Diario

I campi del duce

Sotto il fascismo l’internamento dei civili e le deportazioni si avvicinarono allo sterminio e alla pulizia etnica. Ne fecero le spese libici, etiopi, somali, sloveni e croati

di Carlo Spartaco Capogreco

 

Le deportazioni e l’internamento dei civili erano pratiche ben note all’Italia monarchico-liberale: si pensi, per esempio, alle migliaia di libici deportati a Ustica e alle Tremiti dopo la rivolta di Sciara Sciat del 1911, o al campo-prigione di Nocra, istituito nel 1895 su una delle isolette che fronteggiano Massaua. Fu sotto il fascismo, tuttavia, che i campi di concentramento vennero usati in grande stile e le deportazioni si spinsero ai limiti della «pulizia etnica» e dello sterminio. Nel 1930, il generale Rodolfo Graziani portava a compimento la «pacificazione» della Libia con una deportazione in massa che non ha precedenti nella storia dell’Africa moderna: quasi 100 mila civili seminomadi del Gebel (un ottavo dell’intera popolazione libica di allora) furono rinchiusi in 15 enormi campi di concentramento realizzati nella Sirtica. Dopo tre anni di segregazione penosa, rimase in vita poco più della metà dei deportati. Nel 1935, a poche settimane dall’inizio del conflitto italo-etiopico, un nuovo campo di concentramento italiano venne aperto a Danane, in Somalia. Sino alla sua chiusura (avvenuta nel marzo 1941), vi si avvicendarono circa 6.500 tra etiopi e somali: per la fame e le disastrose condizioni igienico-sanitarie poco meno della metà degli internati perse la vita. Durante la Seconda guerra mondiale, campi per civili furono realizzati sia nel Regno d’Italia che nei territori occupati da truppe italiane. Nella penisola ne funzionarono di due tipi: quelli sottoposti al ministero dell’Interno (già responsabile delle colonie di confino), destinati ai vari gruppi di internati civili di guerra; quelli di pertinenza del regio esercito, che accoglievano deportati civili jugoslavi. Entrambi furono accomunati dalla denominazione ufficiale di «campo di concentramento», qualifica che ritengo attribuibile ai soli campi ad amministrazione militare e non a quelli controllati dal ministero dell’Interno, da denominare, semplicemente, «campi di internamento» – ciò che effettivamente essi furono. Tuttora poco conosciuti ai più e spesso circondati da un alone d’incredulità, i campi d’internamento, in realtà, sono da tempo ben noti agli storici e agli altri studiosi che si occupano dell’argomento: già nel giugno del 1989 chi scrive ha presentato il loro elenco definitivo al IV Convegno internazionale Italia Judaica. Vero è che – per una serie di ragioni – quelle vicende storiche sono rimaste a lungo vittima di amnesie e di rimozioni. Generalmente attrezzati in edifici preesistenti (ville, castelli, fattorie, opifici, conventi, scuole, normali abitazioni ecc.), i campi del ministero dell’Interno ebbero una capienza media di circa 150 posti e una dislocazione geografica che ha interessato il Centrosud della penisola. In Toscana i campi d’internamento furono tre: Bagno a Ripoli, Montalbano di Rovezzano e Oliveto di Civitella della Chiana. Nelle Marche sei: Sassoferrato, Fabriano, Urbisaglia, Treia, Petriolo e Pollenza. In Umbria, un campo operò a Colfiorito di Foligno, mentre nel Lazio vennero utilizzati l’ex colonia di Ponza, quella ancora attiva di Ventotene e, in scarsa misura, il «centro di lavoro» per confinati di Castel di Guido; campi con baraccamenti, di notevoli dimensioni, sorsero invece alle Fraschette di Alatri e a Castelnuovo di Farfa. In Abruzzo-Molise i campi furono 19: Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Nereto, Tortoreto, Tossicia, Notaresco, Città Sant’Angelo, Chieti, Casoli, Marina di Istonio, Lama dei Peligni, Lanciano, Tollo, Agnone, Boiano, Casacalenda, Isernia e Vinchiaturo. Quattro in Campania: Ariano Irpino, Monteforte Irpino, Solfora e Campagna. Anche i campi pugliesi furono quattro ed ebbero sede a Manfredonia, Alberobello, Gioia del Colle e nella colonia delle Tremiti. In Lucania svolse anche funzione di campo d’internamento la colonia di Pisticci, mentre in Calabria venne costruito un campo ad hoc a Ferramonti, non lontano da Cosenza. In Sicilia, infine, furono appositamente riconvertiti i locali delle ex colonie di Ustica e di Lipari. In Emilia-Romagna funzionarono gli unici due campi d’internamento dell’Italia settentrionale: Montechiarugolo e Scipione di Salsomaggiore. Italiani o stranieri che fossero, i civili internati dal ministero