Diario
Colpevoli di esistere per legge
Un crimine commesso nel rispetto delle norme vigenti. Lo sterminio degli ebrei venne favorito dalla legislazione nazista che trasformò in carnefici tante persone normali
di Andrea Bienati
«Ubbidivo
ciecamente agli ordini, e in ciò trovavo piena soddisfazione. Qualsiasi compito
mi avessero affidato, l’avrei eseguito ciecamente e con entusiasmo», (Adolf
Eichmann durante il processo a suo carico). La storia dello sterminio nazista ci ha mostrato come ciò che è legalmente
apprezzato possa essere moralmente abbietto. «Nel senso dell’accusa mi
dichiaro non colpevole» o, variante ancora più nota, «Ho solo eseguito degli
ordini», sono state le prassi difensive di imputati che postulavano
l’esistenza di un crimine, commesso nel rispetto delle leggi. Le autorità del
Terzo reich si adoperarono scrupolosamente per dare allo sterminio nazista una
parvenza di normalità legalizzata, favorendo così le tecniche, già insite
nell’animo umano, di neutralizzazione degli aspetti devianti delle proprie
azioni. Le persone che trucidavano e organizzavano lo sterminio, diventando
killer seriali su ampia scala, erano ottimi padri di famiglia, figli che amavano
i genitori e impeccabili lavoratori, provenienti da ogni strato sociale. «In verità la ma famiglia stava bene ad Auschwitz, ogni desiderio di mia
moglie o dei bambini era esaudito (...) I prigionieri facevano di tutto per
compiacere mia moglie e i bambini, per usare loro delle cortesie (...) Quando
vedevamo entrare nelle camere a gas le donne con i bambini, involontariamente
ognuno di noi pensava alla propria famiglia» (Rudolf Höss: buon padre di
famiglia ed efficientissimo comandante di Auschwitz). L’esempio dei crimini nazisti mostra come avvocati, medici, architetti,
meccanici, operai, bottegai e scrivani collaborarono, a vari livelli e
ordinatamente, a un progetto criminale. «Indossano tutti la stessa camicia bruna ed è questo quello che conta (…)
Ecco i figli dei proletari, ecco i figli di quella che un tempo si chiamava la
borghesia, i figli degli imprenditori, degli operai, dei contadini e così via.
Però hanno tutti lo stesso aspetto». (Adolf Hitler, 1937). La compattezza interclassista nel prendere parte alla tragedia, voluta dal Terzo
Reich, seppe mantenersi tale anche nel momento del redde rationem, ossia
quando gli Alleati processarono i «volonterosi carnefici di Hitler» (citando
il titolo dell’opera di J. Goldhagen sul nazismo). La difesa comune di tutti i
criminali del Terzo reich, seppur in processi differenti per luoghi e tempi: da
Norimberga a Gerusalemme per poi finire con Roma, solo per elencarne alcuni, fu
l’aver agito nel rispetto delle gerarchie e degli ordini. Lo Stato nazista normalizzò i comportamenti criminali, convogliandoli nella
creazione della Shoah. L’antisemitismo può bastare a spiegare lo sterminio
nazista? Se l’odio nei confronti degli ebrei fosse stato radicato nel popolo
tedesco e avesse tratto linfa vitale dallo spirito di appartenenza alla razza
ariana, non ci si spiega come mai il nazismo perse tempo e uomini nel tentativo
di inculcare, con fitte leggi e una martellante campagna mediatica, l’odio nei
confronti del «sottouomo», rappresentato in maniera paradigmatica per il
regime, dall’ebreo. Se, infatti, la storia del Terzo Reich fosse studiata
tenendo conto delle leggi e dei numeri fino a noi giunti, si capirebbe come fu
costante il tentativo di creare solide basi, legali e riduzionistiche, agli atti
di discriminazione prima e di eliminazione dopo posti in essere contro gli
ebrei. Se le sfilate inneggianti all’Herrenvolk, il risveglio delle coscienze
della stirpe sovrana tedesca, il mito del Reno e i filmati di Leni Reifsenthal
