Diario

Sempre caro ci fu questo Passato

Serve ancora la Storia? Speriamo di sì, nonostante la Chiesa, una fila di revisori, e una sinistra timorata 

di Giovanni Levi

 

Si è spesso è spesso confuso il revisionismo storiografico, un’operazione scientifica e importante, con l’uso distorto a fini politici di fatti della storia. Per evitare equivoci penso sia bene dare una definizione, per chiarire in che senso ne parlerò in queste pagine. Per uso politico della storia intendo l’uso di fatti realmente avvenuti attraverso una manipolazione, arbitraria e tuttavia persuasiva per un pubblico più sensibile agli slogan che alla riflessione sulla complessità del passato. Gli strumenti più usati sono quello che possiamo definire di falsa analogia a quello che esagera una tesi per rendere accettabile una tesi impropria ma meno estrema. Un esempio, tratto da una lettera di Ernst Nolte e François Furet, in cui troviamo tutte e due le operazioni argomentative: «L’affermazione per cui gli ebrei sarebbero stati nella storia da sempre gli autori di ogni qualsivoglia ingiustizia sociale era manifestatamene irrazionale, anzi ridicola e nient’altro che una curiosa corrispondenza con la tesi del primo socialismo e del marxismo circa il carattere distruttivo della proprietà privata (ecco la falsa analogia). Ma il nucleo razionale dell’antiebraismo nazionalsocialista consistette nella realtà fattuale del grande ruolo che un alto numero di singole personalità di origine ebraica … giocava nel movimento mondiale socialista e comunista. Nucleo razionale non significa necessariamente (si noti l’avverbio) nucleo legittimo: razionale significa comprensibile o intelligibile mediante ragione … Secondo la mia concezione anche l’antisemitismo nazionalsocialista aveva un nucleo razionale, ma questo non era ancora (di nuovo un avverbio significativo) in forza di ciò giustificato, perché metteva in pericolo uno sviluppo possibile e positivo: l’ingresso del movimento dei lavoratori nella socialdemocrazia». (F. Furet-E. Nolte, XX secolo, Liberal, Roma, 1997, pp. 29-30). Qui, come si vede, non si tratta di revisionismo ma di manipolazione argomentativa, di uso politica della storia. Negli anni recenti sono cambiati radicalmente il senso politico e le condizioni stesse di produzione e di scrittura della storia. Si è affievolito, fino a quasi scomparire, il ruolo tradizionale che vedeva nella ricostruzione del passato una delle vie maestre per definire e rinsaldare identità, per legittimare la selezione dei fatti ritenuti rilevanti nel definire il percorso che aveva portato a caratterizzare istituzioni e appartenenze. Nello stesso tempo, il ruolo centrale dell’informazione data attraverso i libri ha perso il suo monopolio e forse anche la sua egemonia, per lasciare spazio ad altri strumenti di comunicazione. Ē così anche mutato il modo dell’informazione: la lentezza e la complessità con cui la storiografia costruisce le sue descrizioni e le sue interpretazioni ha lasciato spazio a una comunicazione semplificata e rapida attraverso i massi media. Anche la canalizzazione dei risultati della ricerca attraverso l’insegnamento scolastico ha perso di fatto esclusività, nella sovrabbondanza di messaggi che ci giungono attraverso molte fonti; tanto che si può dire che ormai il consumatore stesso di storia ha subito una mutazione psicologica e genetica densa di conseguenze. La storia ha dunque perso centralità, anche se gli storici non hanno ancora una coscienza piena della trasformazione del loro spazio d’azione e del loro ruolo. Alla storia come indagine scientifica si è progressivamente affiancato un uso politico pervasivo e distorcente del passato. Un uso politico della storia non è evidentemente una novità: il significato civile e legittimante della ricerca sul passato ha sempre implicato una ridondanza di significato e più forme di utilizzo politico. Ma sia l’aspetto quantitativamente imponente dell’uso attuale, sia la trasformazione dei mezzi di comunicazione danno un carattere nuovo e specifico all’uso del passato come strumento ideologico. Quali sono le cause e quali saranno le conseguenze? Naturalmente se le trasformazioni a cui abbiamo accennato sono generali la situazione è diversa da Paese a Paese. Un grande sforzo di revisione, spesso, attraverso un uso ambiguo dei dati, è stato fatto ad esempio in Germania, dove il tentativo di spiegare il nazismo e di normalizzarlo – non certo di rivalutarlo – ha seguito piuttosto la via del confronto con l’esterno, e in particolare con lo stalinismo, che quella di un