Diario

È stato sterminio e non olocausto

Metà di un popolo europeo annientato: accadeva solo 60 anni fa. La presenza dei sommersi della Shoah riguarda tutti

di Bruno Segre

 

Sono trascorsi 56 anni da quando le armate alleate raggiunsero i campi di sterminio nazisti, restituendo la libertà ai pochi prigionieri scampati al massacro: da allora la memoria della Shoah (termine ebraico che in italiano si traduce con annientamento, eliminazione) rappresenta un elemento costruttivo dell’identità per una parte cospicua degli ebrei. Ormai, a oltre mezzo secolo di distanza dagli avvenimenti, la generazione dei testimoni diretti (su entrambi i versanti: quello delle vittime e quello dei persecutori) va estinguendosi. Ma anche gli ebrei della nuova generazione, apparentemente estranei alla paura, affrancati – tanto nella diaspora quanto in Israele – dalle ansie dei genitori, continuano a confrontarsi con la memoria della Shoah, condannati a ritornarvi lungo la propria cronistoria, nelle proprie associazioni mentali, nelle proprie decisioni morali, nei codici di comportamento. «Una mia amica, sopravvissuta come me alla Shoah», scriveva Doris Papier in una lettera da Herzliya (Israele) al Jerusalem Post nel dicembre 1990, «ha visitato recentemente la località nella quale erano vissuti e dove vennero assassinati i miei familiari. Il luogo non è lontano da Rovno, in Ucraina. Mentre si trovava lì, la mia amica registrò con una cinepresa la boscaglia in cui migliaia di ebrei furono passati per le armi». E soggiungeva: «Quando vidi il filmato rimasi inorridita nell’osservare che un po’ ovunque, sul terreno, affioravano le ossa delle vittime e, inoltre, che la popolazione del luogo andava frugando fra i resti umani alla ricerca di denti d’oro e di oggetti di valore (…) Trovo quasi incredibile che per tutto questo tempo nulla sia stato fatto dalle autorità sovietiche e/o ucraine per porre rimedio a tale situazione». Oswiecim, in Polonia (Auschwitz in tedesco): una cittadina presso la quale i nazisti allestirono e misero in opera la macchina di sterminio più efficiente e colossale a memoria d’uomo. Nei forni crematori del grande Lager finì circa un milione e mezzo di esseri umani, per oltre il 90 per cento ebrei. Qui, nell’agosto 2000, viene inaugurata la discoteca System, nella quale ogni fine settimana si danno appuntamento centinaia di giovani. La nascita della discoteca innesca l’ultima di una lunga serie di diatribe che, per tutto il secondo dopoguerra, hanno avvelenato i rapporti tra polacchi ed ebrei: la malcelata invidia dei primi, che non si sono sentiti abbastanza considerati nel ruolo di vittime del nazismo, l’antisemitismo strisciante dei governi comunisti di Varsavia, l’atteggiamento ostile verso gli ebrei della Chiesa cattolica di Polonia e, soprattutto, il destino di Auschwitz, l’uso e la tutela di un luogo che la tragedia della Shoah ha inscritto per sempre nella storia degli ebrei e nella coscienza del mondo. La «pista da ballo sopra le tombe» - come viene definita dai suoi critici – riaccende la  guerra per la memoria della Shoah: una vicenda conflittuale fatta di simboli, di controversie religiose e strumentalizzazioni politiche, le cui radici vanno cercate nelle pieghe profonde della recente storia d’Europa. Già negli anni Ottanta un conventi di carmelitane, che si era insediato entro il perimetro dell’ex campo di sterminio, fu trasferito al di fuori dei fili spinati in seguito alle proteste delle comunità ebraiche. Nel 1996, gruppi di pressione ebraici ottennero che fosse annullato il progetto di costruzione di un centro commerciale, mentre nel 1998 vennero rimosse trecento croci in legno piantate ad Auschwitz dagli attivisti del Movimento per la salvezza del popolo polacco, un gruppuscolo ultranazionalista che fa dell’antisemitismo e del radicalismo religioso il proprio cavallo di battaglia. Ora, nel Duemila, a chiedere l’immediata chiusura della discoteca System scende in campo niente meno che il centro Wiesenthal di Vienna. Agli ebrei sopravvissuti viene mosso spesso il rimprovero di fare di Auschwitz, della Shoah, un mito, un monumento. A ben vedere, le cose non stanno esattamente così. Per i sopravvissuti e per i loro eredi la Shoah, assai più che un monumento rappresenta il ricordo incancellabile di un disastro, di una vicenda di rovinosa umiliazione, di impotenza e solitudine. Lì si è consumata la cancellazione di quel grande serbatoio di vita e cultura ashkenazita che da molti secoli era presente nell’Europa centro-orientale. Lì si è inferta una cesura straordinaria nella storia degli ebrei, con la dislocazione fatale e forse