Corriere della sera
Processo
al Male, da Eichmann a Saddam
Dibattito
Giudicare i dittatori e le loro azioni: uno storico e un giurista a confronto
Galli:
non sempre la legalità è giustizia. Stella: esiste l’ingerenza giudiziaria
conversazione
tra Ernesto Galli Della Loggia e Federico Stella
«I
processi alla storia e l'ingerenza giudiziaria» è il titolo del dialogo, a
cura di Gerardo Ferrari, tra lo storico Ernesto Galli della Loggia e il
giurista Federico Stella che sarà pubblicato sul numero del bimestrale «Vita
e pensiero» in uscita domani. Nel dialogo si discute del rapporto tra legalità
e giustizia, anche alla luce dei grandi processi internazionali di ieri e di
oggi. [Del] colloquio tra i due studiosi […] pubblichiamo qui un ampio brano
[…]
Hannah
Arendt attraverso il racconto del processo a Karl Adolf Eichmann sembra aver
posto in maniera problematica la questione del giudizio storico attraverso i
tribunali. Quali sono, a vostro parere, i fondamenti che legittimano (o meno) un
processo penale contro leader politici? Qual era, ad esempio, il fondamento -
giuridico o storico - del processo celebrato a Norimberga?
GALLI
DELLA LOGGIA -
Terrei distinto il processo
di Gerusalemme contro Eichmann da quello di Norimberga. Il primo non può certo
essere classificato come un processo penale contro un leader
politico, dal momento che, come si sa, Eichmann fu solo un alto ufficiale
delle SS, incaricato sì di funzioni
del massimo rilievo - come
per l'appunto da un certo
momento in poi la funzione di sovrintendere ai programmi di sterminio degli
ebrei ma sempre ricoprendo il ruolo di esecutore tecnico, sia pur dotato di
amplissimi margini di discrezionalità e di iniziativa. Diverso il caso del
processo
di Norimberga; questo sì fu un processo contro leader politici (e militari,
non si dimentichi). Ad esso mi pare un'impresa non facile trovare un fondamento
giuridico che regga alle molteplici obiezioni mosse dal 1946 a oggi. A
cominciare
da quella secondo la quale il Tribunale non tanto era istituito per giudicare
delle fattispecie criminali in genere ma solo alcuni singoli, specifici
imputati (infatti per crimini più o meno analoghi a quelli addebitati agli
imputati tedeschi ma commessi da altri, per esempio dalle forze armate
nemiche della Germania, il
Tribunale affermò la propria incompetenza),
per finire con l'assoluta vaghezza definitoria del primo delitto incluso
nella giurisdizione del Tribunale, quello di «Crimini contro la pace» ovvero
«Preparazione, inizio e condotta di una guerra di aggressione» (secondo
l'articolo 6 dello Statuto istitutivo del Tribunale). Non solo il delitto ma
il concetto stesso di «guerra di aggressione»
crimine per il quale furono
condannati otto dei ventiquattro
imputati - era
totalmente nuovo nel diritto
internazionale e per tutto il corso del dibattimento si tentò invano di
precisarlo in maniera giuridicamente
soddisfacente. Ma, detto questo, va aggiunto subito dopo che il processo di
Norimberga può essere ritenuto un caso da manuale di impossibile coincidenza
tra legalità e giustizia. Se esso lascia senz'altro a desiderare sul piano
della legalità, non possono esserci dubbi, infatti, che il verdetto di
Norimberga abbia tuttavia fatto opera di giustizia.
