Diario

Il Giusto diventa un film

Giorgio Perlasca fece quello che ogni ragazzo ha sempre sognato di fare. Non ha niente da insegnarvi, o forse molto. Eroe dimenticato, prossimamente sarà a casa vostra

di Enrico Deaglio

 

Roma. Un ufficio di produzione televisiva, di sabato, a tre settimane dall’inizio delle riprese. Carlo Degli Esposti il film lo andava cercando da dieci anni, con emozione: Áron Sipos, da Budapest, da altrettanti e con altrettanta emozione domandava quando si cominciava. Ora stanno limando i preventivi, i giorni di lavorazione, gli imprevisti. Io li guardo emozionato perché stanno «facendo partire» il film su Giorgio Perlasca. Gianfranco Barbagallo, giovane, romano, organizzatore, ha trovato «lo scalo merci»,  «le case protette», tremila comparse, ha sotto controllo le sarte che in questo momento stanno cucendo divise militari, inamidando i colletti degli abiti da sera per la scena dell’hotel Hungaria e le uniformi dei boyscout che rendevano i ragazzini di Budapest, ebrei e non ebrei, dei piccoli proprietari con gli alamari, ma non bastarono a salvare tanti ragazzi ebrei  da Auschwitz. «Ancora un anno e non sarebbe stato più possibile girare a Budapest. Sai, non è più quella che avevate visto voi. Sale Benetton, sale Mac Donalds, l’Hungaria l’ha comprato una catena di albergatori italiani, ci sono scritte Panasonic che in ogni campo lungo ci vai a incocciare sopra. Però abbiamo ritrovato tutto, per un pelo …». Giorgio Perlasca, con Carlo e Áron, lo conoscemmo dodici anni fa. Un signore padovano di ottant’anni che, nel silenzio della stampa italiana, aveva appena ricevuto le più alte onorificenze in Israele e in Ungheria per aver salvato – lui, straniero in pericolo di arresto – più di cinquemila ebrei di Budapest negli ultimi tre mesi del 1944, prima di essere dimenticato per 44 anni e infine riscoperto da un gruppo di ragazzi di allora che gli dovevano la vita. Anche lui, lo beccammo per un pelo. Facemmo una puntata di Mixer, poi io mi misi a scrivere la sua storia. Quando morì, nel giorno di Ferragosto del 1992, Giorgio Perlasca era diventato una persona molto conosciuta e a Padova, per i suoi funerali arrivarono duemila persone e telegrammi da tutto il mondo: benché povero (con i modesti benefici della «Legge Bacchelli», due milioni al mese non reversibili alla vedova Nerina), era cavaliere nominato dal presidente della Repubblica, era un eroe per la stampa degli Stati Uniti, conservava nel salotto di casa le onorificenze e le medaglie che gli avevano offerto centinaia di scuole e associazioni. Gli ha voluto molto bene nei due anni in cui l’ho accompagnato in giro. Era alto, secco, con occhi azzurri non ancora del tutto prosciugati. Aveva una memoria prodigiosa, uno charme innato, uno spiccato interesse per le donne, che le donne spontaneamente ricambiavano. Non gli ho mai sentito dire di sé qualcosa di vanaglorioso. Aveva amato, nella vita, Gabriele D’Annunzio, Mussolini, la Spagna (suo figlio Franco non era stato chiamato così per un nonno, ma in ricordo del Generalissimo), l’ordine, i bambini, Trieste e Fiume, gli ebrei suoi amici di adolescenza, «anche se loro, la sera, andavano a casa a studiare, mentre io preferivo andare all’osteria». Nelle prime pagine di questo numero di Diario, Furio Colombo indica in Giorgio Perlasca e Giovanni Palatucci (funzionario di polizia della Questura di Fiume, di cui si parla nel prossimo articolo) i primi due tra i Giusti che «il giorno della memoria» dovrebbe ricordare. Nel 1944 aveva 34 anni. A Budapest faceva il commerciante di carne. Quando Hitler promosse il colpo di Stato che diede il poter in Ungheria alle «Croci Frecciate» e al loro mostruoso delirio omicida, Perlasca era un italiano che dopo l’ 8 settembre si era schierato con il re e con Badoglio.un ricercato. Si trovò senza documenti, chiese aiuto alla Legazione di Spagna, dove era conosciuto perché in gioventù aveva combattuto tra i volontari italiani in favore di Francisco Franco e ottenne un passaporto con il nome «Jorge»; erano