Diario
Io, Luigi, che non morii a Cefalonia
Vive a Cernobbio, in miseria, il
soldato italiano che sfuggì all’eccidio nascondendosi sotto ai cadaveri
di Pietro Berra
Se fosse di marmo, sarebbe un monumento perfetto alle vittime del nazifascismo. Lui che è sopravvissuto due volte a quella che definisce «l’infima precisione ariana»: la prima a Cefalonia, dove i tedeschi trucidarono 9.640 soldati italiani, la seconda nei lager, quando divenne schiavo di Hitler. Il sindaco del suo paese, Cernobbio sul lago di Como, il diessino Giulio Isola, ha invitato Ciampi a fargli visita, proprio come si fa ai monumenti, ma, riprendendo un’altra lettera mandata al presidente dalla moglie del reduce, gli ha chiesto anche di attivarsi per fargli avere la pensione di guerra attesa da una vita, per dargli la possibilità di morire nel suo letto. Già, perché Luigi Villaggi, 83 anni il prossimo mese, purtroppo è fatto di carne e ossa, martoriate dalle malattie. E tenere in casa un invalido al cento per cento è un lusso per chi, come lui e la sua consorte, può contare soltanto sulla pensione minima (730 mila lire a testa), più 850 mila lire di assegno di accompagnamento e il misero vitalizio concesso ai reduci della Seconda guerra mondiale (30 mila mensili). Per due volte, in verità, la storia è stata sul punto di pagare il debito che ha con lui, ma all’ultimo momento lo ha beffato. Una causa trentennale per ottenere la pensione di guerra come grande invalido si è risolta, nel 1994, con una sentenza negativa della Corte dei conti di Milano, che non ha riscontrato legami tra l’enterocolite manifestatasi nel 1941 e le peripezie vissute al fronte. Più di recente Villaggi ha visto sfumare i risarcimenti stanziati dalla Germania per i lavoratori coatti del Terzo Reich, poiché gli italiani sono stati equiparati, dopo una lunga disputa storico-giuridica, ai prigionieri di guerra, anche se all’epoca tale status non gli fu riconosciuto proprio per poterli sfruttare. A chi lo va a trovare, il reduce scaraventa in faccia, con uno sguardo duro che lascia presto il posto al pianto, gli episodi più allucinanti della sua esperienza militare. «A Cefalonia», sibila, «mi nascosi sotto i cadaveri dei commilitoni fucilati vicino al porto di Argostoli, la capitale dell’isola». «Quando uscii dal quel nascondiglio», continua, «fui catturato e portato a Patrasso, dove ci sputarono addosso, mentre ci urlavano “Badoglio”, che per loro voleva dire traditori». Le lacrime prendono il sopravvento e per ricostruire più dettagliatamente la vicenda di Villaggi bisogna basarsi sulla documentazione che la moglie, Carla Riva, conserva in un cassetto: c’è la medaglia che la patria gli diede per aver partecipato alle campagne di Grecia e Jugoslavia tra l’ottobre del 1940 e l’aprile dell’anno successivo; un altro distintivo è invece il segno di appartenenza alla Hasag, fabbrica per cui produsse bombe, gratis e in condizioni bestiali, durante la prigionia in Germania; e poi un libro, C’era la guerra (Nodo, Como 1992) di Rosaria Marchesi, in cui è contenuta una sua ampia intervista rilasciata prima che un’ischemia cerebrale, nel 1994, ne fiaccasse definitivamente le membra e lo spirito. Ultimo di cinque fratelli, Luigi era la pecora rossa della famiglia, nel senso che professava idee socialiste, mentre gli altri quattro erano fascisti convinti. Chiamato alle armi nel 1939, l’8 settembre del 1943 si trovava a Cefalonia con la divisione Acqui. «Ero aggregato al Genio», racconta, «perché ero stato retrocesso di grado a causa di un litigio con un sergente». Dopo l’armistizio, prosegue Villaggi, «si radunarono i due generali, Ghezzi e Gandin, con il tenente colonnello Mastrangelo e tutti gli ufficiali superiori. Si trattava di decidere come comportarsi». Tre le possibilità: cedere le armi, allearsi con i tedeschi, oppure considerarli nemici e quindi combattere contro di loro. «Ghezzi suggerì di mandare gli