Diario

L’Olocausto fatto in casa

A Jedwabne abitavano 2.176 persone, 1.600 delle quali erano ebrei. Sono sopravvissuti in sette, gli altri sono stati ammazzati dai loro vicini polacchi. I tedeschi guardavano  

di Francesco M. Cataluccio

 

La cittadina di Jedwabne si trova nelle vicinanze di Bialystok, nella parte orientale della Polonia. Alla vigilia della guerra era un paesino fatto di case di legno, circondato dai boschi, e vi abitavano 2.167 persone, delle quali il 60 per cento erano ebrei. Ebrei che non erano chassidim e non erano quindi riconoscibili visivamente dagli altri abitanti, non vestivano con i caffettani neri, non portavano cappelli di pelliccia e mantelli, né lunghe barbe. Inizialmente Jedwabne fu invasa dai tedeschi, che bruciarono la sinagoga, ma poi, in base al patto Ribbentrop-Molotov passò sotto il controllo sovietico. Nel giugno del 1940, nelle sue vicinanze, fu annientato un gruppo di partigiani antisovietici: circa 250 vennero arrestati, alcuni furono uccisi, altri deportati in Siberia. I delatori erano stati dei polacchi, ma la gente sospettò gli ebrei. Il 23 giugno del 1941, la cittadina fu occupata di nuovo dai tedeschi. Il giorno seguente, i polacchi iniziano ad assassinare alcuni ebrei per strada. Alcuni anziani furono presi e torturati a morte; delle donne, inseguite e bastonate bestialmente. Settantacinque ebrei tra i più giovani e robusti furono costretti a portar via dalla piazza il pesante monumento a Lenin, eretto dai sovietici. Dovettero scavare, cantando, una fossa e buttarcelo dentro. Dopodiché anche loro vi furono gettati e sepolti. Lo sterminio di 1.600 persone si concluse il 10 luglio. Capeggiati dal sindaco Karolak, nominato dai tedeschi, alcuni cittadini armati ammassarono gli ebrei superstiti (a eccezione di sette persone che furono nascoste da polacchi e riuscirono poi a fuggire), li costrinsero a marciare in fila dietro al rabbino novantenne con una bandiera rossa, li chiusero in un fienile, e, dopo averlo cosparso di nafta, gli dettero fuoco. Poi andarono a cercare, per le case degli ebrei, gli eventuali scampati, tra i vecchi ammalati e i bambini. I polacchi di Jedwabne fecero esattamente quello che facevano i nazisti, addirittura con un di più di rurale barbarie che sorprese persino i tedeschi. Secondo la testimonianza di Julia Sokolowska, «i tedeschi stavano a distanza e facevano foto che poi mostrarono per far vedere come i polacchi massacravano gli ebrei». Fu probabilmente girato addirittura un documentario e forse un giorno, da qualche vecchio archivio o cantina germanica, potrebbe rispuntare fuori il «film dell’orrore». Ma quello che raccontano i testimoni è sufficiente. A compiere il massacro furono in pochi. Ma il resto degli abitanti «rideva e faceva il tifo», inseguivano gli ebrei che fuggivano e bloccavano loro la strada. Il prete Aleksander Dolegowski, al quale alcune donne ebree si rivolsero per chiedere un intervento che fermasse il massacro, disse che «tutti gli ebrei dai più giovani ai sessantenni sono comunisti e non ho alcun interesse a difenderli», mentre il medico polacco Jan Mazurek si rifiutò di curare i feriti e fornire delle medicine agli ebrei che le chiedevano. Il principale artefice del pogrom venne poi fermato e ucciso dai nazisti per essersi impadronito di beni ebraici. La storia non finì lì. Nella primavera del 1945 vennero assalite e minacciate di morte due famiglie polacche (i Karwowski e i Wyrzykowski) colpevoli di aver nascosto e salvato i sette ebrei. L’8 gennaio del 1949 la polizia politica polacca arrestò 15 persone sospettate di essere gli artefici del pogrom. Nel processo, che si svolse il 16-17 maggio dello stesso anno, 11 persone vennnero riconosciute colpevoli e condannate a pene tra i 5 e 15 anni, e uno (Karol Bardon) fu condannato a morte. Nel 1957 erano di nuovo tutti in libertà. Agli inizi degli anni Sessanta, venne eretto un piccolo monumento (rimosso soltanto lo