Corriere della sera
Stalin
aveva un mito segreto che si chiamava Adolf Hitler
Esce
in libreria il fascicolo voluto dal Cremino con le confidenze di due aiutanti di
campo del dittatore tedesco
di
Luciano Canfora
Conoscere il nemico dall'interno
del suo ambiente più riservato;
conoscere l'altra verità, quella che non si vede stando da questa parte. È ben
noto che l'informazione è l’arma più efficace, ma il caso di cui stiamo per
parlare è sui generis: l'informazione proveniente dal più stretto entourage
del nemico viene raccolta dopo la morte di lui. Si tratta appunto del Dossier
Hitler fatto allestire da Stalin sulla base della lunghissima e non certo
spontanea confessione di due aiutanti di campo di Hitler, Linge e Günsche,
catturati dopo il suicidio del Führer (il cui corpo proprio essi bruciarono) e
dopo l'arrivo dei russi a Berlino. I due parlarono nel 1948-49, dopo essere
stati a lungo «torchiati»; e le loro parole furono messe per iscritto da una
commissione sovietica accuratamente selezionata. Il tutto fu denominato «Operazione
Mito». Ne venne fuori un documento (oggi Doc. nr. 462a Sez. 5, Indice generale
30, dell'Archivio di Stato russo per la storia contemporanea) riservato
unicamente a Stalin. E uscito quasi contemporaneamente in Germania (Verlagsgruppe
Lübbe) e in Italia (Il dossier Hitler, traduzione di Andrea Casalegno,
Utet Libreria, pp. 625, € 24). Documento tanto più significativo, in quanto,
molti anni dopo, Linge pubblicò in Germania un libro che trattava, non senza
varianti, la stessa materia (Bis zum Ende, Monaco
1980).
Perché
Stalin volle questo documento? Non certo per assicurarsi che Hitler fosse
davvero morto. È interessante il nome dato all'operazione: «Mito». Parola
molto significativa, che taluni credono, a torto, che significhi
«cosa non vera». Si trattava di distruggere, guardandolo da
vicino, il «mito», che tanto a lungo aveva vigoreggiato, di Adolf Hitler. Un
«mito» che aveva consentito a Hitler di contare sull'appoggio della
maggioranza dei tedeschi, fino all'ultimo. Ma distruggere quel mito, presso chi,
se il lettore del dossier era uno solo, cioè Stalin medesimo? Credo che questo
dimostri quanto Stalin stesso temesse e prendesse molto sul serio (com'è
giusto) il peso dell'avversario. Altro che la figura comica del Grande
dittatore di Chaplin, che, pure, Stalin apprezzava. Viene in mente la
equilibrata e strettamente politica descrizione data da Molotov della figura di
Hitler. È in un passo delle Memorie (uscite nel 1986) curate in forma
dialogica dallo scrittore Tchuev. Dice Molotov al suo intervistatore:«Esteriormente
Hitler non aveva nulla di straordinario. Era un uomo molto compiaciuto di sé,
si può dire infatuato di se stesso. Beninteso non era affatto come lo si
rappresenta nei libri o nei film. Si calca la mano sull'aspetto fisico, lo
si rappresenta come un pazzo, un maniaco, mentre non era affatto così. Era
molto intelligente, ma limitato e reso ottuso per l'appunto da questa sua alta
considerazione di sé e dall'assurdità della sua ideologia. Ma con me non
sragionava affatto. Durante il nostro primo incontro è stato quasi sempre lui
solo a parlare e io lo spingevo a parlare ancora di più. Il resoconto più
esatto dei nostri incontri è quello di Berezkov: invece nella letteratura
corrente si è dato largo spazio alla psicologia fantasiosa». Questo brano fu
valorizzato sul Corriere nell'ambito di una importante recensione di
Vittorio Strada (uscita il 9 dicembre 2001), il quale tracciò, in tale
occasione, un mirabile ritratto di Molotov. Di Hitler e della sua cerchia Stalin
sapeva certamente non poco grazie al lavoro dei suoi servizi di informazione.