(la cineasta del Reich) avessero fatto effettivamente presa sulle coscienze dei
cittadini tedeschi, fino a farli diventare dei perfetti automi da sterminio del
«diverso», come mai acquisirono sempre più importanza i giuristi che,
rinnegando in maniera decisa lo studio del diritto di ispirazione latina,
fiorente in Germania, curavano in maniera ossessiva e cavillosa la questione
della razza? Guardando le carriere di costoro si nota come a giovani,
promettenti e non, laureati in Giurisprudenza si aprirono nuove prospettive di
carriera nel momento non solo dell’adesione al partito, ma anche in quello
della collaborazione attiva nella formulazione delle leggi, che stigmatizzassero
i diversi, o nella redazione di commentari a queste. Un ennesimo dato di
partenza di questa riflessione riguarda il fatto che le schiere di carnefici,
attivi o da scrivania, alternavano momenti di ebbrezza o di follia di sangue a
momenti di rigorosa e stimabile vita borghese. Lo studio del crimine nazista mostra com’è difficile e, talvolta, sbagliato
legare la propensione a delinquere alla classe sociale di provenienza del
criminale. Se, poi, si pone attenzione ai comportamenti posti in essere dai
gerarchi e dagli esecutori che operarono nella Shoah, si nota come non contasse
il ceto sociale di appartenenza, ma la comune voglia di assurgere a nuovi onori
dinanzi agli occhi di Adolf Hitler. Il diritto divenne il binario su cui lasciare andare le proprie aspirazioni
verso il successo, concesso dal Führer, senza doversi interessare delle
stazioni intermedie, anche se queste furono costellate da numerose azioni
riprovevoli sotto il profilo morale. L’innalzamento della finalità dell’azione, la possibilità di spalmare le
colpe su un vasto strato di persone, la ripetitività dell’azione che si può
ritenere negativa, il compenso finale per le malefatte compiute, la
gerarchizzazione dei rapporti e la condanna degli eventuali condannanti sono
tecniche individuate dalla criminologia per neutralizzare il concetto di
crimine. Attuando tali comportamenti, il criminale annienta le differenze tra
giusto e ingiusto, fino a renderle soltanto delle parole prive di significato e
assoggettabili alle proprie necessità. Tutto ciò, però, deve poggiare su
solide basi giustificative che permettano a soggetti «normali», che mai
s’azzarderebbero a cimentarsi in imprese criminali, a compiere atti che
possono essere ritenuti immorali. Il nazismo offrì la più grande montatura, fornita da uno Stato, per commettere
una serie di reati. L’unicità dello sterminio nazista risiede proprio
nell’attuazione scrupolosa di tutti gli artifizi legali che servivano a
rendere credibile l’attuazione di crimini ex lege. «Dove non c’è responsabilità non può esserci colpa (…) Io non ebbi
fortuna, il capo del mio Stato mi ordinò le deportazioni. La mia parte fu
assegnatami dal comandante delle SS e della polizia, i cui ordini mi giungevano
attraverso i suoi subordinati».(Eichmann si trincera le proprie colpe
dietro alla piramidale struttura gerarchica nazista). Le famigerate leggi di Norimberga del 1935, sulla conservazione della razza e
della stirpe, non furono altro che una positivizzazione di tutte le teorie
antisemite che, messe in pratica dalle SA e SS, avevano procurato non pochi
incidenti. Il silenzio della maggioranza dei tedeschi e la comprensione,
dimostrata da ambienti di affaristi senza scrupoli, dinanzi ai primi atti di
vessazione nei confronti degli ebrei, avevano fatto presagire ai burocrati la
possibilità di ammantare di legalità gli atti criminali, se indirizzati contro
chi fosse stigmatizzato dalla minoranza organizzata al governo come «diverso».
