Corriere della sera
La
Germania riapre l'inchiesta su Engel
Il
governo: massima disponibilità a esaminare il caso. L'ex SS: io non sono un
assassino
di
Elisabetta Rosaspina
AMBURGO
- Lo sa che, a 1.200 chilometri da qui, ormai è un ergastolano: "Ma la
procura militare di Torino non mi ha mai sottoposto un capo d'imputazione
scritto - si ribella Friedrich Engel, 92 anni, forse l'ultimo degli alti
comandanti delle SS ancora in vita e in libertà - Nonostante le mie numerose
richieste, non mi è stato mai consentito nemmeno di prendere visione degli
atti. E di conseguenza non mi è stato possibile replicare alle accuse". Può
darsi che adesso questa possibilità gli sia offerta in Germania. La procura di
Amburgo ha dato nuovo impulso alle indagini (di fatto riaprendole) che erano già
state avviate nel 1998, un anno prima che per l'Italia Engel diventasse
ufficialmente un ergastolano contumace, responsabile di quattro massacri di
civili e di partigiani in Liguria, per un totale di 246 morti. Ma per 187 di
loro, Engel nega rabbiosamente qualunque coinvolgimento. "Per 56 anni -
dice - non mi ha cercato nessuno. Né un giornalista né uno storico tedesco.
Nessuno. Eppure non mi sono mai nascosto. Tanto è vero che uno storico
italiano, di cui ricordo anche il cognome, Paoletti, mi ha scritto anni fa per
avere alcune informazioni e io gli ho risposto". Altre carte stanno
arrivando adesso dall'Italia, dove i giudici sanno di non avere alcuna speranza
di processare l'ex capo delle SS a Genova, ma contano sull'intervento diretto
della Procura di Amburgo, dove i documenti sono per ora sottoposti
all'attenzione dei traduttori. Il sindaco di Genova Giuseppe Pericu invierà al
governo e alla magistratura tedesca l'appello della città perché sia fatta
giustizia. "C'è sempre stata la massima disponibilità a esaminare il
caso, fin dall'apertura di un'inchiesta preliminare ad Amburgo nel 1998"
assicura il portavoce del ministero della Giustizia, Thomas Weber, secondo cui
la collaborazione con l'Italia, sul caso Engel, non si è mai interrotta in
questi tre anni. Se e quando sarà chiamato da un pubblico ministero tedesco a
rendere conto dei suoi atti di quasi 60 anni fa, Engel si dichiarerà
"parzialmente responsabile" della fucilazione al Passo del Turchino di
59 partigiani, prigionieri di guerra nel maggio del 1944: una rappresaglia per
l'attentato contro un cinema in cui erano morti sei militari della Marina di
Hitler. Spiegherà che non si poteva fare altrimenti, perché quelli erano gli
ordini del Führer. E che comunque non furono i suoi uomini a formare il plotone
di esecuzione, ma quelli della Marina di guerra. Che lui era presente, ma non
poteva opporsi. Si difenderà con energia, l'ultra novantenne, che la stampa
tedesca ha ribattezzato "der Todesengel", l'angelo della morte, ma che
per oltre mezzo secolo soltanto i sopravvissuti e i discendenti delle vittime
delle stragi non avevano dimenticato. Come Marziano Tasso, oggi 65enne, che già
due anni fa segnalò di aver ritrovato le tracce del colonnello Engel ad Amburgo
e del tenente Otto Kaess, dello stesso reparto, a Berzisch Gladbach, sempre
vicino ad Amburgo: "Sono loro i nazisti che fecero fucilare mio padre
nell'ottobre del '44". Kaess era già morto da qualche anno novantenne, ma
grazie alle informazioni di un giro di collezionisti filatelici, Marziano Tasso
individuò l'ultima residenza di Engel. "Vivo qui dalla fine della guerra -
non ha difficoltà ad ammettere l'ex ufficiale delle SS -. Gli inizi per me sono
stati molto difficili. La mia vera professione sarebbe insegnare storia al
liceo, ma poi mi sono dovuto dedicare all'import-export di legni pregiati. Ho
smesso di lavorare trent'anni fa, nel 1970, e da allora curo il mio giardino e
leggo, soprattutto libri di politica". Perché lui, tiene a precisare, non
aveva una formazione militare ma politica: "Venivo dal Sicherheitsdienst, i
servizi di sicurezza tedeschi, non dalla Gestapo. Ho tentato in ogni modo di
evitare altre rappresaglie dopo quella del Turchino. Volevo fermare la spirale
di violenza. Alla fine della guerra l'ex console tedesco a Genova, Von Etzdorf,
poi ambasciatore a Londra, mi confermò che un mio intervento aveva contribuito
a evitare la distruzione del porto di Genova, ordinata da Berlino poche
settimane prima dell'aprile del '45. Mi disse: "Engel, quella città
dovrebbe farle un monumento". Non avrei mai preteso un ringraziamento,
perché sapevo che non sarei mai più tornato a Genova. Perché sono
parzialmente responsabile della morte di quei 59 italiani".
