Diario

L’ex soldato tedesco: Sparavo piangendo

di Biagio Autier

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Non sono andato a vedere Il mandolino del capitano Corelli e il tanto parlare in questo periodo della strage di Cefalonia mi ha fatto rivivere una drammatica testimonianza, tanto che mi sono emozionato ancora, proprio come su quel traghetto che nell’estate del 1994 mi portava un po’ illusoriamente sulle tracce di Ulisse, nella «petrosa» Itaca. Mi ero imbarcato a Brindisi con il disappunto che non ci fosse una nave per Itaca, solo per Cefalonia; da lì il giorno dopo, una grossa monobarca ci avrebbe trasferito a Ithaki. Al nome di Cefalonia riaffiorò in me per un momento, dalla mia memoria di antifascista, l’eccidio compiuto dai nazisti, ma l’eccitazione per la mia personale odissea, la lettura della stessa mi cullarono insieme alle onde dello Ionio, rimuovendo ogni sentimento che non fosse il piacere del viaggio. La nave veloce fendeva le onde dirigendo verso la grande montagna che ora sempre più distintamente appariva: Cefalonia. Sul ponte fremeva la folla turistica, si preparava a scendere con rumori e gridolini, frasi fatte e oli abbronzanti. Mi spostai sul ponte di poppa liberando lo sguardo verso questo stretto canale che separa le due isole, fu lì che vidi quell’uomo, rivolto verso Cefalonia. Era alto, indossava una camicia bianca, un pantalone corto di cotone e dei sandali. Una mano stringeva il parapetto della nave, con l’altra reggeva un bastone da passeggio e un panama, le larghe spalle erano scosse come da singhiozzi, i capelli bianchi luccicavano nel riverbero del sole; guardava un punto fisso sulla montagna e piangeva, gli occhi dello stesso colore del mare cercavano nella disperazione un senso di pace: «Scusi signore ha bisogno di qualcosa, sta male?». Si voltò verso di me asciugandosi gli occhi: «Danke, sto bene così». Uno strano accento tedesco e uno sguardo irrequieto mi avvolsero per un istante: «Lasciami piangere». Non dissi nulla ma rimasi vicino lui cercando anch’io chissà cosa con lo sguardo su quella montagna. La sua voce intonò un racconto breve, intenso, interrotto da singhiozzi e da una disperazione vera, pesante che lo accompagnava da cinquant’anni. Era un sottufficiale tedesco di stanza a Cefalonia e partecipò all’eccidio. Sparò sui soldati e fu deriso dai suoi camerati perché sparava e piangeva, piangeva e sparava, e quel pianto, quella disperazione non lo avevano abbandonato mai nemmeno per un istante della sua vita, sola, piena di immensi rancori. Nel suo sfogo catartico mi raccontò del sordo rumore delle pallottole sui corpi ammucchiati dei soldati italiani, della confusione sull’isola nei giorni che precedettero la strage, poi scosso da un sorriso inconsueto mi disse di un sergente, forse abruzzese, di cui aveva ben impressi nell’anima il volto e la voce, con lui andava su per le colline di Argostoli a caccia di lepri e pernici e solo in quei momenti riuscivano a sopportare il peso di una guerra di cui erano loro malgrado protagonisti. Nel vento cercava qualcosa che potesse cancellargli il marchio di carnefice, le grida e i lamenti di quei giorni crudeli. Rimasi inquieto sulla scaletta della nave, lo vedevo allontanarsi, salire su un taxi e lasciare intatto intorno a noi il suo dolore. Non riuscii ad andare a Itaca se non dopo aver vagato per tre giorni su Cefalonia alla ricerca di luoghi e ricordi che mi parlassero ancora di questa vicenda, ora non so se riuscirò a vedere il film, so che il dolore di un odiato nazista era così disperatamente umano, cosi pietosamente umano dall’avermi spinto ancor più verso la meta, come Ulisse, come ognuno di noi.

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da «Diario», 25 gennaio 2002, per gentile concessione

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