confronto con correnti democratiche interne, del resto fragili e improbabili. In Spagna invece, dove la storia occupa un grande spazio nel dibattito politico recente, la nuova destra aznarista rivendica il ruolo tradizionale della storia come strumento di formazione di un’ideologia di nuovo nazionalismo che dia spazio ai grandi personaggi del passato e che riaffermi la unicità storica della nazione contro le spinte autonomiste. Un nuovo ruolo in questo senso è affidato alla storiografia conservatrice e all’ Accademia Real de la Historia che compiono rivalutazioni improbabili come «”liberalismo” l’autoritarismo di Canovas» che «avrebbe portato alla democrazia se una sinistra autoritaria e antiliberale e i nazionalisti periferici non l’avessero impedito» (Santos Julià, Malestar con la historia, El País, 16 novembre 1997). L’uso politico della storia che si è fatto in Italia in questi anni ha aspetti particolari. Creo possa essere caratterizzato come una generale svalutazione di idee o periodi particolari. Il nostro Paese ha avuto lungo la sua storia unitaria una evidente difficoltà a identificare dei miti costitutivi: Risorgimento e Resistenza non hanno saputo rappresentare il mito forte dell’identità nazionale. Il Risorgimento non è stato che in parte una guerra di liberazione nazionale contro l’Impero austriaco. Ē stato innanzitutto la liberazione delle regioni centrali e di Roma dal potere temporale della Chiesa oltreché delle regioni meridionali dal potere borbonico. In un certo senso una guerra civile, che tuttavia portava con sé un greve elemento di equivocità: il Paese cattolico per eccellenza che costruiva la sua unità contro la Chiesa. Non è dunque stato possibile dare un’immagine netta del Risorgimento come mito originario: ne è stato sottolineato specialmente l’aspetto di guerra contro lo straniero, e in questo senso la Grande Guerra ha avuto un ruolo cruciale – come ultima guerra del Risorgimento – a darne un’immagine tutta rivolta alla lotta verso l’esterno. La relazione con i cattolici e con il papato è rimasta come una mina vagante a indebolire la forza identitaria che l’unità d’Italia poteva avere. Mussolini stesso ha così dovuto ricorrere al mito, imperiale ma certo poco mobilitante, dell’antica Roma per trarre simboli e mitologie su cui fondare la sua politica nazionalista e imperialista. Diverso il caso della Resistenza: per quarant’anni è stata presentata come una guerra di tutti gli italiani contro un piccolo gruppo di criminali che avevano instaurato la dittatura. Quando si cominciò a parlare di guerra civile e di adesione di massa – più o meno passiva – al regime, il mito costruito artificialmente della lotta di tutto un popolo contro pochi nemici interni asserviti a un efferato nemico esterno, ha mostrato tutta la sua fragilità. Di fatto molti Paesi hanno fra i loro miti fondatori la guerra civile, ma questa non è interpretata come la lotta di una maggioranza schiacciante, che si avvicina alla totalità, contro un’infima minoranza; è presentata piuttosto come la lotta di una parte giusta contro una parte ingiusta: in questo senso il mito assume tutta la sua forza fondativi. Si pensi alla Guerra di Secessione per gli Stati Uniti d’America come lotta del moderno e dell’umano contro la conservazione e lo schiavismo; o alla Rivoluzione inglese, come vittoria del costituzionalismo contro l’assolutismo.; o alla Rivoluzione francese come distruzione della società aristocratica e feudale da parte della borghesia moderna. Guerre civili, insomma, che spesso uniscono la loro immagine di vittoria della parte buona contro quella cattiva con guerre nazionali verso l’esterno, vittoriose perché frutto appunto dell’adesione dei cittadini alla parte buona vittoriosa. La definizione della lotta di Liberazione come guerra civile è dunque giunta in ritardo e non ha avuto il potere di preservare la Resistenza come la vittoria delle idee e delle istituzioni a cui si  dà un valore positivo, un carattere politico ma morale fondante rispetto alle istituzioni e alle ideologie negative. Lo sforzo è stato quello del riequilibrio: giovani idealisti contro giovani idealisti.  