scorso anno) nella piazzetta del paese, che ricordava «gli ebrei ammazzati dai nazisti». L’iscrizione era firmata «la società»: proprio «quella società» che aveva massacrato gli ebrei! Durante la Seconda guerra mondiale sono accadute in Polonia cose che ancora è difficile sapere, immaginare e capire. In quegli anni fu cancellata da quella terra la comunità ebraica: la sua gente, la sua lingua e la sua cultura. Oggi c’è il deserto, ma da sotto la sabbia riaffiorano di tanto in tanto episodi terribili e inquietanti, che fanno intuire una verità che anche il regime comunista aveva fatto di tutto per tenere nascosta: non furono soltanto i nazisti a sterminare la più grande comunità ebraica del centro Europa, ma ebbero la complicità attiva delle popolazioni locali. «Che cosa ci va a fare a Kaluszyn, non c’è nemmeno più il cimitero, è diventato un campo di patate», si sentì dire alcuni anni fa la scrittrice israeliana Yehudit Hendel (1926). Come racconta nel suo diario di viaggio, I villaggi del silenzio (Guida, Napoli 2000), la visita nella natia Polonia si dimostrò un’avventura nel deserto e nel silenzio. Non c’era rimasto niente del mondo della sua infanzia. Un’altro scrittore, il polacco Henryk Grynberg (1936), nel 1992, tornò dagli Stati Uniti per recarsi nel villaggio di Dobro (che, macabramente, significa «bene») a fare ricerche sulla morte di suo padre. Assieme al regista Pawel Lozinski girò un documentario su quella ricerca: Miejsce urodzenia («Luogo di nascita», 1993) dal quale fu tratto un libro, Dziedzictwo («Infanzia», Aneks, Londra 1993). La famiglia stava nascosta nei boschi e ogni giorno il padre, Abram, andava per i villaggi vicini con una bottiglia per prendere il latte e qualcos’altro da mangiare. Un giorno non fece ritorno. Fu ammazzato da un polacco e sepolto con la bottiglia. Tutta la gente attorno vide la scena e non parlò. Cinquant’anni dopo, le incalzanti domande dello scrittore e le telecamere che scrutano impietose i volti e i gesti di quei vecchi, fanno tornare a galla la verità e, soprattutto, smascherano un contesto di odio verso gli ebrei che lascia senza parole. Come sostiene il regista in un’intervista (K. Bielas, «Miejsce dochodzenia», in Gazeta Wyborcia, 21 ottobre 1993), il film funzionò come una sorta di autoterapia collettiva: la gente di quei villaggi tirò fuori delle cose che aveva tenute dentro di sé per anni, come un terribile segreto. Ma, assieme alla verità, sono i pregiudizi radicati nel popolo polacco che vengono fuori. Una donna dice: «Del resto, proprio quell’ebreo chiedeva di essere ammazzato. Era così malmesso...». Ma fu un altro film documentario, Gdzie mòj starzy brat Kain? («Dov’è il mio fratello più anziano Caino?»), di Agnieszka Arnold che mostrò per la prima volta e fece conoscere alla maggior parte dei polacchi il piccolo, «maledetto», paese di Jedwabne. Oggi, le pazienti ricerche di uno dei migliori storici polacchi della generazione del Sessantotto, Jan Tomasz Gross, docente di Scienze politiche alla New York University, hanno portato alla luce quell’episodio inquietante. Il libro che ha scritto – Sasiedzi. Histora zaglady zydowskiego miasteczka («I vicini di casa. Storia dell’annientamento di una cittadina ebraica», PS, Bialystok 2000) – pubblicato anche negli Stati Uniti (dalla Princeton University Press), è in uscita nelle prossime settimane in italiano da Mondadori. La vicenda di Jedwabne non era del tutto sconosciuta agli studiosi. Nel 1966, lo storico Szymon Datner, in un saggio pubblicato nel bollettino del Zih (Zydowski Instytut Historyczny, «Istituto ebraico di storia») aveva ricostruito il delitto di Jedwabne, anche se, condizionato dalla censura del regime comunista, ne aveva addossato la responsabilità politica ai tedeschi. Cosa che non avvenne invece nel volume Yedbawne: History and Memorial Book (Baker and Baker, Jerusalem-New York 1980), che raccoglieva tutte le testimonianze dei superstiti, tra le