dell’Interno non furono mai sottoposti a crudeltà o violenze premeditate. Fino all’8 settembre 1943, neppure gli «ebrei stranieri» (definizione usata allora dalla burocrazia per indicare gli israeliti provenienti da Stati retti da regimi antisemiti), quantunque bollati dal fascismo come «elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari», vennero sottoposti a misure persecutorie particolari. Tant’è che le stesse organizzazioni ebraiche, dopo le prime reazioni piuttosto allarmate, finirono per tranquillizzarsi, considerando sostanzialmente l’internamento in Italia – in quel frangente – come «il male minore». Tuttavia il soggiorno nei campi – come ebbe a scrivere uno dei primi internati – «se materialmente non era terribile, spiritualmente rappresentava una sofferenza per i disagi morali e le preoccupazioni per l’avvenire». Inizialmente il sussidio di lire 6,50, fornito dal governo agli internati indigenti, consentiva loro di procurarsi un vitto accettabile, poiché, sul cliché di quanto sperimentato nelle colonie di confino, anche nei campi vennero realizzate mense autogestite e altre strutture cooperative. Ma, dalla seconda metà del 1941, la penuria alimentare e l’affollamento degli alloggiamenti cominciarono a incalzare soprattutto per quanti erano internati nei campi maggiori (i più affollati e gli unici con recinzione) e avevano minori occasioni di scambio con i popolani e di approccio con il mercato nero. A fianco di un internamento ufficiale e «regolare» gestito dal ministero dell’Interno, nell’Italia fascista ve ne fu anche uno «selvaggio», messo in atto dalle forze armate. Esso si realizzò, per la sua gran parte, nei territori del Regno di Jugoslavia che furono occupati o annessi dall’Italia in seguito all’invasione nazifascista del 6 aprile 1941. In quelle zone, nel quadro di un’occupazione violenta ed esplicitamente razzista, l’esercito italiano fece frequente ricorso a metodi ritenuti tipicamente nazisti, quali l’incendio di villaggi, le fucilazioni di ostaggi e le deportazioni in massa dei civili in speciali campi di concentramento ubicati sia in Italia che negli stessi territori occupati. Dell’intero capitolo dell’internamento fascista, la parte a gestione militare fu preponderante sul piano quantitativo e ingiustificabile sul piano del diritto: per via delle dure condizioni di vita dei deportati, infatti, furono a essa addebitate reiterate violazioni del diritto internazionale bellico e dello stesso codice penale militare di guerra italiano. Non a caso, alla fine della Seconda guerra mondiale, i principali responsabili e organizzatori di quei campi e di quel sistema di deportazione impiantato dal regio esercito (tra i primi, il generale Mario Roatta, generalmente noto come «protettore di ebrei») vennero additati come criminali di guerra. Ma la mancanza di una Norimberga italiana ha fatto sì che le accuse di «internamento in condizioni disumane» (come quelle relative ad altri crimini), inoltrate alle apposite commissioni internazionali dal governo jugoslavo e da quello di altre nazioni aggredite dall’Italia, cadessero praticamente nel vuoto. Tra i campi gestiti dalle autorità militari, in Italia quello dalle maggiori dimensioni (ospitava mediamente 5 mila civili) operò, dal marzo 1942, a Gonars (Udine), dove, in un anno e mezzo di attività, persero la vita più di 400 deportati. Nell’estate dello stesso anno due campi di circa 3 mila e 4 mila posti furono attrezzati in altrettante caserme dell’esercito a Monigo di Treviso e a Chiesanuova di Padova. Tra il 1942 e il 1943, altri due grandi campi vennero istituiti a Renicci di Anghiari (in provincia di Arezzo) e a Visco (allora in provincia di Trieste). Dal gennaio 1943 venne utilizzato per gli «allogeni» (così venivano indicati, con disprezzo, gli appartenenti alle minoranze slovena e croata che il fascismo, per anni, cercò rozzamente di italianizzare) anche l’ex campo per prigionieri di guerra n. 93, sito a Cairo Montenotte (Savona). Nello stesso periodo in Umbria venne ingrandito e destinato a deportati montenegrini il campo di Colfiorito, nel comune di Foligno. Tra i campi fascisti operanti in territorio jugoslavo, voglio ricordare quello allestito sull’isola di Arbe, con oltre 11 mila internati, del quale ho già riferito su Diario nel settembre 1998, in occasione del 55° anniversario della sua liberazione. Nel campo di Arbe, definito «di sterminio» da alcuni autori jugoslavi, per gli stenti, la fame e la mancanza di qualsiasi