Gaetano Mosca, pensatore politico italiano, più studiato all’estero che in
patria, elaborò la teoria secondo cui la minoranza organizzata governa sulla
maggioranza disorganizzata di un Paese. Il caso nazista rivela come per
organizzazione si intenda una costante sinergia tra ordine e ambizione: il
volere, che proviene dall’autorità, e il desiderio di successo, insito in
tante persone normali. Il comportamento, infatti, di quelli che avrebbero dovuto
essere dei fanatici persecutori della sottorazza ebraica, una volta giunti a
potere, non era assolutamente compatibile con una violenza quasi ascetica,
propugnata dalla voce del Führer. È infatti noto che i beni degli ebrei furono
riutilizzati dagli ariani e che, all’interno dei campi di concentramento,
sfruttando la mano d’opera dei reclusi, i membri delle SS si facessero
forgiare monili con l’oro ricavato dalle perquisizioni sui vivi e sui cadaveri
dei deportati. La fedeltà al sistema e la rinuncia a disporre di una propria
coscienza veniva barattata dagli uomini della «questione ebraica» con gli
onori e gli ori, riservati per l’adempimento del proprio dovere nella
realizzazione della soluzione finale. Il nazismo si trovò occupato in due guerre distinte: una contro le potenze
esterne e l’altra contro tutti coloro i quali, all’interno della nazione,
potevano essere secondo legge definiti «colpevoli di esistere». La questione
stessa della Shoah fu trattata sempre in ossequio a regole e ordinamenti emessi
da schiere di giuristi, come accadde nella conferenza del Wannsee del 20 gennaio
1942, in cui si davano basi legali all’attuazione della soluzione finale. Nel
diritto del Terzo Reich si passò dalla visione di comportamenti socialmente
pericolosi alla definizione di modi di essere socialmente pericolosi. Al diritto
venne anche affiancata una campagna di costruzione di elementi di finzione. I
campi stessi, in cui erano rinchiusi e trovavano la morte tutti gli appartenenti
alla «razza ebraica» e tutti i «diversi», erano edificati in un modo tale
per cui vittima e carnefice potessero ingannarsi sulla realtà presente in quei
luoghi. La costruzione di finte docce per la gassazione nei campi in Polonia, le
selezioni dei deportati appena scesi dai convogli, operate da medici,
l’utilizzo di cavie umane per fini scientifici, la numerazione degli «Stücke»
(pezzi), sopravvissuti alle selezioni e da destinare al lavoro, e un linguaggio
che occultasse la verità, erano tutti artifizi destinati a rendere normale
un’intollerabile realtà di morte. Se, infatti, andassimo a valutare la
semantica delle parole utilizzate per lo sterminio quotidiano degli avversari
del Terzo Reich, si potrebbe notare come vi sia un costante riferimento a quelle
riguardanti le cose, gli oggetti inanimati: dal «pezzo», come era chiamato il
deportato dal momento dell’inizio del viaggio verso il campo fino alla sua
dipartita nel Reich, al «mietere il grano», utilizzato per indicare le azioni
di rastrellamento degli Einsatzgruppen a est, alla parola «lager», che in
tedesco equivale a magazzino, a «trasportare a est», perifrasi utilizzata per
indicare l’invio delle persone verso i campi di sterminio in Polonia. Veniva
tolta, così, dignità alla vittima grazie a una interazione tra legge, emanata
dall’alto, e spicciola attuazione di soprusi, compiuti quotidianamente. Quando
anche si leggessero le deposizioni difensive prodotte dagli aguzzini dei campi
di sterminio o delle squadre di rastrellamento, sotto processo, si vedrebbe
come, pur dinanzi a un giudizio di condanna, le parole dei carnefici
oscillassero tra il pentimento, raramente veritiero, e la convinzione di aver
compiuto atti moralmente condannabili su oggetti e non persone. Il numero cucito