SAEVECKE
Il 9 giugno del
'99 il tribunale militare di Torino ha condannato all'ergastolo l'ex capitano
delle SS Theodor Emil Saevecke per l'eccidio di piazzale Loreto (10 agosto 1944,
15 morti).
PRIEBKE
Il 7 marzo 1998 la Corte di Appello militare di Roma conferma l'ergastolo a
Erich Priebke per omicidio plurimo e continuato per l'eccidio delle Fosse
Ardeatine (24 marzo 1944, 335 morti).
REDER
Il 31 ottobre 1951 il Tribunale militare di Bologna condanna al carcere a vita
l'ex maggiore delle SS Walter Reder, ritenuto colpevole della strage di
Marzabotto (29 settembre - 3 ottobre 1944, 1830 morti)
KAPPLER
Il 20 luglio 1948 il Tribunale militare di Roma condanna all'ergastolo Herber
Kappler per la strage delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944, 335 morti). La
sentenza diventa definitiva nel 1953
Lettera
al giornale cittadino: Non devo essere processato
"Ho
solo eseguito gli ordini dei superiori e allora non sapevo se fossero contro la
legge. La verità è che non ho mai ucciso un uomo"
di
E. Ros
"Non
sono un assassino": dopo aver respinto la tivù tedesca "Ard"
(che lo aveva rintracciato nel quartiere residenziale di Lockstedt), arrivando
perfino a negare di essere se stesso, e dopo aver accettato di raccontare la sua
verità al "Corriere della Sera" nell'intervista uscita domenica,
Friedrich Engel sente la necessità di spiegarsi anche con i suoi concittadini.
Il giorno di Pasqua ha scritto una lunga lettera alla redazione
dell'"Hamburger Abendblatt", il quotidiano locale, che gli aveva
dedicato un'intera pagina sabato, attribuendogli le quattro stragi commesse dai
tedeschi in Liguria tra il '44 e il '45, e che lo aveva indicato come
"l'angelo della morte di Genova": "Ammetto la mia
corresponsabilità in una sola azione di rappresaglia tedesca - scrive Engel
nella lettera che sarà pubblicata oggi sul giornale di Amburgo - quella in
risposta a un perfido attentato di terroristi italiani contro un cinema per
militari tedeschi a Genova. La bomba venne fatta esplodere durante la proiezione
del film e provocò un bagno di sangue che costò la vita a sei persone".
Engel parla di un "ordine supremo" che determinò l'orrenda
rappresaglia su 59 prigionieri del tutto incolpevoli di quell'attentato:
"Il mio diretto superiore ordinò una rappresaglia nei termini di dieci a
uno. Due reparti della Marina di guerra fucilarono 59 italiani. Nessun uomo del
mio comando prese parte all'operazione". Engel riconosce solo di aver
eseguito un ordine: "La mia corresponsabilità derivò dunque dall'ordine
di dare appoggio in ogni aspetto ai provvedimenti. Questa azione punitiva -
scrive ancora l'ex colonnello delle SS - è l'unico caso di uccisione di
italiani che io conosca e per il quale io possa portare parziale
responsabilità". Ma ora non ritiene di dover finire sotto processo per
questo: "All'epoca - continua Engel - mi era impossibile stabilire se tali
ordini fossero da considerarsi contro la legge o perseguibili penalmente.
