Corriere della sera
Accuse
alla stampa Usa: tradì gli ebrei
Le
porte furono chiuse ai giornalisti perseguitati da Hitler
Polemiche - A lungo il «New York Times» minimizzò l’Olocausto
dal
nostro corrispondente Ennio Caretto
Washington
- Il giornalismo americano ha una tremenda colpa: di tutte le professioni,
medica, forense o altro, fu l'unica che rifiutò di offrire rifugio e lavoro ai
colleghi ebrei in fuga dal nazismo. Mentre le facoltà umanistiche e
scientifiche delle università, gli studi medici e legali, e così via,
accolsero centinaia di famiglie, salvandole dall'Olocausto, i media e le
scuole giornalistiche voltarono loro le spalle in massa. La dura accusa è stata
mossa alla Newspaper Association da LaureI Leff, una ex reporter del Wall
Street Journal che insegna giornalismo alla prestigiosa Northeastern
University. Sarà dibattuta alla conferenza annuale dell'associazione a fine
mese. Ma il suo presidente John Sturm ha già manifestato il proprio rammarico
per una grave mancanza, ha sottolineato, che contrasta con «la nostra missione
di denunciare ogni forma di oppressione». E Stuart Eizenstat, ex ambasciatore
dei diritti umani, si è chiesto «quante più vite sarebbero state
risparmiate se i giornalisti americani si
fossero impegnati in difesa dei loro colleghi a Berlino». L'accusa non è la
prima che Laurei Leff, i cui nonni e zii morirono nei campi di concentramento,
muove ai media: l'anno scorso, in un polemico libro intitolato Sepolto dal «New
York Times» (Cambridge University Press, pp. 442, $ 29), sostenne che dal
1939 al 1945 il più importante giornale degli Stati Uniti, forse del mondo,
minimizzò volutamente l'Olocausto, presentando i crimini nazisti in termini
generici, non diretti soprattutto contro gli ebrei. Ma con l'intervento alla
Newspaper Association, intitolato «Il rifiuto della nostra professione di
aiutate i giornalisti perseguitati dal nazismo», la Leff intende costringere
i media americani - e
parte di quelli europei - a
un profondo esame di coscienza sul trattamento dell'Olocausto durante la
seconda guerra mondiale. Trattamento che nel 2000 Abe Rosenthal, il primo
direttore ebreo nella storia del New York Times,
definì vergognoso: «Rivedendolo
nel complesso, fu non solo
carente ma sbagliato. Per noi, una macchia morale, oltre che professionale».
A quanto ricostruito da LaureI Leff, nel 1939 Charles Friederich, un rifugiato
tedesco, protestante, noto docente di Scienze politiche della Università di
Harvard, sollecitò diciassette
scuole di giornalismo ad aprire le porte ai colleghi
ebrei tedeschi. Solo quattro risposero, tutte negativamente. Dall'Illinois,
Lawrence Murphy obbiettò che «se arrivano in un certo numero, gli ebrei
diventano aggressivi, portano via il lavoro agli altri». Da New York, Carl
Ackerman si lamentò che «esistono già ostacoli per gli ebrei americani,
figuriamoci per quelli tedeschi». Le scuole del Missouri e del Wisconsin si
giustificarono: «Hanno cultura e lingua troppo diverse». Friederich si appellò
invano anche alle maggiori testate americane. E quando, sconfortato, chiese
alla Newspaper Association di consentirgli di parlare dieci minuti alla
conferenza annuale, in modo da propagandare la sua causa, si sentì rispondere
che «ormai non c'è più posto nella nostra agenda dei lavori». Secondo la
Leff, i no rivelano l'antisemitismo latente dei media Usa del tempo. «Erano
al corrente della tragedia della Germania. Tutte le altre professioni si
adoprarono per i colleghi ebrei tedeschi, loro no - commenta -. Avrebbero
facilmente potuto e dovuto fare lo stesso». L'Istituto David Wyman per lo
