Soltanto pochi chilometri di strada collegano la Risiera
di San Sabba e le foibe del Carso. Luoghi dove ideologie diverse seguirono
percorsi di violenza "imparagonabili"
di Adriano Sofri
Nelle nostre inesauste guerre di parole, guerre per le
parole, sta superbamente accampata la parola «comparabilità». Ha molte
applicazioni. La più ingente riguarda la comparabilità fra nazismo e
stalinismo. La più delicata riguarda la Shoah, che aveva voluto per sé la
parola, apparentemente opposta, «unicità.»
Abbastanza inevitabilmente, le ragionevoli comparazioni
storiche sconfinano nelle avventate comparazioni morali: se regimi totalitari o
crimini politici siano stati reciprocamente migliori o peggiori o equivalenti.
Questo genere di raffronti fomenta il rinfacciamento polemico: si procura con
l’accusa ad altri l’indulgenza per sé, insinua nel giudizio morale una
soggezione alla quantità. Le persone, e le comunità, partecipano della storia
– facendosene complici o venendone travolte – da un posto ricevuto per
sorteggio: l’anno e il luogo di nascita, l’anagrafe etnica, sessuale e
religiosa, l’appartenenza sociale.Margarete Buber Neumann era una fervente comunista tedesca,
moglie di un dirigente di primo piano del Partito comunista: suo marito fu
liquidato in Urss, lei fu rinchiusa per anni nei campi staliniani, e da lì
consegnata alla polizia politica nazista e ai suoi lager.
Nella sua biografia la questione della comparabilità è
risolta senza discussione. D’altra parte, come si può rinfacciare a Primo
Levi, che vide arrivare un giovane soldato russo a cavallo alle porte di
Auschwitz e guardare sbigottito quella città di morti vivi, di aver riluttato a
mettere sullo stesso piano la Germania hitleriana e l’Urss? Del resto, della
tragedia delle dittature e dei loro crimini fa parte anche la fede accecante di
sudditi e di seguaci. Fin dove possa arrivare l’accecamento, fin dove le
persone si vietino di riconoscere la verità per non rinnegare la propria
speranza nel futuro o, peggio, la propria fedeltà a un passato: questo è un
punto moralmente decisivo. La comparazione qui non serve, se non come pretesto
da pubblici accusatori e un cavillo da difensori d’ufficio. Ogni storia
risponde di sé.Una combinazione di circostanze ha fatto di Trieste un luogo
esemplare di questa contraddizione. Trieste ospita, nella sua periferia
cittadina e nel suo entroterra carsico, due monumenti dell’orrore, ambedue a
lungo invisibili, come le cose che non si vogliono vedere, per un desiderio di
convalescenza dall’odio e dalla paura, e per una rimozione forzosa. Questa
lunga contraddizione, un’assenza, una mimetizzazione, sono il solo legame fra
la Risiera è stata una mimetizzazione, sono il legame fra la Risiera di San
Sabba e le foibe del Carso. La Risiera è stata, nelle mani di militari tedeschi
e dei fascisti italiani spesso non meno feroci, un luogo di sterminio diretto di
ebrei e resistenti e di smaltimento dei corpi (fra i 3 e i 4 mila), di
concentramento e invio di ebrei verso Auschwitz, e di prigionia e tortura di
partigiani. La risiera di San Sabba è difficile da mettere assieme alla canzone
consolante dell’italiano brava gente.Anche l’azione sistematica e violenta condotta dal fascismo
per «snazionalizzare» sloveni e croati di Istria negli anni Venti e Trenta non
va d’accordo con quella canzone. Le foibe sono cavità sotterranee del Carso,
dall’imboccatura stretta e dal fondo via via più largo: nella primavera del
1945 (e, nell’entroterra istriano, già nel 1943) sono state impiegate da
partigiani comunisti jugoslavi e da parte della popolazione slava, specialmente
contadina, per ammazzare o seppellire migliaia di cittadini italiani, scelti fra
i nemici politici fascisti, veri o presunti, e fra quelli, antifascisti
compresi, trasformati in nemici dall’odio sociale o nazionale o dal desiderio
di vendetta.Quando, poco fa, un’amministrazione pubblica lombarda ha
vincolato il proprio sostegno a viaggi scolastici d’istruzione a Trieste
all’assicurazione di una visita congiunta alla Risiera e alle foibe, la