ufficiali nei reparti per chiedere ai militari se volevano o no continuare la guerra. Tutti risposero di sì». Dopo un’imboscata dei tedeschi nei pressi del castello di Argostoli e la scampata fucilazione, Villaggi fu fatto prigioniero il 21 settembre. «In carcere», si legge nella sua testimonianza, «vennero a cercare qualcuno del Genio per riparare una radio tedesca. I compagni indicarono me e io andai. Fu a questo punto che i nazisti mi proposero di firmare un modulo in cui dichiaravo di unirmi a loro volontario. Non accettai e fui riportato in cella». Villaggi sopravvisse anche all’affondamento dei tre piroscafi su cui furono caricati i prigionieri, tremila dei quali morirono annegati. «Venni imbarcato su una nave», dice, «che al largo tra capo Passero e Zante fu colpita dai tedeschi stessi. Spararono nello scafo e si misero in salvo sulle zattere di salvataggio. Io e altri tre riuscimmo ad aggrapparci a una tavola. Siamo rimasti alla deriva per un paio di giorni, finché siamo stati avvistati e recuperati da un ricognitore, che ci ha portati a Patrasso, ma nel frattempo due di noi erano morti assiderati». I «traditori badogliani» erano destinati al lavoro coatto in Germania. Villaggi, però, essendo ancora in preda alla febbre alta dovuta al freddo patito nelle acque dell’Egeo, finì prima in un ospedale, dove riuscì persino a ottenere un documento per il rimpatrio. Ma il caso volle che il parere decisivo toccasse a un medico suo compaesano, passato con il nemico, che per un risentimento personale lo dirottò su un treno merci per Mühlberg. Di lì in Sassonia a fabbricare bombe anticarro. «Quando entrai in confidenza con i tre olandesi che comandavano il mio reperto», riferisce Villaggi, «si decise di effettuare un sabotaggio: non mettevamo più le spolette nelle bombe, ma le buttavamo nel gabinetto. Solo che, quando lo stoccaggio difettoso fu scoperto, cominciarono le ritorsioni». A quel punto per il soldato comasco si riaprirono le porte della prigione, quella di Torgau stavolta, dove fu torturato per tre giorni. «Quando venni scarcerato», continua, «fui mandato sul fronte russo. Servivano degli addetti al trasporto delle munizioni, un lavoro pericoloso, esposto al fuoco nemico, per il quale venivano impiegati i prigionieri. Era l’inverno del 1944, non avevo abiti adeguati e fui costretto a togliere la giacca a un morto». Quell’indumento tedesco gli costò la condanna a due anni di lavori forzati in Siberia, quando fu preso dai russi che lo accusarono di essere un collaborazionista. «Eravamo nella zona di Odessa. Ci sorvegliavano i cosacchi e io feci capire che avevo bisogno della latrina. Era tutto all’aperto, così approfittai dell’occasione per filarmela». Il viaggio di ritorno durò nove mesi, fino al settembre del 1945. Villaggi arrivò a Cernobbio stremato nel fisico e nella psiche. «Pesava 38 chili e aveva contratto la malaria», dice la moglie. «Di notte, poi, si svegliava di soprassalto urlando “Buttati in mare” o invocando aiuto. Ogni tanto succede ancora adesso». Ostacolato dai fratelli («Se avessi saputo che mio padre era morto nel 1944», arriva a dire, «non sarei tornato più»), Luigi trovò un lavoro come rappresentante, ma non venne mai messo in regola, tant’è che la sua minima è frutto di contributi volontari. Nel 1975 un primo infarto lo avviò verso l’invalidità totale. Rimane ancora un «cimelio» nel cassetto di Villaggi: un recente ritaglio di giornale relativo alla proposta, avanzata da un senatore di An, di concedere il titolo di cavalieri della Patria ai ragazzi di Salò. La moglie lo prende in mano e sbotta: «Hanno ragione i reduci di Cefalonia», appena una ventina quelli ancora vivi, «a ritenersi eroi dimenticati. E sì che Ciampi ha definito il loro rifiuto di collaborare con i tedeschi “il primo atto della Resistenza”».
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da «Diario», 25 gennaio 2002, per gentile concessione |