quali, quella fondamentale di Szmul Wasersztajn, resa, nel 1945, davanti alla Commissione storica ebraica di Bialystok. Nonostante questo, la tragedia di Jedwabne non era mai entrata a far parte della storia polacca ed era stata presto dimenticata. Era troppo scomoda per la coscienza nazionale polacca che, nel dopoguerra, con la complicità del regime comunista, sosteneva la tesi (per altro non del tutto infondata) della Polonia come principale vittima della Seconda guerra mondiale. Ma c’erano due problemi: 1) non si poteva affrontare il tema del patto Molotov-Ribbentrop, che aveva visto alleati per due anni i sovietici e i nazisti, e il ruolo giocato dall’Unione Sovietica nella distruzione della Polonia; 2) era considerato inopportuno, anche per non offendere la Chiesa, parlare dei numerosi episodi di antisemitismo e di complicità nell’Olocausto di molti polacchi. Il racconto di quel massacro ha sconvolto l’opinione pubblica polacca, provocando un’accesa discussione che è durata tutto lo scorso anno e non accenna a placarsi (mentre reparti speciali di tecnici dell’esercito stanno proprio in questi giorni terminando le difficili esumazioni delle vittime disposte dalle autorità dell’Istituto della memoria nazionale). «I vicini di casa. Storia dell’annientamento di una cittadina ebraica» mette tutti con le spalle al muro. Non dà più la possibilità di dire: «Sono tutte, anche se comprensibili, esagerazioni degli ebrei»; oppure: «Qualcosa fecero anche i polacchi, ma niente al confronto dei nazisti». Come ha notato acutamente il corrispondente dell’Espresso da New York, Wlodek Goldkorn, il libro di Gross ha rotto il tabù della collaborazione e corresponsabilità dei polacchi nella Shoah: «Il common sense prevalente, anche negli ambienti liberal polacchi, prima dell’opera di Gross era il seguente: in Polonia, sotto l’occupazione nazista si è verificato un paradosso, quello di essere l’unico Paese europeo in cui si poteva essere contemporaneamente antisemiti e antifascisti. Secondo questo paradosso, i polacchi (a eccezione di pur numerosi casi individuali di denuncia degli ebrei ai tedeschi, di cui la letteratura e la memoria sono pieni) non parteciparono alla Shoah. Erano spesso spettatori passivi, qualche volta delatori e quindi complici, ma assassini e collaborazionisti mai. Gross invece mostra come quasi tutti gli abitanti di Jedwabne massacrarono, in un vero e proprio pogrom, i concittadini ebrei». «Una vergogna nazionale» ha definito la vicenda di Jedwabne lo storico ed ex leader dell’opposizione Adam Michnik (in The New York Times, 16 aprile 2001). Sul quotidiano da lui diretto, Gazeta Wyborcia, che ha aperto le sue pagine alla discussione, una signora, intervistata, ha detto: «Dei fanatici assassini si possono sempre trovare, e sempre durante una guerra hanno un terreno favorevole per dar sfogo alla propria bestialità, ma gli indifferenti o, peggio ancora, quelli che ridevano e stavano a guardare, quelli che potevano fare qualcosa e non l’hanno fatto, gettano una luce di colpevolezza sulla gran parte della popolazione polacca». «I crimini nazisti, contro gli ebrei ma anche contro i polacchi, hanno coperto questi episodi di infamia polacca», ha sostenuto un anziano biologo ebreo polacco che vive a Parigi, figlio del poeta polacco Antoni Slonimski, «era fin troppo facile dire “siamo tutti vittime dei nazisti”; ma per me lo scandalo non è Jedwabne, ma il massacro del 4 giugno 1946, a Kielce, da parte dei polacchi, di 42 ebrei sopravvissuti e appena rientrati dall’Unione Sovietica». Le gerarchie ufficiali della Chiesa cattolica, che si sono sentite chiamate in causa, hanno chiesto ufficialmente scusa agli ebrei per quello che avvenuto a Jedwabne. Il vescovo Tadeusz Pieronek ha parlato apertamente di genocidio e ha criticato quei preti che avevano assunto un atteggiamento negazionista: «La colpa del delitto ricade su tutti noi polacchi. Dobbiamo assumerci la responsabilità