sui triangoli delle divise dei deportati e quello tatuato sul braccio degli
internati per motivi razziali, che sopravvivevano alla prima selezione,
effettuata al loro arrivo nel campo, diventava così non solo la loro nuova ed
unica identità agli occhi del membro dell’SS, che rappresentava il Reich, ma
li rendeva anche quantificabili, schedabili da quei primi classificatori IBM che
rendevano più semplice la loro riduzione a elemento di un algoritmo. «Il numero, una volta tatuato, veniva trascritto su un apposito registro, in
corrispondenza delle generalità del detenuto. Da quel momento scomparivamo da
esseri umani diventando numeri, pezzi per la macchina di sterminio del Reich» (Elisa
Springer, ex deportata ad Auschwitz). Così non deve stupire se il comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, o il tenente
delle Ss, Adolf Eichmann, incaricato della gestione dei treni dei deportati,
nelle loro autobiografie descrivessero invece gli effetti del proprio lavoro in
modo molto asettico e zelante. I loro scritti, che avrebbero dovuto ingraziare
l’opinione pubblica, fino a farli passare per semplici ingranaggi
all’interno di un grande e inesorabile sistema, produssero nei lettori e nei
giudici un’orribile sensazione di indifferenza e sadismo dinanzi al dolore
altrui. Tutti costoro avevano neutralizzato il concetto stesso di male, dinanzi
alla visibilità dei propri meriti, avuti all’interno del sistema del Reich. «Quindi passammo a discutere le modalità per attuare il piano di sterminio. Il
mezzo non poteva essere che il gas, perché sarebbe stato senz’altro
impossibile eliminare le masse di individui in arrivo con le fucilazioni; e,
oltretutto, sarebbe stata una fatica troppo pesante per i militi delle SS
incaricati di eseguirle» (Rudolf Höss ricorda un dialogo con Eichmann sulla
gestione della soluzione finale) Hitler costituì una sottocultura, aderendo alla quale, anche solo per una
volta, era sempre più facile allontanare il rimorso per il disvalore umano del
proprio operato, mediante la sublimazione delle azioni compiute nell’interesse
del Reich, ottenendo onori pari a quelli dei soldati al fronte, pur restando al
sicuro nelle seconde linee, dove si combatteva la guerra contro i civili inermi
dei ghetti e dei campi. La legislazione razziale e la burocrazia, creata per la
gestione dei «diversi», si fondarono anche su solide basi scientifiche. Medici
e cattedratici, invero talvolta anche riassorbiti dalle istituzioni della
Germania post-bellica, collaborarono alla formulazione dei protocolli sulla
razza e all’attuazione del «piano eutanasia», in cui le bocche inutili
venivano messe a morte in istituti clinici mediante l’utilizzo di dosaggi di
medicinali o somministrazioni di gas di monossido di carbonio. Furono create le
«case della fame», dove venivano radunati e lasciati morire di inedia i
degenti, definiti malati terminali da medici organici al Terzo Reich. Questa
azione, che inizialmente era stata celata per ordine di Hitler e che egli stesso
sospese quando fu scoperta dai tedeschi, fu il prius logico e tecnico
della Shoah. Infatti, consentì ai gerarchi di far passare la bontà della
soluzione radicale della questione di una razza aliena al sangue ariano, in
quanto per realizzare la purezza dell’Herrenvolk erano stati già costretti a
sacrificare il prezioso sangue di ariani deboli. Venne anche riutilizzato il concetto, creato nel 1920, di «vite indegne di
essere vissute», una zavorra sociale alla quale bisognava porre rimedio in
maniera scientificamente organizzata. Si creò così il prodromo della proficua
collaborazione fra il diritto e la medicina, che poi avrebbero mantenuto durante
tutta la questione ebraica. «La loro vita è completamente inutile, ma non la considerano