Secondo le indicazioni dei miei superiori, erano giustificati dal diritto di
guerra". Ai cittadini di Amburgo, in mezzo ai quali ha scelto di vivere
negli ultimi 56 anni, Engel, nato 92 anni fa nel Brandeburgo, dedica un solenne
giuramento: "Voglio sottolineare: non ho mai ucciso un uomo. Qualunque
dichiarazione contraria a ciò non corrisponde alla verità. Non ho mai dato
ordine di uccidere un uomo". Ai giornalisti dell'"HamburgherAbendblatt"
dichiara adesso la sua piena disponibilità a farsi intervistare, non appena la
sua salute glielo consentirà: "Sono pronto a rispondere a qualunque
domanda", promette nella lettera. E lascia intendere che non vuole più
sfuggire alla stampa tedesca, nonostante abbia scritto, secondo lui, grosse
falsità sul suo passato: "Ho scelto di parlare con un giornale italiano
perché credo che abbia meno pregiudizi", ha spiegato. Ma in Germania
nessuno ha ancora sentito la voce e la sua versione dei fatti e adesso Engel
vuole poter uscire ancora a testa alta dalla villetta in cui abita con la
moglie, dietro a tendine di pizzo bianco, aiuole di erica e un umido praticello
all'inglese, in uno dei quartieri residenziali più belli della periferia di
Amburgo. Ha fatto parte di "questa organizzazione", come definisce lui
le SS, ma ormai era convinto di finire la sua vita come un qualunque pensionato
senza figli, con l'hobby della pittura e delle buone letture. Finché 246
fantasmi non sono tornati ad agitare i suoi giorni e la giustizia tedesca
annuncia, nei suoi confronti, nuovi passi. Proprio nel giorno dell'Angelo.
Dopo
l'intervista al "Corriere", Engel ha scritto una lettera al giornale
"Hamburger Abendblatt". Eccone alcuni brani
"Non
contesto la mia corresponsabilità in una sola azione di rappresaglia tedesca. O
quella in risposta a un perfido attentato di terroristi italiani contro un
cinema per militati tedeschi a Genova... Questa azione punitiva è l'unico caso
di uccisione di italiani che io conosca e per il quale io possa portare parziale
responsabilità. Ma ho agito in base a ordini superiori. All'epoca mi era
impossibile stabilire se tali ordini erano da considerarsi contro la legge o
perseguibili penalmente. Secondo i miei superiori, erano giustificati dal
diritto di guerra... Non ho mai ucciso un uomo. Non ho mai dato ordine di
uccidere un uomo"
Parla
l'uomo condannato per le Fosse Ardeatine
PRIEBKE:
LUI ERA UNO IMPORTANTE
ROMA - "Non ho mai conosciuto Friedrich Engel, ma comunque la sua posizione è molto diversa dalla mia. Lui è paragonabile a Kappler perché era un comandante, mentre io ero soltanto un esecutore di ordini". Dalla casa di Roma dove si trova agli arresti domiciliari, Erich Priebke commenta così le notizie che riguardano l'ex capo delle SS in Liguria, che ora vive ad Amburgo. L'uomo condannato all'ergastolo per l'eccidio delle Fosse Ardeatine parla attraverso il suo avvocato Bruno Naso. "Di quest'uomo non so nulla - dice -, non ne avevo mai sentito parlare. In questi giorni ho letto sui giornali le notizie che lo riguardano, ma non ne avevo mai saputo niente. Non so chi fosse, ma sicuramente aveva un ruolo di primo piano".
LO
STORICO «Ci siamo scritti non si è pentito di quelle stragi»
di
Gianluca Di Feo
"Con
Engel ci siamo scritti dalla seconda metà del 1999. E da questo scambio
epistolare è emersa la figura di un uomo consapevole del fatto che le
rappresaglie portavano solo a un inutile bagno di sangue. Si trattava però
soltanto di una valutazione militare, un calcolo senza nessuna considerazione
morale: non ha mai fatto cenno a pentimenti". Paolo Paoletti è lo storico
fiorentino che ha scritto più volte all'ex comandante delle SS di Genova.