distorsione della mania di comparazione ha toccato probabilmente il colmo. Non
tanto per l’invadenza, peraltro grottesca, quanto per il principio di
lottizzazione delle tragedie e dei morti – in realtà delle fazioni. Come per
ogni altra lottizzazione – cui grossolanamente si ispirava. Ē probabile
che una scolaresca vivace abbia interesse a visitare la Risiera e la foiba di
Basovizza. Ma la visita di precetto trasferisce su una bilancia caricaturale e
cinica la pretesa imparzialità. Cui si prestano, temo, le obiezioni che,
prendendo per buona questa versione della comparabilità, si ingegnano di
sconfessarla con la quantità – la portata del genocidio degli ebrei nei
confronti delle stragi di italiani nelle foibe o nei luoghi di deportazione in
Jugoslavia – o conle distinzioni
terminologiche. Le tragedie sono infatti moralmente incommensurabili. Lo dicono
i paradossi religiosi sul divieto del sacrificio di in solo per la salvezza dei
tanti, o sul salvataggio di uno solo che vale tutti.Ci sono voragini nella memoria pubblica. Se la prescrizione
amministrativa del pellegrinaggio congiunto alla Risiera e alle foibe può
essere pronunciata senza paura del ridicolo, lo si deve all’aria che tira e
all’ignoranza che tira ancor di più, ma anche, in modo assai più
interessante, alla lunga rimozione. Per decenni le foibe sono state argomento
pressoché esclusivo degli esuli giuliani e poi degli studiosi di frontiera. Se
ne sapeva molto, purché se ne avesse voglia. Perché se ne aveva così poca?
Per molte ragioni. Una era l’intenzione del quieto vivere politico ed
economico con la Jugoslavia di Tito, tanto più dopo la rottura del 1948 col
Cominform. Un’altra era l’insofferenza nei confronti di uno strascico
ingente e penoso della guerra come l’esodo di circa 300mila italiani dalla
Dalmazia e dall’Istria, protratto fino a mezzo degli anni Cinquanta. Confinate
nei campi profughi, o spinte all’emigrazione oltreoceano, ignorate o
consegnate a un’aura stereotipa di nostalgia nazionalista se non fascista,
furono così bandite dal riconoscimento civile le cittadinanze pressoché intere
di Zara, Pola e Fiume.Voglio fermarmi su un capitolo peculiare di questa rimozione,
dopotutto ancora ignorato dall’opinione: vero cimento per la memoria e le sue
peripezie. La memoria personale deve infatti mettere insieme con qualche
dignitoso compromesso la fedeltà al passato con il giudizio di oggi. (Per lo più,
si sacrifica l’uno all’altro, a piacere). La memoria di chi è stato
comunista, o del comunismo non è stato nemico, è sottoposta a una prova
particolare. La verità del comunismo sovietico (e delle sue varianti asiatiche
o in genere terzomondiste) non lascia scampo. Tuttavia - c’è, nella memoria
dei non giovani, un tuttavia. Esso dipende dal tormentato ricordo di ciò che si
è stati, che ci lascia ridurre a quella certificata e tragica verità; di più,
dipende dalla sensazione che, a differenza dagli epigoni dei fascismi, i
discendenti del comunismo vedano nei crimini compiuti in suo nome il tradimento
delle loro speranze: così per l’antisemitismo. Un po’ consolazione, un
po’ alibi, questa differenza continua a illudere un angolo del cuore. Come
potrebbe altrimenti rimettersi in pace con se stesso chi sia stato militante da
un lato della storia, una volta che la distanza lo forzi a misurare l’errore o
la colpa della sua antica trincea? Occupata oggi dai sovrannumerati «ragazzi di
Salò», la questione riguarda drammaticamente e silenziosamente la memoria di
tanti ex comunisti e di loro compagni di strada.La «storia» allontanata dalle storie delle persone rischia
di destituirne dalle radici l’identità passata, e dunque di sradicare la
presente. Questa difficoltà è la vera rimozione della questione comunista in
Italia, altrimenti estinta per morta naturale, o tenuta artificialmente in vita
per ragioni di economia marginale e di completezza delle parti in commedia. Per
esempio, come ci si libera di idee, parole e gesti di cui si è scoperto –
capito, sperimentato – l’errore o la falsità, senza venir meno al rispetto
