzasse un ammonimento ai tedeschi e agli ungheresi secondo cui
i tedeschi che erano nelle mani dei governi alleati avrebbero subito delle
ritorsioni, 2) si bombardassero i crematori, distinguibili dalle alte ciminiere
e dalle torrette di guardia, 3) si bombardassero le maggiori vie di
comunicazione tra la Slovacchia e l’Ucraina Subcarpatica, 4) si usasse il
rapporto per una larga campagna di sensibilizzazione, senza citarne la fonte, 5)
si rendessero pubblici gli ammonimenti a tedeschi e ungheresi, 6) si chiedesse
al Vaticano di pronunciare una dura condanna pubblica, 7) il Foreign Office
informasse il Congresso Mondiale Ebraico e l’Agenzia Ebraica di Londra. Il 26
maggio Kopecki mandò un estratto del rapporto anche al governo cecoslovacco in
esilio a Londra aggiungendovi la testimonianza di un terzo transfuga da
Auschwitz, Jerzy Tabeau, un ufficiale dell’esercito polacco che il 19 novembre
del 1943 era riuscito a evadere con l’assistenza della Resistenza del campo.
Kopecki si mise poi in contatto, assieme a Riegner, sia con il rappresentante a
Londra del War Refugee Board, sia con il Comitato della Croce rossa
internazionale. Questa volta Kopecki fu in grado di fornire notizie anche sulle
tragiche deportazioni dall’Ungheria, iniziate il 15 maggio, che il rapporto
Vrba-Wetzler non dava perché precedente a tale avvenimento. In effetti due
altri ebrei erano riusciti a fuggire da Auschwitz il 27 maggio e avevano
raggiunto la Slovacchia il 6 giugno 1944, rifacendo la stesso percorso di Vrba e
Wertzler. Erano il polacco Czeslaw Mordowicz e il cecoslovacco Arnost Rosin che
dettero un resoconto dei primi arrivi degli ebrei ungheresi e della loro
uccisione di massa. Essi si incontrarono con i primi due fuggitivi nel loro
rifugio a Liptovsky Svaty Mikulas, ai piedi dei monti Tatra. Nel frattempo un’altra
edizione, abbreviata e in inglese, del rapporto inviato il 19 giugno da Moshe
Kraus dell’Ufficio palestinese a Budapest (si noti che a quel tempo,
«palestinese» significava «ebraico di Palestina», non arabo), completo del
racconto delle deportazioni dall’Ungheria, raggiunse la Svizzera. Essa
conteneva la notizia che più di 430 mila ebrei erano stati deportati dall’Ungheria
verso Birkenau. Il rapporto arrivò sotto gli occhi del giornalista inglese
Walter Garrett. Da allora vari servizi furono diffusi attraverso Radio Londra, e
articoli sul genocidio in atto ad Auschwitz apparvero sulla stampa inglese e
svizzera. Il rapporto fu poi inviato, alla fine di giugno, personalmente da
Kopecki a Londra al presidente della Repubblica cecoslovacca in esilio Edvard
Benes, che a quell’epoca ne era già al corrente. Il 4 luglio 1944, questi
rivolse un appello ai governi alleati per un intervento diretto con ammonizioni
alla Germania, in favore di bombardamenti sui crematori di Auschwitz e sulla
linea ferroviaria. La risposta del Foreign Office, del 29 luglio, alla nota
cecoslovacca, dopo consultazione con gli Stati Uniti, fu sconsolante: si
assicurava che «erano state prese tutte le misure necessarie per il salvataggio
delle vittime», misure che però corrispondevano soltanto all’impegno nel
portare avanti la guerra con successo. I rapporti dettero origine a una
relazione pubblicata a Washington a cura dell’Executive Office of the
President del War Refugee Board nel novembre del 1944 in 59 pagine (Documento
presentato al processo di Norimberga NO 022-L). Contemporaneamente il rapporto
fu pubblicato anche in Svizzera in due diverse versioni, l’una dal titolo L’éxtérmination
des Juifs en Pologne. Depositions
et temoins oculaire, pubblicata a Ginevra a cura del dottor A.
Silverschein, un’altra dal titolo Souvenirs de la maison des morts. Le
massacre des Juifs
in 76 pagine senza data e senza luogo di edizione, ma di sicura origine
svizzera. La stampa americana prese coscienza del contenuto dei rapporti dei
cinque fuggitivi di Auschwitz solo sette mesi dopo la loro redazione. Dopo la
pubblicazione del War Refugee Board, il New York Times ne pubblicò un
ampio estratto. Troppo tardi perché la commozione dell’opinione pubblica
potesse influenzare le decisioni alleate di non bombardare Auschwitz e quindi,
di non salvare almeno gli ebrei ungheresi.
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