Corriere della sera

sinistra né destra, la Arendt contesa

Trent'anni fa moriva la filosofa. Martinelli: non fu conservatrice. Melograni: la prima antistalinista - Criticò comunismo e nazismo, perciò il suo pensiero è scomodo

di Pierluigi Panza

Fuori dai cori, il pensiero di Hannah Arendt non poteva che essere ora dimenticato ora conteso tra marxisti-progressisti e liberal-conservatori. A trent'anni dalla sua morte (4 dicembre 1975) e in vista del centenario della nascita (2006), si riaccendono le luci - e le contese - sulla filosofa ebrea, allieva-amante di Martin Heidegger, addottoratasi con una tesi sul «Concetto di amore in Sant'Agostino», emigrata a Parigi e poi a Chicago e che specificò di non esser stata «mai socialista», «mai comunista», «mai liberale». In Francia stanno uscendo i diari della Arendt (Journal de pensée, Seuil), una biografia di Laure Adler (Dans le pas de Hannah Arendt, Gallimard) e un'altra della semiologa Julia Kristeva, tradotta in italiano da Donzelli con il titolo Hannah Arendt. La vita, le parole. Inoltre, Feltrinelli preannuncia una ristampa di Hannah Arendt. Agire politicamente e pensare praticamente di Laura Boella e un libro di Simona Forti per il 2006. Anno in cui, annuncia il direttore di MicroMega Paolo Flores D'Arcais, «riunirò i miei saggi sulla Arendt in un nuovo libro». Se per la Kristeva il pensiero della Arendt è stato «trasversale rispetto alle religioni e alle appartenenze etniche o politiche, ribelle all'establishment sia di "destra" sia di "sinistra"», e si è concentrato sul tema della vita minacciata e offesa (Shoah e bomba atomica), per il quotidiano francese Libération (che le ha dedicato uno speciale) quello della Arendt è addirittura «un pensiero difficilmente assegnabile a un dominio preciso», è «una traiettoria»... Ma verso dove? Per capirlo bisogna ritornare al 1963, quando la Arendt pubblicò sia La banalità del male sia Sulla rivoluzione, un saggio politologico dal quale emergono giudizi negativi sul grande mito dei progressisti: la rivoluzione. Da quella francese a quella russa. L'assunto principale dell’opera è che la politica (non la rivoluzione) è l'attività che preserva e garantisce lo spazio all'esercizio concreto della libertà in tutte le sue forme. Da qui anche l'idea che la sfera politica è elemento di garanzia della liberazione individuale. Stralciando la critica alle rivoluzioni, l'intellighenzia progressista ha fatto proprio, della Arendt, solo l'aspetto della partecipazione dal basso all'azione politica. Il politologo Alberto Martinelli, che ha curato per le Edizioni di Comunità Le origini del totalitarismo, attualizza queste considerazioni: «Il pensiero della Arendt è autonomo, ma distante da quello della destra conservatrice, ed è fondamentale oggi perché abbiamo una democrazia rappresentativa il cui limite è la scarsa partecipazione. Il modello della Arendt di politica come vita attiva è monito per valorizzare l'impegno diretto in democrazia, che le nuove tecnologie rendono meno improbabile». Ma a quali forme di democrazia diretta pensa la Arendt? Secondo Martinelli, «l'idea politica della Arendt trova referenti moderni solo in esperienze come i consigli operai..., la rivolta ungherese del 1956 e, per certi aspetti, nei movimenti studenteschi del 1968». Tirandola per il bavero, la sinistra ha lodato la Arendt quando criticava Israele invocando uno Stato non confessionale aperto agli arabi, ma poi l'ha accusata di «filoamericanismo». La filosofa è stata adulata per le tesi contro il maccartismo, ma criticata quando ha sottolineato l'atroce normalità nel fare del male del nazista Eichmann; è diventata una paladina del '68 quando definiva «dissennata e suicida» la guerra del Vietnam, ma è stata mal tollerata quando ha stabilito l'equivalenza tra nazismo e stalinismo (i due totalitarismi) e tra lager e gulag. Solo su MicroMega, nel '96, uscì un'interpretazione in una chiave non marxista della critica ai totalitarismi della pensatrice ebrea scritta da Alain Finkielkraut, secondo il quale per la Arendt «l’ideologia è la sottomissione alla ragione della storia di ogni realtà». Anche la destra, conservatrice o liberal, di tanto in tanto ne ha evidenziato gli aspetti a lei confacenti. Dieci anni fa la Arendt fu recuperata nell'orizzonte di liberal da Ferdinando Adornato e Nicola Matteucci la apprezzò per il recupero (attualissimo) di Tocqueville. Ma la lettura in chiave liberista fu stroncata da Gianni Vattimo, il quale fece notare che nella Arendt «l'agire politico si distingue radicalmente dalla organizzazione - liberale o marxista - della vita economica». Quello che il pensiero conservatore continua a sottolineare della Arendt è l'equivalenza nazismo-stalinismo in chiave anticomunista. «La tesi che stalinismo, anzi comunismo, e nazismo furono i due soli totalitarismi è storicamente corretta - afferma lo storico Piero Melograni -. Il fascismo fu un regime non organizzato e basato solo sull'adesione alla figura di Mussolini. Il comunismo, invece, era organizzato, ma non prevedeva organismi di garanzia, bensì i gulag. Peccato che i nostri comunisti abbiano fatto di tutto per separare stalinismo da comunismo, ma non fascismo da mussolinismo». Detto tutto questo, quello che è forse più attuale nella stagione dell'estetizzazione della politica è la tesi espressa dalla Arendt in Politica e menzogna (SugarCo, 1985), dove sostiene che il rapporto tra politica e verità è tutt'altro che lineare. «Le menzogne - scrive - sono spesso molto più ragionevoli della realtà stessa, dato che chi mente ha il grande vantaggio di sapere in anticipo quello che il pubblico desidera o si aspetta di sentire». Ciò vale sia a destra sia a sinistra.


Progressisti - Quel che piace a marxisti

Conservatori - Quel che piace ai liberali

  • Primato della politica come la più autentica attività umana

  • L’equivalenza tra nazismo e stalinismo ne «Le origini del totalitarismo» del 1951 e tra lager e gulag

  • Subordinazione della sfera privata a quella pubblica

  • La critica all’esercizio della rivoluzione espressa in «Sulla rivoluzione» del 1963

  • Comunismo come «religione» secolare (ma scrisse: «Non sono mai stata socialista e comunista»)

  • Il filoamericanismo e la decisione di vivere e insegnare negli Stati Uniti

  • Alcune critiche allo Stato d’Israele, che avrebbe preferito maggiormente aconfessionale e aperto agli arabi

  • Il totalitarismo come parto delle società di massa

  • L’opposizione alla guerra in Vietnam, definita da lei «dissennata e suicida»

  • Le critiche all’integrazione espresse a Mary Mc Carthy del ’68: «Quelli che predicano l’integrazione sono quelli che hanno meno probabilità di doverne pagare il prezzo»

Dal Corriere della sera, 4 dicembre 2005

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