intollerabile… non ha alcun valore sociale o personale che gli idioti
continuino a vivere» (dal libro del professore di Psichiatria Alfred Hoche
e del giurista Karl Binding, «Die Freigabe»). La maniacale cura della documentazione di tutte le operazioni effettuate per
ordine del Reich, persino la classificazione dei beni personali di cui furono
spogliati gli ebrei, ci pone, finalmente, dinanzi a una chiave di lettura
innovativa. C’è da chiedersi, infatti, come mai sia stata data tanta
attenzione alla classificazione e alla costruzione di veri e propri archivi
riguardanti le azioni poste in essere per adempiere a ordini criminali. In uno
stato dittatoriale, in cui vigeva il principio dell’osservanza del volere del
«capo», la virtù e il senso civico erano rappresentati dalla esecuzione
indiscussa e ottimale degli ordini. Più il cittadino si dimostrava zelante, più
aveva possibilità di migliorare la propria situazione sociale e poteva ambire a
riscuotere tutti quei successi che, probabilmente, gli sarebbero stati negati in
una società normale. Così, per i pianificatori e per gli esecutori dello
sterminio nazista i propri compiti non erano criminali, in quanto ammantati
dalla rispettabilità dell’adempimento per il bene del Reich all’ordine
ricevuto. Le compagnie di documentazione delle truppe di Hitler, incaricate di
riprendere le strutture di messa a morte e le varie fasi dello sterminio degli
ebrei, svolgevano con la massima tranquillità un compito che, coperto da
massima riservatezza, forniva la possibilità di evitare il fronte, facendo un
lavoro di «riposo fisico». «Dalla mia posizione, facendomi largo tra i miei camerati, scattai una foto
del fossato con gli ebrei che vi si trovavano». (soldato di una colonna
motorizzata presente a un massacro in Lituania). Lo stress mentale delle persone che presero parte all’attuazione della Shoah,
pur facendosi sentire, non ebbe mai la forza di indurle a cambiare i loro
comportamenti. Ciò non tanto perché spinte dalla paura di pagare con la morte
il rifiuto a comportarsi come criminali, ma perché era la prima volta che a
fronte di un’azione ritenuta moralmente abbietta venivano offerte dallo Stato
tali e tante giustificazioni da farla risultare socialmente utile e lodevole. Si
deve, infatti, tener presente che tutti gli «addetti» alla questione ebraica
erano volontari, ossia avrebbero potuto anche chiedere di essere destinati ad
altro compito. «Durante la guerra si poteva almeno tentare di venir trasferiti da una
Einsatzgruppen. Io l’ho fatto e ci sono riuscito. Per il mio rifiuto non fui
degradato e non ebbi degli svantaggi» (l’SS-Oberf. prof. Franz Six). L’importanza delle leggi fu basilare nella normalizzazione dello sterminio
nazista, poiché sono stati riportati anche casi in cui si ebbero processi
contro delle SS che, pur agendo in pieno regime nazista, avevano ecceduto
nell’attuazione dei compiti impartiti dall’autorità. Pur risolvendosi
sempre a favore degli imputati, queste farse erano necessarie affinché
sembrasse che i comportamenti criminali, tollerati dalla legge, non garantissero
la totale impunità per tutte le azioni moralmente condannabili. Le leggi dello
Stato, dunque, diventavano la nuova coscienza dei cittadini, addestrati a
provare sempre meno sofferenza per il male cagionato agli altri. «Ciò che fai per il popolo e la patria è sempre fatto bene!» (slogan
su un cartello del Terzo Reich). I dati più attendibili, riguardanti la Shoah ci sono stati forniti dai nazisti
stessi, non quindi per sadismo, ma come documentazione di una perfetta
esecuzione degli ordini ricevuti. Gli archivi di Stato, contenenti tutto il know
how legale, sociale, economico e architettonico, applicato al crimine nazista,