studio dell'Olocausto si è detto d'accordo: «E ora che il giornalismo
americano, così puntuale nel denunciare le colpe degli altri, faccia luce su
questa vicenda» ha ammonito in un comunicato. Il monito non è rimasto
inascoltato. Le scuole di giornalismo della Georgia, della Carolina del Nord e
del Montana stanno già ricercando i loro archivi. E 80 giornalisti, da Marvin
Kalb del Centro Shorenstein per la stampa a Leon Wieseltier, il critico
letterario di New Republic, hanno firmato una petizione perché la
Newspaper
Association non limiti il dibattito che seguirà all'intervento della Leff. Non
si sa con esattezza quanti dei 5 mila professionisti ebrei privati del lavoro
dal nazismo trovarono ospitalità negli Usa con le loro famiglie. Ma la rivista Editor
and Publisher osserva che fu data la preferenza agli scienziati, perché
preziosi in caso di conflitto. A giudizio di Laurel Leff, a ciò contribuì
proprio il fatto che i giornali, il New York Times in testa, non fecero,
neppure quando ne ebbero le prove, una campagna sulla Shoah che avrebbe
mobilitato la pubblica opinione a sostegno degli ebrei. Le vittime dello
sterminio, scrissero in prevalenza, erano detenuti politici e includevano popoli
diversi, dai polacchi agli ungheresi. Ancora nel 1945, alla liberazione dei
prigionieri dai lager, i media, che pubblicarono traumatiche fotografie, non
misero in rilievo che si trattava di ebrei. Il libro Sepolto dal «New York
Times» trabocca di dati inquietanti. Su oltre 24 mila articoli sulla
guerra, solo 1.200 riguardarono gli ebrei e appena 26 apparvero in prima pagina.
Il 2 luglio del 1942, il giornale svelò che 700 mila ebrei erano stati mandati
nelle camere a gas, ma relegò la notizia a pagina 26, e due anni
più tardi, citando «fonti autorevoli» (l'amministrazione
Roosevelt) riferì, a pagina 12, che entro tre settimane ne sarebbero stati
uccisi
altri 350 mila. Stando alla Leff, sebbene i suoi editoriali fossero più
espliciti e più informativi, il «re dei giornali», come era chiamato il New
York Times, fece scuola: i suoi principali concorrenti, dallo Herald
Tribune al Chicago Tribune al Los Angeles Times, mantennero lo
stesso colpevole semisilenzio. La docente di giornalismo attribuisce la condotta
del New York Times al suo editore, Arthur Sulzberg, un ebreo di
discendenza tedesca. Sulzberg era deciso a non fare della sua testata «un
foglio ebraico», tanto che ne affidava la direzione a cattolici o a
protestanti. Apparteneva inoltre al movimento riformista, secondo cui il
giudaismo è una religione universale, non identificabile con un popolo o una
razza. A lungo, non ammise a se stesso che il nazismo era una dottrina
razzista e omicida mirata alla sua etnia. Ma Malvin Kalb del Centro Shorenstein
per la stampa pensa che un altro fattore influì sui media del tempo: l'ansia
di descrivere gli eroismi dei soldati americani e di seguire la linea
ufficiale sul conflitto. Probabilmente, il dibattito alla Newspapers Association
riaprirà l'altro, irrisolto da oltre 60 anni, su quando e quanto
l'amministrazione Roosevelt e il governo Churchill in Inghilterra appresero
dell'Olocausto e sul perché dal 1942 in poi non tentarono di stroncarlo o
limitarlo.
Ma per ciò che li riguarda, i media americani hanno dimostrato di avere già
appreso la lezione, pur avendola tenuta sinora nascosta. Il loro mea culpa è
tardivo e tuttavia, dalla guerra del Vietnam in poi, il loro atteggiamento su genocidi,
crimini di guerra, atrocità - anche
quelle Usa in Iraq - è
totalmente cambiato. Oggi non denunciano solo il male, cercano anche di
proteggerne le vittime.
Corriere
della sera, 6 aprile 2006