Diario

Il secolo di Hitler e Stalin

Il totalitarismo è stata la malattia del Novecento: occorre indagarne il versante «criminale» ma anche la perversa capacità di attrazione. Lo fa Todorov nel suo ultimo libro  

di Marcello Flores

 

L’interesse per il totalitarismo sembra essere stato soppiantato, negli ultimi mesi, da quello per il fondamentalismo. Con una preoccupante conseguenza: che i due fenomeni vengono spesso sovrapposti, intrecciati, confusi, diventando semplicemente sinonimo del «male», della «barbarie» del secolo, della deriva criminale cui portano le ideologie più estreme. Questo avviene, purtroppo, e quasi per una nemesi di cui è vittima l’intelligenza, mentre escono, finalmente, libri e studi che sul totalitarismo offrono nuovi documenti e interpretazioni, analisi e sintesi. «Totalitarismo» è insieme un concetto storiografico, con pretesa di scientificità, e un termine entrato ormai nel vocabolario e nel senso comune a indicare le principali dittature del Novecento. Ancora si discute se esso sia uno strumento tuttora utile per l’analisi o buono soltanto per una definizione sommaria e riassuntiva e quindi necessariamente schematica. Qualunque idea teorica di totalitarismo si preferisca adottare, nessuno può negare che ognuna di esse abbia un rapporto evidente con una o più delle grandi esperienze del XX secolo. La novità storica e politica del totalitarismo, che lo fa appartenere unicamente al Novecento, è l’avere costituito non solo una dittatura politica, ma anche un dominio economico, culturale, sociale, finalizzato a un controllo totale sull’uomo e sulla storia. Comunque si giudichi il ruolo e il peso dell’ideologia all’interno delle esperienze totalitarie, non si può disconoscere che tutte hanno trovato un punto di riferimento nel soggettivismo e nel volontarismo di dottrine politiche e filosofiche che ambivano a dominare il corso della storia e a piegarlo a fini tra loro diversi ma ugualmente totalizzanti. La comparazione è l’unico strumento capace di offrire un’adeguata comprensione delle somiglianze e delle differenze delle diverse esperienze storiche; e insieme di mettere continuamente a punto, indicandone e superandone i limiti, le categorie concettuali necessarie a leggere la storia. È uno strumento essenziale ma difficile da usare, perché necessita di continui e successivi confronti: fra il contesto storico complessivo e le singole esperienze; tra aspetti, figure, momenti, strutture, istituzioni interne a queste ultime; fra l’immagine di sé e la percezione esterna. Nel caso dei totalitarismi non si può sfuggire alla cornice epocale e geografica rappresentata dalla Grande guerra, al ruolo dei movimenti culturali e politici formatisi a cavallo dei due secoli, all’orizzonte nuovo caratterizzato dalla società di massa e dal dinamismo caotico che l’accompagna, alle forme assunte da una modernizzazione che tocca spesso trasversalmente regimi politici antagonisti e storie nazionali divergenti. Tutti i totalitarismi hanno alle spalle una crisi strutturale profonda, di origine più o meno lontana, e il decisivo intervento soggettivo di movimenti rivoluzionari «nuovi», anche se con forti legami con la tradizione socialista o con quella nazionalista. In tutti, il ruolo della personalità del (o dei) leader è importante quanto quello delle strutture economiche e sociali o della realtà politica e culturale. La categoria di totalitarismo è stata in genere più utile ad analizzare il carattere «criminale» delle dittature di massa di questo secolo che non a spiegare la loro capacità d’attrazione; a individuare le forme della coercizione più che le modalità dell’adesione. Da questo punto di vista il legame con la più generale esperienza della modernità non può essere rimosso o accantonato: di essa il totalitarismo fa parte, sia pure come mutazione, esasperazione o accentuazione di alcuni caratteri che, tanto nelle previsioni auspicate quanto nei risultati raggiunti, appaiono come originali innovazioni. La definizione prevalentemente in «negativo» dei regimi totalitari – come distruttori e antagonisti della democrazia liberale e parlamentare – ha rappresentato un forte limite all’uso analitico e dinamico di questa categoria. La tentazione, giustificata sul piano etico-politico ma poco produttiva su quello storiografico, di contrapporre il «valore» della democrazia al «disvalore» del totalitarismo ha impedito a lungo di guardare alla globalità di quelle esperienze per comprenderne l’essenza e i caratteri. Le categorie dell’antifascismo e dell’anticomunismo, comunque le si voglia e possa giudicare sul terreno morale, politico e ideologico, ma anche per il ruolo storico da esse rivestito in questo dopoguerra, hanno rallentato la possibilità di approfondire la natura dei regimi totalitari e individuare il loro legame con il mondo moderno e la società contemporanea. Nel suo ultimo libro (Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti) Tzvetan Todorov è andato alla ricerca della relazione – contraddittoria e complessa – che l’occidente liberale e democratico ha avuto con il totalitarismo: per poter meglio guardare dentro lo stesso Occidente e cogliere le debolezze e aporie della democrazia, soprattutto rispetto al terreno – quello dell’identità – su cui il totalitarismo ha saputo inventare risposte capaci di attrarre consenso, entusiasmi, adesioni a dispetto delle tragedie che imponeva alla collettività. Todorov, che prende in considerazione in modo prevalente l’esperienza nazista e quella comunista a riassunto dell’intero totalitarismo contemporaneo, individua nel loro «particolarismo» ammantato da falso universalismo, nel loro essere al tempo stesso antimoderni e ultramoderni, fatalisti e volontaristi, alcune delle caratteristiche che contribuiscono a fare di quei regimi tanto una «ideocrazia» quanto una «statocrazia». E lo fa, mirabilmente, attraverso biografie esemplari – per la loro profondità, ricchezza, moralità e complessità – di intellettuali e scrittori che hanno attraversato il totalitarismo da testimoni privilegiati, come vittime o come osservatori angosciati, in ogni caso come persone che hanno trovato, accanto alla forza di combatterlo, la capacità di analizzarlo e comprenderlo. Vasilij Grossman, Margarete Buber-Neumann, David Rousset, Primo Levi, Romain Gary, Germaine Tillion sono le figure attorno a cui Todorov ricostruisce la filigrana del secolo, esaminando il peso del passato nel presente, il suo eccesso o la sua mancanza, affrontando il modo in cui la democrazia deve fare i conti con la stessa problematica morale e politica che i totalitarismi hanno risolto in modo univoco, violento, tragico e sanguinario. L’analisi del totalitarismo, pur radicata in un contesto storico particolare, può ormai spaziare sull’intero secolo, trovando sollecitazioni e suggerimenti per una riflessione insieme politica e morale, che le complesse e tragiche vicende dell’ultimo ventennio – del post-totalitarismo, si potrebbe dire – hanno reso ardua e spesso contraddittoria. È con questa intricata materia che si misura Barbara Spinelli (Il sonno della memoria. L’Europa dei totalitarismi, Mondadori), indagando soprattutto su quanto il ricordo o l’oblio dell’esperienza totalitaria influenzi la coscienza civile contemporanea, in un affresco che è, in realtà, una rivisitazione della storia di fine Novecento. Spinelli pone costante attenzione al confine sottile tra commemorazione e archiviazione, al rischio che entrambe riducano il passato a materia amorfa e insensibile e al bisogno, invece, di rendere la memoria oggetto palpitante e drammatico di conoscenza. Un contributo analitico particolare, ma su un aspetto costitutivo e terribilmente fondamentale di ogni esperienza totalitaria, è il libro di Joel Kotek e Pierre Rigoulet (Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: 1900-2000, Mondadori), che ripercorre le tappe e i percorsi di una forma di detenzione e prigionia che, pur iniziata dalle due più grandi democrazie (gli Usa a Cuba nel 1896 e la Gran Bretagna in Sudafrica nel 1900), trova il suo tragico perfezionamento nelle forme differenti ma convergenti – con obiettivo la disumanizzazione totale – che nazismo e comunismo danno ai campi di concentramento. Sul confronto tra stalinismo e nazismo si misura anche la raccolta di saggi curata da Heny Rousso (Stalinismo e nazismo. Storia e memoria comparate, Bollati Boringhieri), di grande rilievo storiografico sia quando sistematizza questioni da lungo tempo dibattute (i saggi di Philippe Burrin e di Nicola Werth sulla natura e i caratteri della Germania nazista e della Russia staliniana), sia quando indaga sul ruolo della memoria nella storia post bellica dell’Europa orientale, quella delle democrazie popolari dove presente e passato del totalitarismo si sono intrecciati in un drammatico e originale impasto. Due libri, infine, piccoli ma diversamente utili, al cui centro è il totalitarismo come concetto, come guida analitica, come idea che collega in modo a volte sotterraneo e a volte aperto l’intera esperienza della modernità. Simona Forti (Il totalitarismo, Laterza) lo ripercorre sul versante della filosofia politica, dello studio dei regimi politici, individuando gli autori che più d’ogni altro – e tra essi in primo luogo Hannah Arendt – hanno contribuito a delineare e definire il concetto. David Bidussa (La mentalità totalitaria. Storia e antropologia, Morcelliana) lo affronta ricostruendo una genealogia complessa del pensiero moderno e degli influssi che esso, insieme alla incipiente cultura di massa, produce sul sorgere di una mentalità totalitaria, che preesiste e si accompagna all’emergere del fenomeno storico e ne è in qualche modo una precondizione. «Come ci si ricorderà un giorno di questo secolo?», si domanda Todorov, «sarà chiamato il secolo di Stalin e di Hitler? Sarebbe accordare ai tiranni un onore che non meritano: è inutile glorificare i malfattori». Ma capirli, e comprendere la malattia forse più terribile del secolo, il totalitarismo, non è certo opera vana.

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da «Diario», 25 gennaio 2002, per gentile concessione

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