Ada
Sereni: «In nome di Enzo salvai gli ebrei dall'Italia». Parla
una protagonista della Resistenza
dal
nostro corrispondenteLorenzo Cremonini
GERUSALEMME- «Glielo
dissi mille volte prima che partisse. Secondo me era una grossa follia farsi
paracadutare dietro le linee tedesche, vicino Firenze. Sarebbe stata una
missione senza speranza. Ma lui era fatto così. Aveva deciso che non poteva
restare con le mani in mano e purtroppo non mi ascoltò. Non lo vidi mai più».
È trascorso oltre mezzo secolo da quel maggio 1944 e ancora adesso Ada Sereni
parla del marito Enzo come se fosse partito ieri. A 39 anni, i suoi ricordi sono
tipici degli anziani: racconta quel periodo terribile e intenso con infiniti
dettagli e la passione di chi l'ha vissuto da protagonista.
Insignita lunedì del «Premio Israele», il suo telefono non cessa di squillare
un attimo. Come vent'anni fa, quando la pubblicazione del suo libro «I
clandestini del mare» riportò alle cronache una vicenda biografica che si
intreccia intimamente con la storia dell'Olocausto e della nascita di Israele.
Nata Ascarelli nella Roma del 1905, dove la buona borghesia liberale ebraica
aveva fatto del laicismo la bandiera della post-emancipazione, Ada conosce e
sposa Enzo Sereni, descritto dalle cronache: come ardente sionista - socialista,
leader carismatico di primo piano sempre pronto a rischiare di persona. Lo dimostra giovanissimo, quando nel febbraio 1927 rinuncia
alla carriera universitaria e assieme si imbarcano alla volta della Palestina.
Un anno dopo si uniscono a 26 ebrei russi e fondano il Kibbutz (la fattoria
agricola collettiva) Givat Brenner, più tardi rinominato Sereni. Ma ormai la ruota della storia gira sempre più in fretta. «Sapevamo dai nostri
parenti rimasti in Italia che le cose stavano peggiorando per gli ebrei. Tramite
il Vaticano avevamo ricevuto alcune loro lettere già dopo l'inizio delle
deportazioni verso i campi di sterminio, nelle quali raccontavano della
distruzione della nostra comunità. Mio fratello si era salvato travestendosi da
prete e la mamma era stata accolta in un con- vento di suore». È allora che Enzo decide di partire. I maggiori leader sionisti lo sconsigliano
in ogni modo. In quegli anni si era fatto molto apprezzare. Era considerato come
uno dei dirigenti naturali nel futuro Stato di Israele. Non c'è però verso di
fargli cambiare idea. «Voleva riprendere contatto con i resti della comunità
ebraica italiana. Pur sapendo che tutti erano nascosti e le spie pullulavano».
La sua missione va subito male. Lanciato la notte tra il 14 e 15 maggio con i
documenti falsi di capitano Inglese un colpo di vento lo porta fuori traiettoria
e viene catturato dai tedeschi dopo poche ore. È a questo punto che Ada sceglie
a sua volta di agire. Determinata più che mai, accetta di operare per
l'organizzazione clandestina incaricata di fare immigrare gli ebrei: in
Palestina contro il blocco imposto dagli inglesi. Ma la sua missione ha anche un risvolto personale. «Volevo
sapere cosa era successo a Enzo. Come era morto? C'era qualcuno che lo aveva
incontrato?». Nell'estate 1945 l'Italia è in ginocchio e decine di migliaia di
ebrei scampati ai campi di concentramento affluiscono nella penisola. «Arrivai
a Napoli il 7 luglio. Rimasi sbalordita dal caos in cui era scivolato il Paese.
Ma scoprii anche che le autorità italiane sarebbero state ben contente di
aiutarci per disfarsi di tutti quei profughi e contemporaneamente di farla in
barba agli inglesi, che si comportavano da veri padroni». Saranno tre anni
intensissimi. I profughi vengono caricati su navi di fortuna, che spesso si
arenano sulle spiagge di Tel Aviv braccate dalle corvette britanniche. Circa
28.000 persone riusciranno così ad attraversare il Mediterraneo prima della
nascita di Israele, il 14 maggio 1948. Ada incontra personalmente più volte
Pietro Nenni, in veste di ministro degli Esteri nel governo della Liberazione,
assieme a quello degli Interni Giuseppe Romita. «Furono loro ad offrire! la
massima collaborazione, tanto da garantirmi la protezione dell'ammiraglio della
marina e del capo della polizia per facilitare i viaggi delle navi». E Enzo? Nel suo libro lei menziona le peripezie della ricerca. Un sacerdote di
Cuneo le disse di avere ricevuto da lui un librettino di poesie in inglese
nell'ottobre 1944 a Dachau, ma di averlo perso subito dopo. In seguito la
speranza si riaccese, quando le dissero di un trasferimento del marito del Lager
di Muhldorf. Infine lo scartabellare affannoso nell'archivio di Dachau rimasto
indenne e conservato a Monaco. «Una schedina indicava come il 18 novembre 1944
la data della sua morte».
«Perché
gli USA non colpirono le ferrovie?»
WASHINGTON - Gli alleati - e gli americani soprattutto -
avrebbero potuto evitare gli ultimi drammatici mesi della «Soluzione finale»
bombardando i campi di concentramento dell'Europa centrale a partire dal 1944?
Cinquant'anni dopo la liberazione di Auschwitz la ferita è ancora aperta
negli USA. «Americani e britannici si sono giustificati dicendo che
un'operazione di quel tipo non costituiva una priorità bellica - accusa il
rabbino Marvin Hier, del Centro Wiesenthal a Los Angeles -. Non c'è dubbio che
la distruzione delle ferrovie avrebbe salvato la vita di decine di migliaia di
ebrei». -
«È evidente che i deportati non sarebbero mai potuti arrivare sino ai campi -
precisa il rabbino -. E non dimentichiamo che gli alleati sapevano
dell'esistenza di Auschwitz e di quanto vi avveniva dall'estate 1942». «Tutto ciò è assurdo - risponde Sybil Milton, storica del museo
dell'Olocausto a Washington -. Gli alleati sbarcarono il 6 giugno 1944 e i loro
bombardieri non erano in grado di colpire nel centro della Polonia». Il 20
agosto 1944, tuttavia, 120 aerei USA decollarono da Foggia per bombardare
l'impianto di Buna-Monowitz, vicino Auschwitz, collegato al gigante chimico «I.G.
Farben».