Autore di numerose ricerche sulla lotta partigiana, Paoletti ha individuato i
veri responsabili della strage di Sant'Anna di Stazzema e stimolato la
riapertura di tutte le indagini insabbiate sugli eccidi tedeschi. Si definisce
uno studioso "scomodo": ha fatto discutere il suo ultimo testo che
attribuisce all'artiglieria americana e non ai reparti germanici il massacro di
San Miniato. Ma sicuramente non è uno storico revisionista. E il carteggio con
Engel nasce da una ricerca svolta per l'amministrazione di Carpi sulla
fucilazione di 67 detenuti politici nel campo di Fossoli (Modena) come
rappresaglia per l'attentato di Genova del 25 giugno 1944. "L'indirizzo
dell'ex ufficiale nazista era agli atti del processo. Fu il suo difensore
d'ufficio a farmelo avere: Engel non aveva mai risposto alle sue lettere. Invece
replicò subito alla mie domande sui morti di Fossoli. Scrisse di essere
contrario alle rappresaglie, ritenute controproducenti dai vertici italiani
delle SS. Per questo mi ha detto che il 25 giugno 1944 - al momento del secondo
ordigno esploso a Genova in via del Campo - disobbedì agli ordini e non
informò della bomba né il suo superiore diretto, il colonnello delle SS Walter
Rauff, né il responsabile in capo della sicurezza, il tenente generale Harster.
Ma la notizia che quella sera, dopo l'attentato, i marinai tedeschi avevano
perso la testa e si erano messi a sparare con le mitragliere contro le strade
del porto, uccidendo per errore altri quattro militari, era così grave che
finì immediatamente sulle scrivanie di Kesserling e di Harster". Nelle sue
lettere Engel sostiene a questo punto di avere tentato un bluff, pur di evitare
le ritorsioni: "Engel dice di avere prima negato la disponibilità di
prigionieri di "classe 3", quelli che erano imputati di reati punibili
con la morte, mentre in realtà non voleva consegnarli al plotone d'esecuzione.
Poi sostiene di avere fatto affiggere il 6 luglio un manifesto per le strade di
Genova in cui si sosteneva che la rappresaglia era già avvenuta contro 70
"banditi". Un falso per ingannare i suoi superiori e i partigiani. Ma
si trattò di un fallimento. Il 12 luglio Harster fece effettivamente fucilare i
67 prigionieri di Fossoli e più tardi le Brigate Garibaldi liguri ordinarono
una risposta". Una versione di comodo? Il tentativo di un criminale di
guerra per giustificare le sue azioni? "Non credo. Engel ha cercato
preventivamente di cautelarsi. Lo ha fatto nel caso di Fossoli e in quello della
mancata demolizione del porto di Genova. Per quello che riguarda l'eccidio di
Fossoli, ho trovato conferma alle sue dichiarazioni nel Bundesarchiv di
Friburgo. Il suo contributo storico è stato così prezioso che mi ha fatto
ricredere sull'approccio giudiziario ai criminali di guerra nazisti".
Paoletti è scettico sul metodo seguito dalla magistratura militare negli ultimi
sei anni: "L'unico risultato è stato quello di condannare due
ultranovantenni". Ritiene che sarebbe necessaria una sorta di "doppio
binario". Da una parte gli ufficiali che si limitarono a eseguire gli
ordini: a loro andrebbe offerta l'immunità in cambio della verità e
dell'ammissione delle loro colpe. Dall'altra gli aguzzini più fanatici, che
andrebbero perseguiti con tutti i mezzi. E cita il caso più clamoroso: Michael
Seifert, il "boia di Bolzano" condannato pochi mesi fa all'ergastolo
ma che vive libero in Canada.
Bo:
riuscii a salvare mio padre, ma va punito per tutte le altre vittime
LA
TESTIMONIANZA/ Lo scrittore rievoca un episodio accaduto a Genova nel '45.