Anzi parso bene a molti storici di sinistra di cominciare a studiare le violenze partigiane, i delitti commessi subito dopo il 25 aprile in uno sforzo di antiretorica che tuttavia ha determinato una diffusa sensazione che ci sia poco da salvare di quell’esperienza e che entrambe le parti siano di fatto «colpevoli». Un ruolo centrale nella nascita delle varie forme di revisione del passato ha certamente giocato la fine del bipolarismo e il crollo del sistema sovietico. Il significato che ciò ha avuto nel concludere un lungo dopoguerra è senza dubbio alla base di molte spinte a un dibattito più aperto e meno condizionato da un contesto politico minacciato dal conflitto tra i due blocchi. Ma anche qui si è manifestata una specificità italiana: la presenza del più grande partito comunista dell’Occidente, il cui contributo alla costruzione dell’Italia democratica con la sua Costituzione e con le sue istituzioni avrebbe fatto pensare che il passaggio al postcomunismo – pur con la condanna dello stalinismo e delle aberrazioni del totalitarismo sovietico – avvenisse con la preservazione dei valori positivi che quell’esperienza aveva portato. Non credo che si possa dire che la sinistra italiana abbia saputo difendere i suoi principi creando un’alternativa forte e una prospettiva evidente per il futuro. Si è trattato piuttosto di un adeguamento che non portava con sé l’affermazione precisa dei valori democratici dell’antifascismo e del laicismo. L’ansia di legittimarsi ha portato così un contributo potente all’indefinitezza dei valori: le ragioni ideali dei giovani che avevano aderito alla Repubblica di Salò sono state accostate ai valori che avevano portato ad aderire alla Resistenza, la sublimazione del mercato è stata sostituita alla politica di programmazione economica, l’adesione alla Nato ha perso i dubbi che l’avevano accompagnata nel corso degli anni, la difesa della scuola pubblica ha ceduto di fronte alle istanze ambigue della parità richiesta dalla scuola confessionale e alle istanze di della privatizzazione, l’adesione alla moneta unica e all’Europa, non ha conservato la capacità di difendere le differenze positive della politica sociale del nostro Paese, la capacità di manifestare dissenso è stata isolata e colpevolizzata. La cultura della sinistra italiana del dopoguerra – che è stata praticamente la totalità della cultura rilevante espressa dal nostro Paese in questi ultimi cinquant’anni, è stata in gran parte rinnegata, i campi di concentramento son stati messi in parallelo con le foibe, «l’unità morale e civile della nazione è stata attribuita al cattolicesimo» (come ha affermato Romano Prodi a Loreto nel settembre del 1997), e si potrebbe continuare. Non voglio dire che la sinistra ha fatto tutto questo; ha lasciato fare, ha accettato con troppa passività. Ne è nata un’atmosfera di incertezza per il futuro – un futuro dipinto nell’immagine neoliberale come pieno di possibilità -, di incapacità di identificare valori forti che guidino la politica e che coinvolgano le nuove generazioni. Un’incertezza verso il futuro perché il passato è divenuto incerto, in un’immagine generalmente negativa di quello che sta dietro di noi. Un passato senza scelte che abbiano un valore di principi da difendere e su cui costruire. A questo senso generale di condanna del passato che lo rende uniforme e senza prevalenze nette, ha dato un forte contributo la Chiesa, beatificando lo stesso giorno Pio IX e Giovanni XXIII, additando a modello e beatificando il cardinale croato Stepinac, portando avanti la procedura di beatificazione di Pio XII, chiedendo un perdono mai effettivamente formalizzato alle vittime dell’Inquisizione, restando vincolata all’ambigua riaffermazione dell’infallibilità della Chiesa, per attribuire le colpe alla fallibilità dei suoi membri o terminando paradossalmente il documento Noi ricordiamo del marzo 1998 sulla Shoah: «Desideriamo trasformare la consapevolezza dei peccati del passato in fermo impegno per un nuovo futuro nel quale non ci sia più sentimento antigiudaico tra i cristiani e sentimento anticristiano fra gli ebrei». Il passato è macchiato dal peccato, tutte le parti sono colpevoli. Rivolgiamo al futuro. Serve ancora la storia?  

Il revisionismo nella Rete

A.R.S. Associazione per il Revisionismo Storico. In italiano. Qui si revisiona di tutto. Dal Medioevo a oggi. http://members.tripod.com/revisionismo/ - Pio IX Un lungo articolo di Alessandro Frigerio sulla vita di Papa Mastai Ferretti: dalle encicliche al caso Mortara. http://www.cronologia.it/storia/biografie/pioix.htm - Air Photo Evidence. è l'incredibile sito di un tal John Ball che pretende di dimostrare, solo attraverso disegni, l'evidenza fotografica delle tesi revisioniste sui lager. http://www.air-photo.com/ 

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da «Diario», supplemento al n. 4 del 27 gennaio 2001, per gentile concessione

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