e all’affetto per i propri antenati, padri e fratelli maggiori – o minori,
anche: i morti giovani, quelli più esigenti della fedeltà dei vivi? Gli ex
comunisti sono costretti a chiedersi che cosa sarebbe stata l’Italia se
avessero vinto, se avesse potuto imporsi un’insurrezione frontista, se il 18
aprile non fosse andato così; e a felicitarsi di aver perduto, e tutt’al più
congratularsi col machiavellismo di Togliatti, che sapeva tutto, e fece in modo
di perdere …. Non è facile.Il fatto è che a Trieste, nella Venezia Giulia, in Istria,
la cosa successe. I comunisti vinsero. I partigiani titini occuparono Trieste,
pronti ad annettersi la Venezia Giulia fino all’Isonzo. Una parte importante
dei dirigenti comunisti italiani si schierò per l’annessione. Una parte
ancora più importante della base, soprattutto degli operai, di Gorizia, di
Monfalcone, di Trieste, come di Fiume, auspicò l’annessione, o non la
contrastò, riconoscendovi una vittoria non del nazionalismo sloveno o croato o
jugoslavo, ma dell’internazionalismo proletario e della sua madrepatria, l’Urss
di Stalin. Gli operai fiumani ne fecero l’esperienza diretta, molti dei
monfalconesi e goriziani e friulani emigrarono oltre la frontiera
provvisoriamente ristabilita a ridosso di Trieste per partecipare alla
costruzione del socialismo, in attesa della sua marcia a ovest. Alla scomunica
di Tito da parte di Stalin, la maggioranza dei comunisti italiani si schierò
con Mosca, raddoppiando così il movente, nazionale e ideologico, di avversione
della Lega jugoslava. Un gran numero di quei comunisti, istriani o immigrati
giuliani, finirono nelle galere o nelle isole di deportazione e torture
jugoslave, altri riuscirono a tornare indietro, tutti provarono il più amaro
dei disinganni. Della rimozione della tragedia giuliana – la vendetta
nazionalista, politica, sociale e contadina di parte slava contro gli italiani,
le migliaia di infoibati (fra i due e gli ottantamila: il calcolo resta arduo),
le altre migliaia di giustiziati e deportati, le centinaia di migliaia di
profughi, e le loro ulteriore umiliazione in Italia – fa parte, come un
aspetto particolare e insieme una spiegazione, questa vicenda di fede
internazionalista mortificata e castigata. Se ne trova il racconto piuttosto
nella narrativa che nella storiografia, che è più reticente, e anche più
inetta ad afferrare il legame fra le pretese della Storia e le vite delle
persone. Lo si trova anche nel Sogno di una cosa di Pasolini: lo stesso
Pasolini che diventava comunista quando una banda comunista filoslava ammazzava
in un agguato partigiani rivali, e fra loro suo fratello Guido, e quando si
compiva la tragedia dell’espatrio internazionalista e del rientro frustrato
dei lavoratori italiani. Prova per paradossi del nodo complicato (e non si dica
semplicemente: masochista) che avvince storia e vita.Ho sentito qualche sera fa Susanna Tamaro rispondere in
televisione a una domanda sulla sua infanzia e adolescenza triestina e le foibe.
Ha detto di aver avvertito un segreto, nella città e nei suoi silenzi, e che
dietro quel segreto si intuiva la morte e il lutto, e che anche quando raramente
i luoghi venivano nominati, le foibe, la Risiera, erano luoghi di morte
indistinta, senza che si dicesse chi aveva ammazzato e chi era stato ammazzato.
Io ho quindici anni più della Tamaro, e la Trieste in cui sono nato la
frequentavo da bambino pressoché solo d’estate, sul Carso fra Opicina e
Monrupino, quando la guerra era ancora reente. Una dozzina d’anni fa ci ero
tornato, e avevo scritto così: «Ora, le foibe più sinistre, in cui furono
precipitate centinaia e migliaia di vittime, sono segnalate da cartelli: allora
no. Ne restava una memoria orale e distratta – non si badava quasi a chi
avesse ammazzato chi – e l’uso leggero e frequente della parola infoibare.
Così distratta che i ragazzi ci gettavano dentro ramaglia incendiata perché il
fumo ne cacciasse i colombi selvatici, e li aspettavano al varco dell’imbuto
della foiba per ammazzarli a colpi di frasche. Per divertimento».