Diario
Capire e far capire
Entrata nei calendari di molti
Paesi europei, la Giornata della Memoria non va considerata una ricorrenza
ebraica, ma l'occasione per non dimenticare
di Amos Luttazzo
La
Giornata della Memoria, votata nel 2000 come legge dello Stato, che viene
celebrata per la seconda volta il 27 gennaio di quest'anno, non è una
ricorrenza ebraica, anche se ricorda in primo luogo quel capitolo orribile della
storia umana e specificamente europea che è designata, appunto, dalla parola
ebraica Shoah (catastrofe). Perché insisto sul concetto che non si tratta di
una «ricorrenza ebraica»? In primo luogo perché la «giornata del ricordo» (yom
ha-zikaron) nell'odierno vissuto ebraico esiste già, anzi, a ben vedere, ne
esistono due. Abbiamo commemorato i nostri deportati in occasione del digiuno
del giorno 10 del mese ebraico di Tevet (corrispondente al 25 dicembre nel 2001
e al 15 dicembre per il 2002) e al ricordo della Shoah è dedicato lo yom
ha-shoah, che cadrà il 27 del mese di Nisan, corrispondente al 9 aprile 2002. In secondo luogo, questa giornata del 27 gennaio, ormai entrata nelle ricorrenze
di molti Paesi europei, è dedicata a tutti, sia che appartengano a maggioranze
come pure a minoranze, per far capire e per avere l'occasione di approfondire il
concetto secondo il quale una società che perseguita una sua propria
componente, o, peggio ancora, ne progetta scientificamente lo sterminio, è una
società ammalata; e questo suo stato di malattia finirà per colpire, prima o
poi, inevitabilmente, anche altre componenti della società stessa. «Ricordare» significa pertanto riprendere in considerazione eventi passati per
capirne le cause, per verificare se esse sopravvivono nella nostra società
odierna, per ipotizzare infine una nostra comune azione, qui e oggi, perché
questo passato non debba più ripetersi. Se dunque era ammalata tutta la società,
la memoria vigile dovrà essere esercitata da tutta la società e non soltanto
da una sua parte. Sarebbe lecito sperare che questo diventi una consapevolezza e
una guida all'azione per tutta la società, a partire dalle sue istituzioni e i
suoi organismi apicali per estendersi a tutte le sedi associative ed educative,
laddove, come si dice, si forma l'opinione pubblica e la cultura civile di un
Paese. Che cosa bisognerà dunque ricordare, e a partire da quale data? È
istintivo rievocare per prima cosa le «leggi per la difesa della razza» e
pertanto il 1938. Ci si potrebbe richiamare addirittura a un episodio preciso
per segnarne il punto d'inizio e precisamente al discorso di Mussolini a Trieste
in piazza Unità, il «discorso del 18 settembre». Quello stesso duce che aveva
avvisato che il fascismo, anche in materia di razza, avrebbe «tirato dritto»,
aveva annunciato in quella circostanza che alla fine il mondo sarebbe stato
stupito più della generosità che del rigore del fascismo stesso. Erano frasi a
effetto, ma dal contenuto alquanto sibillino. Infatti, «tirare dritto» poteva
significare colpire senza eccezioni tutti gli ebrei; già, ma chi erano costoro?
Forse coloro che avevano almeno un nonno ebreo, come stabilivano le leggi di
Norimberga? E che dire di coloro che, battezzati, appartenevano ormai alla
comunità cattolica? Forse il battesimo si rivelava tanto potente da alterare
persino la genetica? Ma poi, che dire di coloro che parlavano con disinvoltura
di «ebrei al 25 per cento» o di «mezzi sangue»; intendevano atteggiarsi a
biologi? Inventavano una scienza inedita (se pure di scienza si può parlare)? Quanto alla «generosità»; che cosa significava? Che era generoso cacciare gli
ebrei dalla scuola? Perché poi? Se essi erano infidi e malvagi, non sarebbe
stato meglio rieducarli? O forse il regime non aveva fiducia nella sua stessa
capacità di plasmare le menti delle nuove generazioni? Ma poi, ammesso che
fosse giusto cacciare gli ebrei anche dagli uffici, dall'esercito, dal diritto
di avere telefoni e radio, a quale punto si intendeva fermarsi per meritare
l'appellativo di generosi? Tutti i dubbi che affiorano a un'analisi attenta di
discorsi infuocati che mandavano in visibilio le masse convocate in adunate
oceaniche ci costringono a spostare la nostra attenzione a un altro tema e ad
altre date. L'altro tema si condensa nel quesito: come mai, tranne pochissime e
lodevoli eccezioni, la popolazione italiana nel 1938 accettò quei
provvedimenti? In altre parole, dov'erano nel 1938 coloro (e non furono pochi)