rappresentavano un modo per rendere ufficiali, quindi socialmente accettabili,
gli atti compiuti. Questa adesione alla criminalità ex lege nazista non ottenebrò, però,
le coscienze degli aguzzini, che tentarono, quando ormai la guerra sembrava
persa, di occultare le prove del proprio operato. Verso gli ultimi sprazzi della
guerra si ebbe come un improvviso risveglio del senso di disvalore, connesso
alle azioni poste in essere nel rispetto degli ordini e, dinanzi
all’eventualità di dover rendere conto delle proprie malefatte, si riscoprì
l’utilità, già calcolata in partenza, dell’aver soltanto adempiuto agli
ordini, trovandosi così già a disposizione i vantaggi acquisiti sotto il
regime passato e una prassi difensiva da poter tenere davanti agli occhi della
storia. Si rese evidente, così, nei criminali nazisti, un comportamento simile
all’atto del lasciarsi andare alla deriva del crimine, solo nella sicurezza
della grande finzione legale, burocratica e sociale posta in essere dal Terzo
Reich. «Sono sempre stato un uomo provvisto di una più che alta concezione del
dovere» (SS-Standartenfüher Jaeger, dopo il suo arresto). Le vite di spietati «killer seriali da scrivania» e di perfidi aguzzini da
campo di sterminio seppero cambiare a tal punto da essere reinserite nella vita
quotidiana del mondo post-bellico. È eclatante il caso di Globke, uno dei
curatori delle leggi razziali del 1935, che divenne segretario di Stato di
Adenauer. Ciò dimostra come i criminali di Hitler avessero cessato di tenere
comportamenti moralmente condannabili dopo la caduta stessa del regime per il
quale avevano commesso efferatezze, coperte da giustificazioni legali e
fingendosi convinti al fine di ottenere meriti agli occhi di chi deteneva il
potere. Il mito dell’indottrinamento della massa, lo spirito di vendetta, che covava
per l’umiliante stipulazione della pace di Versailles, imposta dopo la
conclusione della Prima guerra mondiale, e l’antisemitismo più volte definito
viscerale non bastano da soli a spiegare il comportamento di tutte le persone
che si adoperarono affinché si realizzasse lo sterminio dei «sottouomini». «Una razza forte scaccerà i deboli perché lo slancio vitale, nella sua
forma definitiva, abbatterà le assurde barriere della cosiddetta umanità degli
individui» (Adolf Hitler da «Mein Kampf»). Si può, infatti, parlare di una massa di esecutori opportunisti che seppero
neutralizzare il concetto di crimine, trovando nelle leggi giustificazione e
compenso per le proprie azioni. Dopo questa analisi e dopo aver notato come la
riduzione a numero della vittima e la possibilità di trovare delle scusanti per
le proprie azioni dessero tranquillità ai criminali nazisti, si può dire che
la storia del Terzo Reich nasce, più che dall’oro del Reno, dall’inchiostro
usato da zelanti burocrati e legislatori. L’unicità, quindi, dello sterminio fatto dai nazisti sta non nel numero delle
vittime, in quanto i carnefici stessi trattarono la Shoah su un piano
prettamente numerico e altrettanto fanno ancora oggi i revisionisti, ma in tutti
gli artifizi legali posti in essere da una dittatura per consentire ai propri
cittadini di far sì che il più grande crimine della storia fosse commesso nel
pieno rispetto delle leggi.
L'ubbidienza nella Rete. |
http://www.fabula.it/benni/corsivi/manifesto/20010720.html - Fantaintervista di Benni a Bush sui tribunali contro i crimini di guerra. http://www.repubblica.it/online/politica/nomine/nomine/nomine.html - La Barbera spiega che lui ha «solo eseguito degli ordini». - http://www.jja.org/Love3.html - Considerazioni sull'idea che «Dio sta solo eseguendo degli ordini». |
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da «Diario», 25 gennaio 2002, per gentile concessione |