i giorni finali della guerra che i nazisti sapevano perduta e che a Berlino ormai interessava solo per una parte del programma: lo sterminio totale degli ebrei d’Europa. Giorgio Perlasca – nel nome della Spagna neutrale – si finse diplomatico, ottenne le credenziali, organizzò cinque «case protette» in cui ammassò cinquemila ebrei; li rifornì di cibo; trovò soldi; organizzò un abbozzo di struttura militare di resistenza; affrontò fisicamente le Croci Frecciate; salvò, curò, girando su una Buik con le insegne della Spagna in una città di gelo, macerie, cecchini. Affrontò il ministro degli Interni che voleva incendiare il ghetto, blandendolo e minacciandolo e ottenendone infine la resa. Per cento giorni, Giorgio Perlasca si finse (e fu, a tutti gli effetti) tutto quello che non era: fu ambasciatore, medico, organizzatore della resistenza, consolatore di singoli. Sempre creduto in ognuno di questi ruoli. Quando lo incontrai e cominciai a prendere confidenza con questa fiaba, gli domandai: «Ma lei, Perlasca, aveva avuto la possibilità di andarsene … Perché lo ha fatto?». Lui rispose: «E lei che avrebbe fatto al mio posto?». Poi prese a raccontare alcuni episodi: aveva visto uccidere un bambino ebreo in mezzo alla strada, tra la gente indifferente. Aveva visto  i treni che partivano per la Polonia allo scalo merci, aveva anche visto di persona il famoso Adolf Eichmann – l’Organizzatore, quello che metteva in carico alle ferrovie il viaggio di andata, ma non quello di ritorno – aveva che, con un po’ di coraggio, qualcuno di quei vagoni si poteva tirare giù. E lo fece. Perlasca non mi ha mai detto che tanti avrebbero potuto fare quello che lui aveva fatto. Ha sempre giustificato le ragioni di quelli che si sono tirati indietro, ricordando però tutti quelli (poliziotti, gendarmi) che gli avevano dato una mano. E di sé diceva: «Ero giovane, ero pieno di energia. Ero anche in una condizione unica, perché ero solo. Se avessi avuto mia moglie con me, avrei dovuto prima di tutto salvare lei, non le pare?» Quando lo accompagnai a Washington, dove fu solennemente premiato, Giorgio Perlasca venne «interrogato» a lungo dalla dottoressa Eva Fogelman, autrice di un’approfondita ricerca sui «salvatori» di ebrei durante il nazismo. Quando tornò, era incuriosito: «Mi ha fatto delle domande strane, sa. Mi ha chiesto se quando ero piccolo andavo a giocare nelle case dei miei compagni di scuola, e se loro venivano a casa nostra». Eva Fogelman, che ha poi pubblicato il libro Coscience and courage, riflessioni su trecentocinquanta non ebrei salvatori di ebrei, li ha suddivisi in varie categorie: persone motivate da coscienza religiosa, da coscienza morale, da coscienza ideologica, da filosemitismo e anche, molto spesso, persone colpite dalla brutalità degli eventi che li portò a gesti di coraggio – per alcuni di un minuto, per altri di un’ora, per altri di mesi – che nella vita futura non avrebbero mai più ripetuto. Ma è la cifra che Eva Fogelman mette all’inizio del suo libro – quasi di sfuggita – a risultare la più sconvolgente di tutte: all’apice della sua potenza, il regime hitleriano regnava su settecento milioni di persone, con l’obiettivo dichiarato di sterminare «per sempre» la «razza giudea» che allora abitava l’Europa con tredici milioni di cittadini. I «giusti», quelli che si opposero, furono pochi. Tra di loro ci furono quelli che, secondo Fogelman, erano stati abituati dai loro genitori a rispondere «sì, certo», quando qualcuno in difficoltà bussava a casa loro chiedendo «Posso entrare?»; quelli che, ai soli discorsi, sapevano riconoscere nell’oratore «Ecco un altro che vuole un’altra guerra». Di converso, ormai molto si sa del carattere di chi diede una mano allo sterminio. Lo fecero per odio distillato, per convenienza, per speranza di carriera, per il piccolo tornaconto che la delazione procura. Volenterosamente o banalmente. Erano burocrati, erano la «zona grigia» tanto ora in Italia tornata in auge, erano riservisti della polizia di Amburgo, gente di mezz’età che