Corriere della sera
Elzeviro
– Le memorie di un perseguitato
L’Harry’s
bar vietato agli ebrei
Roberto
Bassi racconta gli effetti quotidiani delle leggi razziali
di
Antonio Debenedetti
Anno
1938, vengono promulgate le leggi
razziali. Roberto Bassi ha sette anni, appartiene a una famiglia veneziana
insospettabile persino nel clima dell'intollerante Italia mussoliniana.
Suo padre Gino, uomo di legge ed ebreo osservante, risulta iscritto al
Fascio, sia pure senza troppa convinzione, dal 1931. Già ufficiale, ai tempi
della Prima guerra mondiale, ha fatto il proprio dovere al servizio della
patria. Adesso è un borghese colto, tranquillo, tutto famiglia
e lavoro. Come non
bastasse, un suo cognato, amico intimo di Italo Balbo, è da lungo tempo
apprezzato podestà di Ferrara. Che cosa potrebbe volere di più il regime?
Invece no, non basta. La dittatura esige i suoi sacrifici estremi. Il piccolo
Roberto, alunno studioso, è appena entrato in seconda elementare. Quaderni
nuovi, matite ben temperate. Una mattina la sua maestra, una friulana tutta
«panza, tette e cul», sale in cattedra e tiene un lungo discorso. Strano,
difficile. Racconta che esistono razze diverse, «alcune buone, altre meno».
Afferma che «molte forze oscure» insidiano «il glorioso cammino»
dell'Italia, ormai signora di un impero. I suoi alunni capiscono e non
capiscono. Quindi la maestra parla degli ebrei, definendoli «nemici della
patria» e sostenendo che, in quanto tali, vanno assolutamente «isolati».
Poi, dopo aver scorso il registro, conclude senza esitazioni: «Bassi, esci di
classe!». Una bidella, appositamente convocata, scorta così Roberto nella
sua nuova realtà di italiano «dal
sangue impuro». È solo l'inizio. Perché gli ebrei, prima di essere destinati
alla deportazione e allo sterminio sistematico, vennero sottoposti a un
perfido, inammissibile processo di sopraffazione, di annichilimento morale
e civile. Un processo che non risparmiò nessuno, accomunando in un unico destino quanti riusciranno poi a
sopravvivere non senza superare durissime prove e quanti invece verranno
trucidati nei lager. Queste pagine di Roberto Bassi, intitolate Scaramucce sul
lago Ladoga (Sellerio
editore, pp. 179, € 9), sono una testimonianza pudica e toccante delle più
immediate conseguenze d'un antisemitismo divenuto legge dello Stato. Fanno
spazio alla memoria di imperdonabili quanto meno noti soprusi. Qualche
esempio, scelto quasi a caso? Venuto l'ordine di depennare dall'elenco del
telefono i nomi degli israeliti, i ragazzi della scuola media ebraica si misero
al lavoro e realizzarono una loro guida. «Battemmo a macchina, con abbondante
uso di carta carbone, i nomi e i numeri telefonici degli ebrei
di Venezia...», approntando «elenchi
da tavolo e tascabili». Sotto gli occhi di vicini di casa, troppo spesso
indifferenti o portati a minimizzare, il potere lavorava caparbiamente a
spogliare «i perfidi giudei» della loro dignità. Un giorno l'Harry's Bar,
ribattezzato in omaggio a un'autarchia anche linguistica «Bar da Arrigo»;
espone un cartello che dice: «In questo locale
non entrano cani e ebrei». Così l'avvocato Bassi
non può più consumarvi, scendendo dall'ufficio, il suo frugale pasto
costituito di due tramezzini e un bicchiere di vino. Il gestore gli strizza
l'occhio, escogita una soluzione di compromesso ma Bassi rifiuta. In nome
della dignità. Poco prima la nuova, intollerabile legislazione fascista aveva
privato gli ebrei dell'uso della radio. Tutti
gli apparecchi radioriceventi, in
possesso di famiglie israelitiche, erano stati sequestrati. Nel luglio del
1941, poi, ci si accorge «che gli ebrei inquinano la spiaggia». Da quel
giorno debbono andare a fate i bagni lontano, profittando di arenili fuori
mano e comunque isolati. E si tratta solo, ricordiamolo, del preludio alla «soluzione
finale». Per i capi famiglia, frattanto, lavorare e trovare lavoro diventa sempre
più difficile. In questa situazione, riferisce Bassi, non mancano quanti
si convertono al cattolicesimo. Ciò
non fu «tuttavia sufficiente a salvarli dalla persecuzione:
vi fu poi chi inventò... una relazione adulterina della propria madre... per
dimostrare la non appartenenza all'ebraismo». Questa via di fuga, inutile
dirlo, meritò un diffuso disprezzo nella Comunità. C'è solo una scappatoia,
legittimata dalla ferocia dei tempi, cui si ricorre per campare: la
discriminazione. Il concetto, spiega Bassi, «era questo: gli ebrei, in quanto
tali, erano tutti criminali». Qualcuno, tuttavia, che si era distinto aiutando
la causa fascista (ex Marcia su Roma, Sansepolcristi, eccetera) veniva
discriminato direttamente. Altri, che vantavano meriti patriottici più
modesti, potevano ottenere un diploma di «discriminazione indiretta». Fra
questi rientrò, sia, pure a stentò, l'avvocato Bassi. Anche mio padre
Giacomo, di cui era stata bloccata la pubblicazione della seconda serie dei «Saggi
critici», chiese di venir discriminato. La sua domanda fu tuttavia respinta.
Non gli vennero infatti riconosciuti «meriti fascisti» e alla richiesta
seguirono, anzi, due «informative» dell'Ovra. Alla luce dei tempi, andrà
detto che quella della discriminazione fu forse un'ultima, raffinata e
crudelissima presa in giro per dei futuri, potenziali condannati a morte.
Corriere
della sera, 30 gennaio 2006