STELLA
- Non
è affatto vero che Hannah Arendt
abbia posto in maniera problematica la questione del giudizio storico attraverso
i tribunali. L'allieva di
Heidegger non è affatto problematica, ma perentoria: la Corte di Gerusalemme
aveva sulle proprie spalle la responsabilità maggiore, quella di dimostrare di
essere in grado di mettere davanti a sé l'intera umanità tedesca omicida, e
non il solo Eichmann. Caricando invece l'imputato di tutto il peso
dell'antisemitismo storico, la volontà del pubblico ministero di andare al di là
della responsabilità personale di Eichmann fu chiara: sul banco degli imputati
non c'era un uomo, ma l'incarnazione mostruosa dei torti inenarrabili subiti. Ma
anche su un altro fronte la Corte di Gerusalemme fallì nei suoi compiti: capire
chi fosse l'imputato, e ciò perché c'era bisogno di un mostro, - il sadico
perverso. Il pubblico ministero voleva processare il mostro e assieme a lui
tutto il nazismo e l'antisemitismo. «Ma il guaio del caso Eichmann
- dice
la Arendt - era che di uomini
come lui ce n'erano tanti, e che questi tanti non erano né perversi né
sadici, ma erano e sono tuttora terribilmente normali». Bisogna dunque avere il
coraggio di dire che la condanna di Eichmann costituì un'ingiustizia: sul banco
degli imputati non sedeva tutto il popolo tedesco nazista.
Qual
è, dal punto di vista storico e politico, il senso di iniziative come i
processi a Milosevic, Saddam o Pinochet? In linea teorica sarebbe giusto
processare dittatori ancora in carica?
GALLI
DELLA LOGGIA – È più o
meno lo stesso senso che aveva il processo di Norimberga. Quanto a mandare
davanti a un tribunale i «dittatori ancora in carica», mi sembra tanto
giusto quanto irrealistico. In realtà, quando i dittatori sono ancora in
carica a finire sotto processo sono in genere i loro avversari, non loro. Quanto
alla possibilità di processarli durante una loro eventuale permanenza in
territorio straniero, mi sembra una di quelle finte soluzioni che in realtà
creano molti più problemi (per giunta inestricabili) di quanti appaiano
risolverne.
STELLA
- La questione più
interessante è se sia giusto processare dittatori ancora in carica: essa
tocca uno snodo fondamentale della discussione sulla giustizia. Come
dimostrano le sentenze di Aharon Barak, presidente della Corte suprema
israeliana, gli organi giurisdizionali possono e debbono intervenire anche in
tempi di crisi, di guerre e di dittature per impedire che venga portata a
consumazione
la violazione di un diritto fondamentale, quale ad esempio il diritto alla vita.
Se un torto già consumato non si può riparare, è doveroso pensare che tutto
si debba fare per evitare che quel torto si realizzi. Processare un dittatore
che programmi e cerchi di eseguire enormi atrocità corrisponde dunque in pieno
all'idea di giustizia derivante dall’etica popolare di cui ho parlato in
precedenza.
Potremmo
definire l'«ingerenza giudiziaria»
come una nuova categoria della politica internazionale? Con quali paradigmi
essa potrebbe diventare
praticabile?
STELLA
- Alla
domanda se si possa definire l'ingerenza
giudiziaria come una nuova categoria della politica internazionale, la mia
risposta è che ciò è senz'altro possibile. Ma è possibile finché si resta
sul piano delle enunciazioni astratte: sul piano della realtà, nessuna
ingerenza
giudiziaria ha funzionato come categoria della politica internazionale. Basta
pensare alla Corte europea dei diritti dell'uomo: le sue sentenze sono
ormai ricche e numerose, ma nessuna di esse è vincolante per i singoli
Stati, i quali, se sono inadempienti, se la possono cavare con un risarcimento
del danno.
GALLI
DELLA LOGGIA - L'ingerenza
umanitaria è fondamentalmente un'ingerenza giudiziaria, nel senso che quasi
sempre essa si fa forte della necessità di porre termine a una clamorosa
violazione di giustizia: ciò, come ho sottolineato prima, può anche non avere
nulla a che fare con la legalità. Proprio la disgiunzione tra le due sfere crea
uno spazio assai ampio per la discrezionalità di chi decide della violazione
suddetta, e decide in base evidentemente ai propri particolari criteri etici,
giuridici eccetera, e poiché si tratta per forza di un attore politico, anche,
inevitabilmente, in base ai propri interessi.
Corriere
della sera, 6 marzo 2006