Corriere della sera

Resistenza , la memoria ancora sommersa

Discutiamo il libro di Pansa, ma senza ingiurie: 60 anni dopo lo storico ha diritto di scavare

di Aurelio Lepre

Nel suo fondamentale libro sulla Resistenza Claudio Pavone ricorda, senza commentarlo, un ordine del 12 dicembre 1944: "Passare per le armi 50 banditi delle brigate nere per vendicare la morte del Comandante Tancredi Galimberti", Non ricordo altre rappresaglie di queste proporzioni per l'uccisione di un singolo, combattente, (tranne i massacri di interi paesi effettuati dagli occupanti dove, in Europa, si sviluppò la resistenza partigiana, in Italia, Francia Jugoslavia e in Urss). Eppure non lessi, a suo tempo, accuse violente contro Pavone, che aveva anche rivalutato la categoria, di "guerra civile" (rifacendosi a una definizione impiegata in quegli anni dai partigiani, ma poi abbandonata e condannata come offensiva per la Resistenza). Sembra però che discutere in termini non convenzionali delle tragiche vicende italiane tra il 1940 e il 1945 senza essere investiti da ingiurie sia consentito soltanto a pochissimi storici. Se ci provano altri, vengono subito fulminati con le accuse più varie, da quella di "revisionismo" (ormai però un po' in disuso, tanto che si distingue tra un revisionismo buono e uno cattivo) a quella di tradimento. Se c'è un vocabolo che la sinistra non dovrebbe mai più adoperare, perché rievoca i tempi più bui dello stalinismo, è proprio questo. Ma una parte di essa non riesce proprio a farne a meno. Eppure la storia dovrebbe insegnare che si tratta di un'accusa molto pericolosa: ci fu un tempo in cui coloro che se ne servirono contro i loro nemici (dal capo del Kgb Nicolaj Jezhof al cecoslovacco Rudolf Slanski, per finire a Laurenti Berja) furono poi processati e fucilati proprio con la stessa accusa. Certo, oggi i tempi sono cambiati: i "traditori" sono esposti soltanto alla ben più mite pena della berlina, forse perché non ne sono possibili altre. Non ho ancora letto l'ultimo libro di Giampaolo Pansa, di cui si sta già discutendo furiosamente, sulla stampa ma anche in privato, da parte di chi ne ha già scorso le pagine ma anche da parte di chi conosce solo le anticipazioni che ne ha dato la stampa. E non solo il Corriere della Sera, che, com'è noto, ospita sulle sue colonne articoli di esecrabili "revisionisti", ma anche La Repubblica e L'Espresso, che, sono talvolta palestra dell'"antirevisionismo" più intransigente. Stanno forse cambiando i tempi? Sarebbe un fatto certamente positivo. Può darsi che l'opera di Pansa, come tutte quelle che pongono problemi scottanti, debba essere oggetto di una vivace discussione, ma essa dovrebbe comunque restare nei limiti in cui sembra volerla collocare la stessa Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani, nel suo comunicato. E certo comunque che Pansa non ha inteso diffamare la Resistenza. A sessant'anni di distanza, è tempo che la sinistra, anche quella non comunista, si liberi di tutti gli scheletri che si trovano ancora nei suoi armadi. E riconosca che la guerra civile è stata una vicenda drammatica, che non può essere ricordata soltanto con lo sventolio delle bandiere e con i canti partigiani (i quali, d'altra parte, in quegli anni avevano ben altro da fare che cantare). Alla violenza si è risposto con la violenza, l'odio ha generato odio, le stragi degli uni sono state seguite da quelle degli altri. Accanto alla memoria ufficiale, alimentata dagli antifascisti che combatterono ma soprattutto da quelli dell'ultima ora, ce n'è stata perciò un'altra di segno opposto, nascosta e tramandata oralmente attraverso le generazioni o in volumi semiclandestini. È venuto ormai il momento che anche questa memoria venga portata alla luce ed è merito di Pansa averlo fatto. Del resto, già da qualche anno storici di sinistra lo stanno facendo a proposito delle stragi compiute dai tedeschi, delle quali nei paesi che ne furono oggetto non c'è una memoria condivisa, perché una parte della popolazione accusa i partigiani di avere provocato le rappresaglie con i loro attacchi. Non vedo perché dovrebbe restare sepolta la memoria di quelli che combatterono dalla parte della Rsi. Certo, dalla parte opposta a quella in cui mi trovavo io (e mi trovo tutt'ora) insieme con tanti altri italiani. Ma non mi sento un voltagabbana e non provo vergogna - come non può certo provarne Pansa - a scavare da storico in quei fatti lontani. Se mai, mi vengono alla mente le straordinarie parole in cui Eduardo riassunse il senso di quei tragici anni: "E quanta muorte…'E lloro e 'e nueste…".

Il Corriere della Sera - 12 ottobre 2003 

sommario