Diario

Il buon commissario di Fiume

Giovanni Palatucci aiutò molti ebrei a salvarsi, ma non salvò se stesso e morì a Dachau, nel febbraio 1945  

di Alessandro Marzo Magno

 

Eroe? Giusto tra le nazioni? Santo? Chi era e cos’ha fatto davvero Giovanni Palatucci, prima vicecommissario aggiunto e poi commissario aggiunto di Ps a Fiume (Reijeka) dal 15 novembre 1937 al giorno del suo arresto da parte della Gestapo, il 13 settembre 1944? Purtroppo rispondere a questa domanda è quasi impossibile. I fatti certi sono che un certo numero (e quanti non si sa e forse non lo si saprà mai) di ebrei fiumani, ma più in generale di ebrei che si erano rifugiati a Fiume, venne salvato per intervento della questura. L’altro fatto certo è che Giovanni Palatucci morì a Dachau il 10 febbraio 1945. un essere umano internato e ucciso in un lager nazista merita rispetto. Questo rispetto, tuttavia, non deve far venire meno la necessità di una rigorosa ricerca storica che nel caso di Palatucci non c’è mai stata. Sui salvataggi di ebrei a Fiume per intervento della polizia italiana  ci sono solo testimonianze, spesso di seconda mano; è possibile, anzi probabile, che dietro a tutto questo ci fosse Palatucci, ma non è stato trovato alcun riscontro che lo provi. Anzi, il suo arresto da parte della Gestapo (anche se l’ordine d’arresto non ci è giunto) è giustificato dal possesso di un piano per l’assetto di Fiume nel dopoguerra come città-stato, scritto in inglese e destinato agli Alleati. Agli occhi dei nazisti aiutare gli ebrei era un reato molto più grave che possedere un documento in inglese. Ma allora perché motivare in quel modo l’arresto? Andiamo con ordine. Giovanni Palatucci nasce a Montella, in Irpinia, il 31 maggio 1909. la sua è una famiglia profondamente cattolica, tanto che uno zio, Giovanni Maria Palaltucci, è vescovo della diocesi salernitana di Campagna. Palatucci entra in polizia e viene assegnato a Genova. Un telegramma del ministero dell’Interno del 3 novembre 1937 gli annuncia il trasferimento a Fiume. Una nota protocollata il 16 scrive che Palatucci «ha qui assunto servizio il 15 corrente». Fiume risente ancora dell’atmosfera cosmopolita dovuta al fatto di esser stata il porto di Budapest e uno dei crocevia dei popoli che componevano l’impero austroungarico. Ovvio che ci sia un’importante comunità ebraica. Un anno dopo, il 1938, ovvero l’anno delle leggi razziali, arriverà come prefetto Temistocle Testa, un funzionario che dell’antisemitismo ha fatto una bandiera. Ecco un passaggio della lettera che scrive al gabinetto del ministero dell’Interno il 21 ottobre 1940: «Fiume è forse l’unica (provincia) che non permette la chiusura al sabato e alle altre feste, oltre ad aver chiuso definitivamente tutti i negozi ebraici di Abbazia (oggi Opatija), ma ha anche il primato di 200 ebrei internati». Il quotidiano fiumano La vedetta d’Italia, il 24 gennaio 1943, annuncia il cambio del prefetto, dopo cinque anni. Temistocle Testa va all’Intendenza servizi di guerra del ministero, mentre arriva Agostino Podestà, già Alto commissario per gli accordi per l’Alto Adige. Nel frattempo è avvenuto un fatto importante: nel 1941 l’Italia ha invaso la Jugoslavia e ne ha annesso parte del territorio. Un’altra parte del Paese è stata annessa alla Germania, mentre viene creato uno stato-fantoccio dei tedeschi, la Croazia dell’ustascia Ante Pavelic. Nei territori sotto controllo tedesco e croato cominciano i rastrellamenti di ebrei (nel solo autunno del 1941 gli ustascia spediscono nei campi 45 mila ebrei croati), in quelli controllati dagli italiani, nonostante Testa, non accade quasi nulla. «La deportazione degli ebrei è contraria all’onore dell’esercito italiano», risponde a muso duro il comandante della divisione «Murge», generale Paride Negri, a un generale tedesco che gli chiede di svuotare Mostar dagli ebrei. (Menachem Shelah, Italian Rescue of Yugoslav