per le azioni di coloro tra i nostri antenati che erano dei criminali». Ma alcune persone, tra quelle che non provano vergogna e sostengono che sono tutte vecchie storie ritirate fuori oggi per non far entrare la Polonia nell’Unione europea, sostengono: «La Chiesa dice così perché non può fare a meno di farlo e dal Vaticano ci sono forti pressioni». Lo storico Andrzej Paczkowski (nel quotidiano Rzeczpospolita, 24 marzo 2001) ha classificato l’atteggiamento dell’opinione pubblica e dei commentatori sulla vicenda di Jedwabne secondo quattro atteggiamenti tipici. Affermativo: coloro che mettono l’accento sull’aspetto morale della vicenda e sottolineano l’assoluta necessità di espiazione, sia individuale sia collettiva (tra i sostenitori di questo atteggiamento c’è stato il presidente della Repubblica polacca Aleksander Kwasniewski, si veda la sua intervista al quotidiano israeliano Jedijot Achronot, 3 marzo 2001). Difensivo-aperto: coloro (come lo storico Tomasz Szarota, in Gazeta Wyborcia, 18 novembre 2000) che riconoscono che il pogrom di Jedwabne è stato un delitto compiuto dai polacchi, ma hanno un atteggiamento critico nei confronti del libro, sollevando obiezioni sulla credibilità delle testimonianze delle vittime rispetto ai documenti d’archivio e sull’atteggiamento «emotivo e poco equilibrato» di Gross. Difensivo-chiuso: basato sull’argomentazione che i polacchi erano solo «aiutanti» e l’azione era diretta «dai tedeschi» e che l’atteggiamento degli abitanti del paese era la conseguenza di due anni di occupazione sovietica e del comportamento «complice» degli ebrei; questa posizione è sostenuta da storici come Tomasz Strzembosz (in Rzeczpospolita, 27 gennaio 2001) e Slawomir Radon che hanno sottolineato, senza ovviamente giustificare l’orrore del pogrom, come gli ebrei fossero percepiti come dei «nemici dei polacchi» in quanto denunciavano i patrioti ai servizi di sicurezza sovietici. Rifiuto: è quello di coloro (come alcuni giornali quali Nasz Dziennik, Niedziela e Glos, legati agli ambienti più retrivi del cattolicesimo nazionalista) che negano ogni valore di verità storica al libro di Gross e sostengono che faccia parte di «un tentativo di imporre il diritto talmudico che caratterizza i popoli di cultura inferiore, nomadi, e che prevede la “responsabilità collettiva”, mentre invece il diritto romano presume l’innocenza fino a prova contraria e la responsabilità individuale». L’anziano storico Jerzy Jedlicki in un lungo scritto di riflessione sulle polemiche provocate dal libro di Gross (Polityka, 10 febbraio 2001) ha giustamente sostenuto: «Nel patrimonio della coscienza collettiva polacca contano sia l’eroismo sia il disprezzo, sia la pietà sia la mancanza di pietà. Perché ci sono due registri della memoria. Purtroppo non possiamo sceglierne solo uno: se accettiamo l’eredità delle generazioni precedenti ci tocca l’eredità sia della loro grandezza che della loro meschinità, sia dell’onore che della vergogna». La vergogna e il pentimento hanno, e devono avere, una grande importanza nella costruzione di una società civile, soprattutto per un Paese come la Polonia dove «la memoria è un luogo dove non ci sono ebrei» (come ha scritto l’antropologa Johanna Tokarska-Bakir, in Gazeta Wyborcza, 13 gennaio 2001) e per troppo tempo si è rimossa la propria storia, nella sua versione meno eroica e infame.

Jedwabne nella Rete.

http://www.guardian.co.uk/international/story/0,3604,519718,00.html - Le scuse del primo ministro polacco.
http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/europe/newsid_1719000/1719790.stm/ - bossoli trovati a Jedwabne non sono di quelli usati dai nazisti. - http://www.jewishpost.com/jp0710/jpn0710x.htm/ - I parenti delle vittime che si lamentano degli ultimi sviluppi del caso.

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da «Diario», 25 gennaio 2002, per gentile concessione

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