(Lo stesso vale in direzione contraria: era l'efficientissimo Gehlen, poi
divenuto capo dei servizi di Bonn, a dirigere la «sezione sovietica» dei
servizi d'informazione del Terzo Reich). Eppure, nonostante le quasi leggendarie
spie sovietiche, che erano riuscite ad infiltrarsi persino nella rappresentanza
diplomatica tedesca a Tokio (è il caso di Richard Sorge), Stalin volle sapere
molto altro su Hitler, e da testimoni vicinissimi al Führer. Lo squilibrio tra
le parti di cui si compone il volume ci fa capire che cosa veramente
interessasse a Stalin. Delle complessive 381 pagine di testo, ben 320
comprendono il periodo della guerra, dallo scoppio nel settembre
'39 al suicidio di Hitler. Ai sei anni precedenti, 1933-1939, sono dedicate
soltanto le prime 64 pagine. Ma è soprattutto il periodo della guerra contro la
Russia che lo interessa (pp. 110-381). È come se Stalin avesse cercato a
posteriori di capire dove l'avversario avesse fatto una mossa falsa, quando
esattamente Hitler avesse incominciato a perdere. Nella ricchissima serie di
testimonianze interferisce certamente la selezione dei fatti voluta dall'unico
lettore, cioè da Stalin stesso. Sintomatico il silenzio sul patto
Molotov-Ribbentrop (23 agosto '39), che infatti viene citato solo per
incidens quando si parla dell'attacco tedesco (22 giugno 1941). In alcuni
casi le rivelazioni non sembrano potersi considerare con sospetto, visto che non
riguardano il campo talvolta «minato» delle scelte politico-diplomatiche dello
stesso Stalin. È il caso ad esempio della ostilità di Hitler verso
l'intervento in guerra dell'Italia nel giugno '40. «Ciò che soprattutto indignò
Hitler - dichiarano i due aiutanti di campo -
era
che l'Italia, che si era mantenuta neutrale per sei mesi, adesso
improvvisamente volesse entrare in guerra a tutti i costi. Per non dover
dividere il bottino con Mussolini, Hitler dichiarò che per il momento non aveva
bisogno dell'Italia poiché la Francia era ormai ai suoi piedi. (...) Hitler era
molto preoccupato di quali fossero gli ulteriori obiettivi segreti di Mussolini»
(pp. 89-90). Un altro punto dolente è la fuga di Rudolf Hess in Inghilterra
(maggio 1941). Tutti i dettagli che i due aiutanti di campo forniscono vanno
nella direzione della intesa con Londra tentata tramite quel «folle volo» (pp.
107-108). C'è la esclamazione di stizza
di Hitler contro il duca di Hamilton, che «fa addirittura finta di non
conoscere Hess»; c'è la conferma dell'esistenza di un memorandum segreto con
le condizioni per una pace con l'Inghilterra («Hess l'aveva redatto e Hitler
l'aveva approvato»). Nella postfazione (p. 416) i due curatori, Eberle e Uhl,
trovano che nel tardivo volume di Linge (1980) le cose sono presentate
diversamente: ma in realtà la variante indicata è trascurabile. Di grande
interesse sono le condizioni offerte da Hitler in quel modo singolare a Londra:
«L’Inghilterra avrebbe dovuto lasciare mano libera alla Germania nei
confronti della Russia sovietica, mentre la Germania avrebbe garantito
all'Inghilterra il
possesso delle sue colonie e il predominio nel Mediterraneo» (p. 107). Un bel colpo all'Italia.
La carta giocata col volo di Hess (che non trovò «sponda» in Inghilterra
e che perciò dovette esser fatto passare per pazzo) era abile: Germania
e Inghilterra arbitri dei destini mondiali e unite nel proposito di cancellare
l'Urss. Ma l'Inghilterra di Churcill non era più quella di Chamberlain. E il
gioco fallì.
Dal
Corriere della sera,
20
dicembre 2005