Jews, in The Italian Refuge, edited by Ivo Herzer). Ovvio che in una situazione del genere gli ebrei cercassero di fuggire da tedeschi e ustascia rifugiandosi nelle zone italiane. Ma è meno ovvio che sia accaduto quanto descritto da Goffedro Raimo nel suo A Dachau per amore che di Palatucci traccia un profilo più agiografico che biografico. Ovvero che nel marzo 1939 Palatucci abbia organizzato ad Abbazia un imbarco clandestino di 800 ebrei in fuga dalla Germania sulla nave greca Hagia Zoni con destinazione finale la Palestina. Possibile che il vicecommissario aggiunto abbia potuto organizzare una cosa simile senza che il sunnominato prefetto Testa si accorgesse di nulla? Sempre Raimo afferma che nel medesimo periodo gli ebrei fiumani venivano, su intercessione di Palatucci, destinati a Campagna, sotto la protezione dello zio vescovo. Ma i registri di Campagna testimoniano della presenza di due soli ebrei fiumani. A Fiume tutto cambia all’indomani dell’ 8 settembre 1943. l’esercito italiano sparisce e i tedeschi assumono il controllo diretto dell’area annettendola al Reich col nome di Adriatiche Küstenland (Litorale adriatico). I rastrellamenti di ebrei li fanno direttamente i tedeschi. La questura di Fiume (metà del personale è fuggita) è in una situazione ibrida: dipende formalmente dalla Repubblica sociale, ma di fatto è sotto controllo tedesco. Palatucci resta, nonostante avesse fatto più volte domanda per andarsene (altro fatto incomprensibile: perché avrebbe voluto andarsene mentre aveva a Fiume un compito primario come quello di salvare gli ebrei?). come detto, sarà arrestato nel settembre 1944, giungerà a Dachau il 22 ottobre, gli verrà assegnato il numero 111.826 e morirà quattro mesi dopo. Il 1943 rappresenta un anno di cesura anche nelle fonti. Dall’archivio di Fiume tutti i documenti relativi al dopo 8 settembre sono spariti. Il fascicolo personale di Palatucci (oggi non più visibile se non con espressa autorizzazione di Zagabria) è mezzo vuoto. Ci sono le note burocratiche delle sue domande di trasferimento, le sue richieste di permessi, la nota positiva per essere «di ottima condotta morale, politica e sociale, iscritto al Pnf dal 23 marzo 1928», la promozione a vicecommissario aggiunto in data 28 luglio 1940, con decorrenza 16 maggio. Ma c’è un solo documento posteriore al fatidico 8 settembre. È una lettera del 29 febbraio 1944 indirizzata dal reggente della questura, Tommaselli, a Carlo Paknek, consigliere germanico per la provincia del Carnaro e, per conoscenza, al prefetto (la copia consultata è quella di pertinenza della prefettura, protocollata il 3 marzo). Si tratta di una protesta perché Palatucci il 26 febbraio era stato convocato dal commissariato tedesco e interrogato sul possesso di una radio appartenuta a un’ebrea di nome Weisz. Mentre si trovava nel commissariato, un civile e un agente tedesco erano andati a casa sua chiedendo informazioni sulla medesima radio alla proprietaria dell’appartamento. Il dirigente della questura protesta per il modo irriguardoso utilizzato dai tedeschi nei confronti di un dirigente di polizia italiano. Questa lettera, in ogni caso, permette di appurare che Palatucci, in quel periodo non era questore reggente, ma aveva un superiore. Sarebbe interessante capire dove questi documenti siano finiti. La risposta più logica è a Belgrado, all’archivio militare, dove si trovano altre filze della questura e della prefettura di Fiume. Ma anche Belgrado è avara di notizie su Palatucci. Da una sommaria ricognizione compiuta dalla storica fiumana Lijubinka Karpowicz è soltanto emersa una richiesta di ricerca del 25 novembre 1946 (un anno e nove mesi dopo la sua morte). Il Comitato antifascista del 259° battaglione prigionieri di guerra chiede alla sezione italiana per i prigionieri di guerra, a Belgrado, di voler «comunicare se il compagno Palatucci Giovanni di Felice è prigioniero in