assistenza internazionale, persero la vita in un anno non meno di 1.400 internati civili, principalmente sloveni. Monsignor Giuseppe Srebrni, vescovo della vicina isola di Veglia, rimase estremamente impressionato da quanto visto durante una visita a quel campo: quella di centinaia di figure scheletriche, che sfinite dalla fame si trascinavano nell’improbabile ricerca di qualcosa da mangiare, era infatti una scena del tutto consueta. I modelli di riferimento dei campi italiani della Seconda guerra mondiale non vanno ricercati – come, purtroppo, assai spesso avviene – nei lager tedeschi, e neppure in quelli di altri regimi totalitari. La «filosofia ispiratrice» dell’internamento civile fascista non mirava, in linea di principio, allo sfinimento degli individui o allo sfruttamento del loro lavoro schiavo, ma alla «semplice» messa al bando dei nemici, dei «pericolosi», degli indesiderabili. Tuttavia, l’internamento realizzato dal nostro esercito nei Balcani, per la forte componente razzistica, la notevole entità delle deportazioni e le caratteristiche particolarmente negative dei campi di concentramento utilizzati, è certo più vicino ai vecchi metodi di segregazione coloniale (in particolare alla «deriva concentrazionaria» attuata dal fascismo nel corso delle campagne per la «riconquista» o la «pacificazione» di taluni territori) che non al confino politico o all’internamento «garantista» praticato dal ministero dell’Interno nei territori dell’Italia metropolitana. Ma dell’internamento jugoslavo, come pure di quello inflitto dall’Italia alle popolazioni africane, nel dopoguerra non rimasero che tracce sbiadite nella memoria degli italiani. Nel 1965, a una delegazione di ex combattenti giunti dalla Slovenia per rendere omaggio alle spoglie mortali dei propri connazionali che persero la vita nel campo di Monigo – che aveva operato alla periferia della città di Treviso – né le autorità comunali né le associazioni partigiane seppero indicare il luogo di sepoltura di quegli sventurati. Fu proprio grazie a quella visita, del resto, che la maggior parte dei trevigiani ebbe modo di prendere coscienza della passata esistenza di un campo di concentramento nei pressi della loro città… Arthur Koestler, per dare un’idea delle condizioni di vita nei campi di concentramento non nazisti, immaginò un’unità di riferimento della quale il campo francese di Le Vernet d’Ariège (dove egli stesso era stato internato nel 1939) costituiva «lo zero dell’ignominia». Prendendola qui come riferimento, si può affermare a ragione che i campi del ministero dell’Interno non sconfinarono mai nel «sottozero» della scala centigrada proposta da Koestler; lo fecero, invece, spesso e di misura, i campi allestiti dall’esercito italiano in Jugoslavia, Grecia e Albania, e qualcuno di quelli ubicati nei vecchi confini del Regno d’Italia, nei quali, per alcuni periodi, la lotta per la sopravvivenza e la morte dei deportati per la fame e le terribili condizioni igienico-sanitarie furono parte del consueto scenario quotidiano. Ritengo che la collocazione extra legem di tali strutture di concentramento appaia del tutto evidente se si considera, in particolare, che ai civili jugoslavi internati – la maggior parte dei quali furono definiti italiani «per diritto annessione» – l’Italia negò lo status di «sudditi nemici», privandoli così (sino alla caduta del regime fascista e quasi allo scioglimento della maggior parte dei campi) dell’assistenza del proprio governo in esilio e di qualsiasi supporto umanitario: soltanto il 19 agosto 1943 il ministero degli Affari Esteri concesse al Comitato internazionale della Croce rossa la possibilità di assistere i civili jugoslavi internati in Italia. Ciò solo a condizione che tale atto non avesse «carattere ufficiale de jure, ma soltanto di pratica e umanitaria azione di soccorso».

I lager italiani e gli italiani nei lager nella Rete.

http://www.entasis.it/entasis_aprile/ebrei_a_palermo_2.htm - L’internamento degli ebrei a Palermo durante il fascismo. http://www.deportati.it/%2040%20mila%20italiani - 40 mila italiani che soffrirono nei lager.
http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stampati/sk7500/frontesp/7471.htm  - Proposta di legge per l’istituzione dei parchi storici della Resistenza e della Seconda guerra mondiale.

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dal giornale «Diario», del 25 gennaio 2002, per gentile concessione

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