prima del nazismo aveva anche votato socialdemocratico e che, portata in Polonia non esitò in pochi mesi a uccidere, uno dopo l’altro, 40 mila ebrei di piccoli paesi lamentandosi del sangue che schizzava. E da noi? Da noi non si parla degli 8 mila ebrei italiani accompagnati ai treni. Da noi, in tempo in cui si insegna ai ragazzi che se un albanese ti bussa alla porta, è bene chiudergliela in faccia, si guarda oggi con tanta simpatia ai ragazzi di Salò – Salò boys – potrebbe ormai essere il titolo di un hit al festival di Sanremo – un’aura di beata, ingenua, innocente gioventù di allora, romanticamente capitata lì per caso. Giorgio Perlasca era «umano», tutto qui. Conoscere le sue imprese credo sia utile (come lo è per i bambini Indiana Jones), ma purtroppo l’umanità non è un corso di educazione per gli adulti. Perlasca insegna che non c’è una pillola contro il razzismo, una pozione che rende coraggiosi. Per questo, di mano in mano che cresceva il suo riconoscimento, è cresciuto anche il silenzio alla sua domanda: «Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?». Alla fine dell’anno Giorgio Perlasca arriverà nelle nostre case, un due puntate della Rai, con tutta la forza che la televisione può vantare. Si vedrà un luogo strano, una città che sessantanni fa aveva tra i suoi cittadini più di 200 mila ebrei: facchini e artigiani, infermieri, medici e architetti, rabbini, giornalisti, futuri creatori del grande cinema di Hollywood, scrittori, ragionieri, contabili, industriali, persino degli aristocratici. Nel corso dei secoli si erano insediati, prima sulle colline di Buda, poi a Pest, sull’altra riva del Danubio. Nella centrale via Dohany avevano costruito la più grande sinagoga d’Europa, dalla quale si innalzavano due maestose cupole orientali (oggi restaurata anche con i soldi di Tony Curtis, in ricordo di un papà che veniva dalla campagna e che ci andava: e Tony Curtis, uno dei 500 mila soldati ebrei americani che liberarono l’Europa, non solo non ne sapeva niente, ma in caserma lo trattavano male), nel parco Santo Stefano avevano case di architettura moderna (appartamenti dal bel palchetto in cui Perlasca stivò settanta persone), sull’isola di Cespel i Weiss avevano le acciaierie. (Gli operai di queste acciaierie nel 1944 furono la roccaforte dei nazisti, nel 1956 furono l’avanguardia di Imre Nagy). Ah, non vedo l’ora che il film sia finito! I film possono più di qualsiasi parola. Perlasca che scende da Buda e passa il ponte delle Catene, vede le file avviate al lavoro forzato e la gente alle finestre – i vicini di casa, quelli con cui si scambiavano fino al giorno prima i sacchi di carbone – che applaude i nazisti. Ferma la fila e grida: «Questi uomini sono protetti dalla Spagna!». Più di mezzo secolo è passato prima che si sia potuto raccontare, perché prima il comunismo aveva messo la cortina. Avevo visto, qualche anno fa, le ville di Buda dove abitava la borghesia ebrea ungherese. I luoghi erano cambiati, ma solo nell’interno. Le ville dei morti e degli esiliati conservavano le facciate, ma i saloni erano divise in stanze, delle pareti alcune rimanevano con pezzi di maioliche del bagno, un soppalco tagliava la stanza da letto. Erano diventate le sedi del sindacato dei lattai, piuttosto che del centro stampa e propaganda del partito o chissà che cos’altro. Dicono che il cinema in questi casi debba «duplicare la realtà»; Perlasca una volta mi raccontò che in tutti quei giorni non era mai uscito senza il cappello, e che una domenica, in pieno olocausto, si svolse una partita di calcio con lo stadio pieno. Quando tornò a Budapest per essere premiato, si ricordava tutto: le strade, le singole case, il freddo, la fame. «Eravamo tutti molto magri». Ho chiesto a Gianfranco Barbagallo, l’organizzatore: «Ma le comparse, sono magre?» «Sì, se ne trovano ancora di magre».

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da «Diario», supplemento al n. 4 del 27 gennaio 2001, per gentile concessione

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