definitiva del baricentro della vita ebraica dall’Europa verso due nuovi poli: Israele e America del nord. Di quello che, in Europa, fu lo scenario fisico entro il quale si mossero e fiorirono numerose comunità, estremamente vitali e creative, oggi non rimangono che i muri delle sinagoghe, i cimiteri, i libri, gli oggetti rituali e d’uso quotidiano, le carte: documenti di una storia durata poco meno di un millennio. Pagine della storia degli ebrei, certamente, ma anche, a pieno titolo, della storia d’Europa e – vorrei aggiungere – della storia dell’intera umanità. Detto questo, va anche diffondendosi la convinzione che il ricordo dell’orrore, seguito dalla rituale invocazione «ciò non deve accadere mai più», sia privo di reale efficacia quando non si saldi a un’interrogazione argomentata e analitica circa il presente. Ē infatti chiaro, purtroppo, che nel mondo moderno sono pur sempre all’opera forze dispostissime a produrre ulteriori stragi di massa. E allora, se si intende impedire che la Shoah possa ripetersi o che venga emulata da nuovi mostri, occorre andare al di là della pura e semplice memoria dell’orrore e spingersi avanti sul terreno della riflessione, tentando di cogliere ogni aspetto della complessa situazione socio-culturale e storica della quale la Shoah  fu l’orribile espressione. Ē in particolare necessaria, dunque, una trasmissione di memoria alle nuove generazioni, che le educhi a leggere la storia e a comprendere, affinché in ogni evenienza siano pronte a prevenire e a impedire. Alla fine del 1997 Sergio Romano pubblicò in Italia un saggio che, a onta del tenore benevolo del titolo – Lettera a un amico ebreo – e dell’orgoglioso «laicismo liberale» ostentato dall’autore, apparve subito abbondantemente farcito di vieti e velenosi luoghi comuni antiebraici. Nessuno intende qui negare che in ambito ebraico siano oggi presenti frange disposte ad abbandonarsi a pericolose derive fondamentaliste e a chiusure di natura confessionale, tanto in Israele quanto nella diaspora. Ma nel suo insieme, il piccolo universo degli ebrei continua a essere ricco di interne tensioni, di una vivacissima dialettica, di spinte e controspinte, e presenta connotazioni complesse, diversificate e troppo difficili da cogliere perché ci si possa accostare a esso con un approccio del tipo di quello adottato da Romano. L’autore, tuttavia, pretende di spaziare in lungo e in largo nella storia degli ebrei fino a giudicarne lapidariamente la religione: «Un catechismo fossile (…) di una delle più antiche, introverse e retrograde confessioni religiose mai praticate in Occidente» (p. 84). Fra le numerose bizzarrie proposteci da questo pamphlet, occupa un posto centrale la tesi, non priva di malizia, secondo la quale il genocidio degli ebrei d’Europa si sarebbe ormai trasformato, per l’opinione pubblica dell’Occidente (cristiano), in una sorta di ricatto permanente. Nell’imputare tale fatto al culto ebraico della memoria, Romano articola le sue argomentazioni nei termini seguenti: «(Il genocidio) è diventato il peccato del mondo contro gli ebrei, una colpa incancellabile di cui ogni cristiano dovrebbe chiedere perdono quotidianamente, il nucleo centrale della storia del XX secolo. Grazie a questa prospettiva storica, ogni paese e ogni istituzione vengono giudicati per il loro ruolo in quella vicenda e finiscono, prima o poi, sul banco degli accusati» (p.90).  Dopo avere elencato varie stragi analoghe o paragonabili per dimensioni o crudeltà (lo sterminio armeno, le vittime dello stalinismo, del colonialismo, della Seconda guerra mondiale, dei conflitti interetnici in Bosnia o in Ruanda), Romano lamenta che, mentre la memoria di questi e altri massacri «impallidisce e si appanna, l’olocausto continua ad agitare le coscienze» (p.27). Insomma,  «non è più un episodio storico da studiare nelle particolari circostanze in cui quelle vicende ebbero luogo» (p. 90). Di fronte alla ricerca storica, afferma Romano, molti ambienti ebraici si rivelano animati da una «ostilità iniziale» dettata, fra l’altro, dal «timore che gli studi storici finiscano per “storicizzare”» il genocidio riducendolo, prima o dopo,a una gigantesca «notte di San Bartolomeo» (pp. 16-17). Con l’attribuire agli ebrei, in buona sostanza, la colpa di collocare la Shoah in una dimensione teologica e metastorica, Romano avanza l’ipotesi che la «strategia della memoria» sia stata per Israele «una straordinaria arma diplomatica, una preziosa fonte di legittimità internazionale» (p. 32). Inoltre, secondo Romano, tale strategia è «terreno su cui l’ebraismo e la sinistra possono incontrarsi a collaborare», consentendo