Corriere della sera
Riemerge un povero tesoro degli ebrei
Anelli, occhiali d'oro, qualche orologio trovati nel lager di
Maidanek
dal nostro corrispondente
Alessandra Farkas
NEW YORK - Maidanek non è certo Auschwitz. Però 170.000 prigionieri sono
morti nei suoi crematori, i famigerati criminali nazisti John Demjanjuk e
Hermine Braunsteiner Ryan vi hanno lavorato come sbirri e Art Spiegelman l'ha
immortalato nel celebre capolavoro in fumetto «Maus», ispirato alla
drammatica esperienza di suo padre nel lager. A riportare improvvisamente sotto
i riflettori questo campo di sterminio fatto costruire da Hitler alla periferia
di Lublino, nel sudest della Polonia, - per eliminare migliaia di ebrei
polacchi deportati da Varsavia nell'aprile e maggio del '43, dopo il tragico
epilogo dell'insurrezione nel ghetto - è una squadra di storici, archeologie cameraman europei e israeliani che
questa settimana hanno trasformato Maidanek in un enorme
sito archeologico. Dopo
aver scavato soltanto un modesto fazzoletto dell'enorme prato di 350 per 50
metri, la troupe ha dissotterrato 20 anelli, un braccialetto, due orologi,
numerose montature d'occhiale in oro, una medaglia con catenina e ben 15 monete
americane in oro massiccio, con l'effigie dell'aquila imperiale. «E siamo
soltanto agli inizi», racconta Yaron Svoray, il giornalista ed ex 007
israeliano infiltratosi per anni nei gruppi neoNazi, che insieme al magnate
hollywoodiano Matt Milzer ha organizzato la spedizione, ispirata dai ricordi
e racconti molto vividi di ben quattro sopravvissuti di Maidanek, oggi
ultraottantenni
e residenti in Australia. Sotto l'occhio vigile delle telecamere di Matt Mazer -
che oltre ad un
documentario,
realizzerà un libro e una mostra itinerante - Adam Frydman arranca tra
l'erba alta e secca del campo dove era arrivato da Varsavia 62 anni fa, su un
treno bestiame, insieme al padre e al fratello. «Avevo venti anni, ma ricordo
come fosse ieri», racconta, indicando col dito un punto per terra: «è lì che
dovete scavare», precisa. Il primo anello viene dissotterrato da Shlomi Avni,
un capitano di un'unità di riservisti della Marina militare israeliana e da
Andreas Vokti, un muratore tedesco il cui nonno era un membro della
Wehrmacht. Sei decenni prima centinaia di «non scelti» - i nuovi arrivati non ancora designati al lavoro
forzato, né al crematorio - avevano sostato su quel purgatorio erboso tra la
Baracca 4 e la 5 per ore, talvolta giorni, fissando il comignolo fumoso che
emanava un insopportabile odore di carne umana bruciata. «Il crematorio del
campo si era rotto», ricordano i sopravvissuti, «e anche quando lo
ripararono non era in grado di smaltire l'enorme volume di vittime designate».
Al contrario degli altri deportati del campo, i «non scelti» non erano
ancora stati perquisiti e privati dei loro averi. Eppure nessuno di loro nutriva
la speranza di uscire vivo da Maidanek, che subito dopo la liberazione da parte
dei russi, nel luglio 1944, W.H.Lawrence descrisse sul New York Times come
«Il luogo più terribile sulla faccia della terra». «Quei deportati sapevano
benissimo di morire e il loro fu quindi l'atto di sfida estremo», spiega
Frydman, «perché dare i nostri averi ai tedeschi, si sono detti, aiutando il
loro sforzo bellico?». Nella maggior parte dei casi si tratta di oggetti con
un valore più sentimentale che monetario. «Ma proprio per questo il gesto è
ancora più simbolico», spiega David Prince, un farmacista sopravvissuto
all’Olocausto che ha accompagnato la moglie Ella, ex detenuta di Maidanek.
«Volevano che i loro beni più intimi finissero tra i vermi, piuttosto che
darli in mano a quei bastardi». Ma l'idea di trasformare il luogo in un sito
archeologico permanente ha già incontrato le resistenze degli abitanti del
luogo in un Paese senza più ebrei dove l'antisemitismo resta fortissimo. E dove
le agenzie immobiliari della zona reclamizzano le «ville con vista sul parco»,
dove il parco altro non è che il tremendo ex lager di Maidanek.
Dal Corriere della sera, 5 novembre 2005