Corriere della sera
Dopo la richiesta avanzata dalla comunità ebraica a Colonia
Archivi
segreti e Shoah, i passi di Ratzinger
di
Alberto Melloni
Abraham
Lehrer ha chiesto a Benedetto XVI, pellegrino alla sinagoga di
Colonia, l’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano sulla Seconda guerra
mondiale. Una istanza tutt’altro che imprevedibile. Non sarebbe stato consono
allo stile antispettacolare di Benedetto XVI accogliere quell’invito su due
piedi; non sarebbe stato coerente con la sua statura intellettuale questionare
sui tempi indispensabili al riordino; ed era impensabile che un anziano papa, già
adolescente nella Germania nazista, rifiutasse, iscrivendosi al club degli
alchimisti ai quali basta diluire la carità cristiana verso gli ebrei
perseguitati nello spessore secolare del disprezzo antisemita per chiudere la
partita. Dunque Benedetto XVI ha messo l’appello nella
valigia per Roma. Con richieste analoghe s’erano misurati anche
i predecessori. Paolo VI aveva risposto quarant’anni fa con un assenso pronto
e condizionato: non aveva fatto accedere agli archivi tutti, ma aveva nominato
una commissione di gesuiti, che aveva selezionato dodici tomi di documenti
stampati negli Actes et documents du St. Siège relatifs à la seconde guerre
mondiale. Una impresa durata anni, che mentre difendeva il Vaticano dalle accuse
di essere stato inerte nella Shoah, rivelava i congegni mentali della «macchina»
di soccorsi e relazioni della neutrale politica pontificia. Dal passo montiniano
(e dalla scelta dei vescovi tedeschi di pubblicare tutto ciò che s’era
salvato dei loro archivi) dipende ancor oggi la migliore storiografia. Ma gli
Actes erano destinati ad aumentare la sete di conoscenza, più che a spegnerla. Giovanni
Paolo II andò più avanti: non solo diede accesso all’archivio
del Sant’Uffizio, portò al 1922 il limite di consultabilità delle carte
vaticane, tenne aperto l’Archivio del Vaticano II, ma tentò anche una
commissione mista ebraico-cattolica per gli archivi della Santa Sede sulla
guerra, rese disponibili le buste sui rapporti fra Vaticano e Reich nel periodo
1922-1939, aprì i dossier sui prigionieri di guerra e fissò un calendario di
massima per l’apertura di tutto il pontificato di Pio XI. Nel frattempo altre
carte sono state rese disponibili per decisione superiore a singoli studiosi,
anche se - è il caso del volume di padre Giovanni Sale su Hitler, la Santa Sede
e gli ebrei - i risultati e il rigore hanno avuto aspre obiezioni. A inizio 2005
papa Wojtyla aveva ripreso in considerazione la questione dell’apertura degli
archivi, anche spinto dall’onda d’una polemica non priva di forzature sul
destino dei bambini ebrei salvati e talora battezzati nei conventi della Francia
occupata. Wojtyla (poco prima di creare una commissione per tutti gli archivi
della Santa Sede, che sembrò una blindatura a chi viveva di furbesche
largizioni) autorizzò una nuova ricognizione delle carte su Pio XII e gli ebrei
chiesta da uno storico italiano. L’indagine, che si fermò
per la scomparsa del pontefice, rischiava comunque di essere un
semplice aggiornamento del metodo montiniano, che non basta più. Oggi la
decisione sugli archivi del 1922-1945 è nelle mani di Benedetto XVI. Egli può
rinviare, che è un modo per non fare: ha affermato il dovere di rammemorare la
Shoah alla nuova generazione, cattolica e non; e potrebbe fermarsi lì. Il Papa
potrebbe invece aprire l’Archivio segreto, affidato a un prefetto stimato e
rigoroso come padre Sergio Pagano, lasciando campo aperto alla ricerca storica.
Ratzinger, studioso per professione, sa che la mancanza di carte alimenta il
duello fra i polemisti che accusano Pio XII di avere «la» responsabilità
della Shoah e il partito che ne vuol fare l’improbabile prototipo dei Giusti;
sa che dall’insieme delle carte verrà un ritratto storico complesso,
emergeranno le contraddizioni di una grande amministrazione, si abbozzeranno
giudizi metodologicamente articolati. Questa opzione inciderebbe sul suo
magistero. Parlando in sinagoga Benedetto XVI ha evitato ogni accenno al
pentimento della Chiesa tedesca o di quella universale. In una Germania che in
questi giorni ricorda il memorabile processo di Francoforte del 1965 (il primo
celebrato da giudici tedeschi contro le SS di Auschwitz), nella Chiesa che aveva
anticipato e accolto il «mea culpa» del Giubileo, la scelta ratzingeriana non
poteva passare inosservata, anche se il garbo ha consigliato di non
sottolinearla, in attesa che l’avvenire dica se essa è un segnale o un
episodio. L’apertura degli archivi vaticani, quando verrà, illuminerà sì le
scelte di Pio XII, ma soprattutto aiuterà a capire che l’antisemitismo
cristiano aveva impregnato qualcosa di molto profondo: e chi li aprirà dovrà
nuovamente misurarsi con il nodo del peccato nella Chiesa, del peccato della
Chiesa.
Dal Corriere della sera, 22 agosto 2005