agli ebrei di «tenere in vita una sorta di “comitato permanente di vigilanza antirazzista”» (p:117). Ē, questa di Romano, un’ipotesi semplicistica se non del tutto falsa, che oltre a recuperare alcuni topoi del connubio giudaico-comunista tanto cari alla pubblicistica fascista degli anni Trenta, ha il torto di enfatizzare il sostegno offerto allo Stato d’Israele dalle comunità diasporiche e di sottolineare oltre misura la volontà di quest’ultimo di tenere viva, nel proprio esclusivo interesse di Stato, la memoria del genocidio: riducendo in tal modo il grande esame di coscienza che il mondo continua a compiere di fronte alla Shoah a una meschina macchinazione politica degli ebrei. In realtà, l’urgenza con cui Sergio Romano preme per la «storicizzazione» della Shoah sembra rivelare un’ansia di «archiviazione», tesa a liquidare una memoria troppo ingombrante con il toglierne finalmente il pese dalle spalle dei tanti europei che, per proclamarsi innocenti, pongono il genocidio a esclusivo carico della defunta ideologia nazista. Certo, nel caso della Shoah il rapporto fra memoria e storia è particolarmente complesso, giacché l’elaborazione dei lutti provocati dalla tragedia è lunga e dolorosa. Se è vero, a ogni modo, che il genocidio ebraico appartiene alla storia, i cultori di storiografia della Shoah sogliono considerare acquisito il fatto che, per penetrare le molte insondabili zone d’ombra che si collocano al di là d’ogni presumibile disegno totalizzante, occorre fare ricorso alla memoria delle singole persone coinvolte, e soprattutto dei sopravvissuti. Naturalmente è legittima la preoccupazione di non cadere in «eccessi di memoria», che rischierebbero di schiacciare sul passato la progettazione di un qualsiasi avvenimento. Né l’esigenza di sottrarre al mistero e all’irrazionale un evento mostruoso e un simbolo spaventoso qual è la Shoah può essere sacrificata al dovere di ricordare e al timore di assistere a un indebolimento o addirittura a una scomparsa della memoria. Il problema, dunque, è quello di conciliare il compito morale di evitare che il passato cada nell’oblio con l’impegno di operare perché le nuove generazioni si possano costruire un futuro vivibile e decente, da condividere responsabilmente e fraternamente con tutti i figli degli uomini. In ambito ebraico, alcune strade in questa direzione appaiono già tracciate. Mi riferisco all’esperienza di Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme: un’istituzione che, fin da quando vide la luce nel 1957, volle ricordare accanto alla memoria delle vittime anche i «giusti», ossia i protagonisti del bene, quanti a rischio della propria vita si prodigarono per la salvezza dei perseguitati. Le vicende dei «giusti» hanno permesso a molti fra i sopravvissuti di ritrovare la speranza nell’umanità. Per numerosi ebrei e per i loro figli è stato possibile ritornare nei Paesi che li avevano perseguitati e traditi, solo dopo aver saputo di uomini che si erano comportati diversamente. I «giusti» sono diventati così il tramite di un riavvicinamento tra le vittime della violenza e i popoli che li hanno oppressi. In una direzione non dissimile si colloca il lavoro del Post-Holocaust Dialogue Group: un’associazione internazionale le cui iniziative mirano non già a ricomporre la memoria della Shoah – ancor oggi fondamentalmente divisa – in una fittizia unità sotto l’etichetta di una «comune memoria»: operazione che, qualora venisse proposta, recherebbe offesa a tutte le persone coinvolte a vario titolo nella tragedia. Il «gruppo di dialogo» intende piuttosto dare luogo al lavoro difficilissimo, e tuttavia, necessario, di reciproco riconoscimento – di dialogo, appunto – tra i figli di coloro che la Shoah l’hanno subita e i fogli di coloro che, invece, l’hanno architettata e inflitta. «Solo conservando la memoria di un passato che non potrà mai essere compreso veramente fino in fondo», ebbe a scrivere Gershom G. Scholem, «potremo coltivare la speranza di una riconciliazione tra coloro che sono stati separati».  

La Shoah nella Rete

Aned Ex Deportati. Il grande libro della memoria della deportazione. http://www.deportati.it/fmenu.htm - Museo dell'Olocausto. Il più documentato. http://www.ushmm.org.- Ad Auschwitz. Testi in inglese e polacco. http://www.auschwitz_muzeum.oswiecim.pl - Progetto Memoria. Sito delle scuole superiori di Moncalieri (To). http://www.provincia.torino.it/Scuole/emajorana/sito.html .

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da «Diario», supplemento al n. 4 del 27 gennaio 2001, per gentile concessione

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