"Chiesi aiuto a un ufficiale nazista"
di
Alessandro Trocino
MILANO
- "In quei giorni a Genova i nazisti avevano fatto un deserto. Mio padre
stava per essere arrestato. Allora andai dalle SS e chiesi la grazia per lui. La
concessero, non so perché. Fu un gesto di clemenza, ma non assolve Engel, che
allora era il comandante delle SS, né i suoi sottoposti per le stragi commesse
in Liguria in quei mesi. Sono colpe che non si possono perdonare né
dimenticare, neanche a distanza di tanti anni". Carlo Bo, nel 1945, era
professore all'Università di Urbino. Aveva appena pubblicato "Bilancio del
surrealismo" e si apprestava a scrivere "Mallarmè". Due anni
dopo sarebbe diventato rettore dell'Università di Urbino. E per oltre 50 anni
avrebbe rappresentato una delle voci più importanti della cultura italiana. Ma
in quei giorni, in quella Liguria occupata e terrorizzata, soltanto una cosa lo
preoccupava: salvare la vita di suo padre.
Cosa
accadde?
"Vivevamo
a Sestri Levante, dove sono nato. La nostra era una famiglia antifascista. Mio
padre Angelo lo era da sempre e mio fratello partecipava alla Resistenza. In
seguito diventò un comandante delle formazioni di Giustizia e Libertà".
Perché
se la presero con suo padre?
"Ci
fu una spiata dei fascisti. Allora era normale. Si andava avanti a bastonate e
olio di ricino. E ogni tanto qualche antifascista veniva segnalato al comando di
Genova delle SS".
Così
accadde con suo padre.
"Sì.
Improvvisamente venne emesso un mandato di cattura nei suoi confronti. Lo
venimmo a sapere dal pretore di Sestri Levante, che ci avvertì per tempo. Mio
padre fuggì di casa alle cinque del mattino e si nascose a casa di un parente.
Mia madre e mio cugino scapparono in treno a Milano. Io e mio fratello
Gianfranco decidemmo di andare a parlare con il prefetto di Genova. Fu gentile,
forse perché era un poeta. Persino la letteratura, evidentemente, serve a
qualcosa. Ma ci disse che non poteva fare nulla e che dovevamo rivolgerci
direttamente ai tedeschi".
Così
andaste da loro?
"Andammo
alla casa degli studenti universitari di Genova, dove era di stanza il comando
tedesco. All'epoca la casa era ben nota per le torture praticate ai
prigionieri".
Con
chi parlaste?
"Con
un ufficiale tedesco che viveva e lavorava in Italia da 40 anni. Parlava
genovese meglio di me. Gli spiegammo che mio padre non aveva fatto nulla. Che
non c'era motivo di arrestarlo. Riuscimmo a convincerlo e mio padre fu
libero".
Il
suo atteggiamento verso i nazisti cambiò?
"No.
Allora il mio unico obiettivo era salvare la pelle a mio padre. Degli eccidi di
quei giorni, del Turchino, di Cravasco, della Benedicta, venni a sapere solo
più tardi. Quello che accadde allora è imperdonabile. Con il tempo le passioni
si spengono, ma certe cose non si possono dimenticare".
Engel
ora vive libero. Non ha mai fatto un giorno di prigione.
"E
finirà per cavarsela ancora, perché la Germania non concederà mai
l'estradizione. Certo, ora ha 92 anni, ma non ha mai pagato per quello che ha
fatto".
Eseguiva
degli ordini, ha spiegato al "Corriere".
"È
una giustificazione che non regge. Quando volevano, gli ordini non li
eseguivano. Come quando decisero di non distruggere il porto di Genova".
Cosa
accadde, poi?
"Fui
ferito a un braccio da una scheggia, durante un bombardamento degli americani.
Non riuscii a scrivere per un po' e qualcuno probabilmente ne fu contento. Mio
padre non si riprese più dagli choc subiti in quei mesi. L'anno dopo
morì".
Il
Corriere della sera
- 17 aprile 2001