Jugoslavia, in quale campo o se è rimpatriato». Una nota a mano del 2 dicembre dice: «Accontentare questo Comitato antifascista e poi rispondere». Su un centinaio di questurini in servizio a Fiume il 3 maggio 1945, quando arrivarono i partigiani di Tito, un’ottantina (non si sa il numero preciso) fu prelevata dai partigiani. Di questi poliziotti, la metà fu ammazzata tra il 14 e il 16 giugno (i titini chiedevano la consegna di quattro funzionari della questura macchiatisi di crimini di guerra e riparati in Italia, consegna che mai avvenne), l’altra metà morì di stenti nei campi di prigionia jugoslavi. Normale, quindi, cercare un poliziotto, meno normale, però, cercare «quel» poliziotto, quel Palatucci il cui arresto per aver salvato (secondo le fonti) dai 961 ai 5 mila ebrei non avrebbe dovuto passare inosservato, tanto più che proprio il suo più stretto collaboratore, il brigadiere Francesco Maione, si rivelerà poi essere un collaboratore dei titini. E Maione, come vedremo, sapeva cosa Palatucci stesse facendo. Né aiutano a inquadrare la figura di Palatucci le testimonianze. Olimpia Motta, esule fiumana oggi residente a Milano, se lo ricorda. Una sera aveva accompagnato la sorella e Wally Farkas a casa di Alice Neumann a giocare a carte. C’era anche il dirigente della questura (che era fidanzato con un’ebrea). «Qualche volta», ricorda Olimpia Motta, «accompagnava me e mia sorella. Era un tipo molto curato, un pennello. Stava sempre attento all’abbinamento dei colori del vestito con le scarpe. In divisa era un figurino, in borghese non aveva mai una cosa fuori posto». Da Kostrena (Fiume) si fa viva Maria Pia Sikic, ovvero proprio la figlia del brigadiere Maione: «Scrivo soltanto quello che mi posso ricordare di questo signore che frequentava la nostra casa, come amico e collega di mio padre. Mio padre, il signor Franco Maione, lavorava alla questura di Fiume nel reparto passaporti e, assieme al signor Palatucci, aveva aiutato molte famiglie ebree a salvarsi dai nazisti, facendo documenti contraffatti con altri nomi per poter viaggiare e salvarsi». Nel 1952 la città di Ramar Gan, vicino a Tel Aviv, aveva chiamato una strada e un parco con il nome di Giovanni Palatucci, una lapide a suo nome lo ricorda nel viale Giusti dello Yad Vashem. Sempre nel 1952 il ministero dell’Interno italiano scrive in una nota: «Non si sono ritrovati elementi che comprovino l’attività del medesimo a favore degli ebrei» e poi «non sembra il caso che il governo debba promuovere un qualsiasi riconoscimento». A questa mancanza di memoria si contrappone oggi un eccesso. Il 15 maggio 1995 è stata assegnata a Palatucci la medaglia d’oro al valor civile, gli si intitolano caserme di polizia, strade, la Rai sta girando un film per la tv su di lui, si è addirittura costituito un comitato che ne promuova la beatificazione. Si sta verificando ciò che nel 1995 lo storico Marco Coslovich ipotizzava in La rassegna mensile di Israel: . «Il tardivo riconoscimento delle autorità italiane rischia ora di alzare ulteriori barriere e ostacoli alla comprensione storica. Il miglior servizio che si potrebbe rendere alla verità storica e alla memoria dello stesso Palatucci è lasciar perdere le agiografie e finanziare una seria ricerca all’archivio militare di Belgrado».  

Il Giusto nella Rete

Beato. Articolo in inglese sulla richiesta di beatificazione di Palatucci. http://www.ewtn.com/vnews/getstory.asp?number=1947 - Centro Simon Wiesenthal. Un lungo articolo sui Giusti in cui è citato Giovanni Palatucci. http://motlc.eiwsenthal.com/resource/books/genocide/chap08.html - 800 mila vite. Sito spagnolo che cita Palatucci per aver salvato 5 mila ebrei. http://personal5.iddeo.es/magolmo/800_800.htm .

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da «Diario», supplemento al n. 4 del 27 gennaio 2001, per gentile concessione

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