che, dal 1943 al 1945, salvarono, a rischio delle proprie vite, gli ebrei
minacciati dalla deportazione? Per rispondere a questa domanda, è necessario andare più indietro nello sforzo
che chiediamo alla nostra memoria. Per trovare una data a quo dobbiamo
riformulare la stessa domanda e chiedere: da quando e con quali strumenti il
regime fascista era riuscito ad arruolare il consenso di massa? Era un consenso
per una politica (cioè a determinati provvedimenti e decreti e ad atti
conseguenti) oppure, assieme e forse anche prima di questo, si trattava di un
consenso a un'ideologia, cioè a un sistema di credenze, di educazione dei
giovani, a una scala di valori dalla quale la politica trae la sua forza e la
sua giustificazione? Anche in tempi recenti, abbiamo letto eccellenti studi in materia, che
riguardano anche altri Paesi. Ma per restare in Italia, come conviveva la
dottrina fascista, quella del razzismo di fine anni Trenta, con altre dottrine
che pur esistevano nella storia italiana? Per esempio, quella cattolica che,
sostenendo il valore sacramentale del battesimo, atto spirituale e non evento
biologico, doveva trovarsi su un altro versante. E che dire delle élites
intellettuali eredi del Risorgimento che avevano inalberato a suo tempo la
bandiera della libertà e della cultura? Dov'erano e che cosa facevano? In parte
tutto ciò può essere spiegato dalla debolezza umana, che spinge tanti a
chinarsi di fronte alla prepotenza, alla violenza fisica, persino ai benefici
derivanti dall'accettazione dell'esistente, rifuggendo i rischi di una
opposizione alla o alle tirannidi. Ma allora, se questo deriva dalla «natura
umana», come evitare che succeda ancora? Va però riconosciuto che potrebbe essere la stessa natura di quello che
chiamiamo moderno a contenere in sé i germi della discriminazione e del
razzismo, anche se questo potrebbe sembrare un paradosso. Se il moderno è ipso
facto progresso, se l'Occidente sta al resto dell'umanità come l'uomo sta al
resto dei viventi; se, in altre parole, esso rappresenta lo stadio «più
avanzato» cui anche gli altri, i ritardatari, le culture arretrate debbono
fatalmente tendere, allora la discriminazione diventa un valore (negativo) che
si insinua nelle nostre coscienze. Anche oggi. Vi è infine un ulteriore pericolo. Essere stati accondiscendenti o silenti è
qualcosa che possiamo spiegare e persino perdonare, ma non certo qualcosa di cui
si possa menar vanto. Pertanto, si tende spesso a cancellarne il ricordo. A
lungo si è parlato criticamente del revisionismo storico e del negazionismo,
che sono forse un poco meno di moda di qualche anno fa. Oggi, per «cancellare»
si fa uso soprattutto di due strumenti: il primo è quello di equiparare la
Shoah a tante altre tragedie della storia umana. Esiste una catena di crudeltà
e di massacri che devono essere sempre denunciati, condannati e, per quanto
riguarda il futuro, bloccati sul nascere. Ma non per questo si può assimilare
la Shoah a questi eventi. Nella Shoah c'è: 1) una cultura della discriminazione
razziale, che diventa l'ideologia portante del regime; 2) una strategia
industriale e freddamente razionale dello sterminio; 3) una ricerca pedante e
accurata della vittima cui non si concede appello, né con la conversione, né
con la fuga, perché la sua destinazione può essere solo l'annichilimento. Il secondo metodo di cancellazione consiste nell'accusare le vittime di essere,
per loro natura, eguali se non peggiori dei loro stessi carnefici. È così che
i «nazisti di turno» sarebbero gli israeliani, che si estendono poi al «sionismo
internazionale» e infine, non senza l'ausilio dei Protocolli dei Savi anziani
di Sion, agli ebrei tout court. In questo moto, una contesa politica quale
quella del Medio Oriente, nella quale non sono assenti antiche e moderne
responsabilità della stessa Europa, si presenta come una contesa religiosa o di
«civiltà», dunque non risolvibile con compromessi ma solo con la scomparsa
materiale di una delle due parti in causa. Anche per questo esiste un'ideologia.
Si chiama terrorismo. E dobbiamo capire come combatterlo. Certo, senza subirlo
supinamente. Ma anche e soprattutto, contrapponendogli un'altra ideologia,
un'altra scala di valori che rifiuti qualsiasi razzismo vecchio e nuovo e che
ponga il principio dell'accoglienza dell'altro da sé al di sopra di qualsiasi
altro principio, vecchio o nuovo.
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da «Diario», 25 gennaio 2002, per gentile concessione |