Corriere della sera
Elzeviro
- Hitler e la morte di Dio
di Emanuele Severino
Gli
ebrei hanno qualità positive di coesione e di solidarietà che mancano ai
tedeschi. Affetti da «eccessivo individualismo», i tedeschi sono ariani
degenerati. Si trovano in uno stato di debolezza, di divisione, di estremo
pericolo. Giudizi, questi, insieme a molti altri affini, che non sono espressi
da un severo critico della Germania del secolo ventesimo, ma da Hitler in
persona, nel suo scritto Mein Kampf («La mia battaglia»). Funestamente
celebre; scritto
tra il 1924 e il '25; il libro più diffuso in
Germania sino alla fine della seconda guerra mondiale. Per Hitler i tedeschi
di quel tempo erano un «armento. Che non solo si era allontanato dalla
creatività,
volontà di dominio e genialità del vero ariano (un giudizio, questo, ripetuto
da Hitler poco prima di uccidersi), ma che aveva anche il torto di essere «oggettivo»,
insensibile alla prospettiva nazionalistica (che appunto si pone al di
sopra dell' «oggettività») e dunque inferiore allo spirito «dialettico»
degli
ebrei. Aveva anche il torto, l'«armento», di sottovalutare gli inglesi e
soprattutto di tollerare gli ebrei. Chi ha letto Mein Kampf non sta
sentendo nulla di nuovo, ma è nuovo di grande interesse il modo in
cui il libro di Hitler viene interpretato nel breve e calibratissimo libro di
Dora Capozza (uno dei più importanti capiscuola della psicologia sociale
italiana) e di una delle sue allieve più affermate, Chiara Volpato. Mi
riferisco
a Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un'analisi del «Mein Kampf» (Pàtron
editore; pagine 90). All'enorme quantità di ricerche che da ogni punto di
vista e con risultati di grande rilievo son state condotte sul nazismo questo
saggio aggiunge una "dissezione del linguaggio di Mein Kampf, operata
con i metodi più recenti e rigorosi della psicologia sociale, ossia con un
tipo di controllo e di giustificazione delle tesi sostenute, che in questa
sede non può essere esposto, ma che costituisce il pregio fondamentale della
ricerca. In primo piano sta l'analisi delle «corrispondenze» tra le
espressioni più ricorrenti e significative usate da Hitler. l cui giudizi
riportati all'inizio non risultano irresponsabili, ma appartengono a un
piano ben preciso, che giustifica il successo di un uomo come Hitler in uno
dei Paesi più civili del mondo. Stando ai risultati della ricerca
Capozza-Volpato,
è già notevole che al centro delle pagine di Hitler non stia «come ci si
potrebbe attendere, la razza ariana, ma quella ebraica», considerata come
il prototipo della razza «aliena» che ha di mira, alleandosi con i «bolscevichi»,
la distruzione della civiltà ariana. Tutti gli insulti più odiosi e
minacciosi sono usati da Hitler contro gli ebrei, che tuttavia hanno ai
suoi occhi alcune qualità positive, che costituiscono per i tedeschi il
pericolo maggiore. Egli addita cioè ai tedeschi il pericolo mortale in cui
son venuti a trovarsi per colpa degli ebrei; ma non li deprime, perché presenta
loro quei Partito nazionalsocialista che sarebbe stata l'unica forza capace
di salvarli e farli diventare quel che essi sono dalla loro essenza ariana. Il
suo partito è unito, ha fede e, pur lottando contro il marxismo, capisce i
problemi della classe operaia. Così «Hitler - scrivono le autrici - suscitava
antisemitismo non solo tramite la spiegazione dei fallimenti» dei tedeschi,
«ma anche presentando gli ebrei superiori ai tedeschi in una importante
dimensione di confronto: coesione, solidarietà, omogeneità»: «una
dimensione in cui non si vuole essere inferiori». Tanto che le autrici possono concludere
che Hitler, «capace di raffinate intuizioni sull'uomo sociale, per diffondere
il suo programma ha operato sulle motivazioni e i processi previsti dalle
teorie psicosociali». (Avrebbe allora avuto bisogno di qualcuno che gli
scrivesse i discorsi?). A loro avviso il testo «è basato su tre idee»: «darwinismo
sociale» («lotta eterna tra forti e deboli», «selezione naturale», «spazio
vitale», ecc. ecc.), «principio etnocentrico» (al centro dell'esistenza
c'è una certa razza, un certo popolo) e principio «della personalità»
(l'individuo superiore guida «la massa stupida e incapace»). Qui vorrei
rilevare che quei tre principi appartengono (in modo filosoficamente
ingenuo) a una grande dimensione comune, che più o meno corrisponde ai due
ultimi secoli della storia dell'Occidente. Quelli della «morte di Dio». Tutto
a posto, allora, ritornando a Dio? No. Sono decenni che indico per quali
motivi la «morte di Dio» è la figlia legittima, inevitabile, della «vita di
Dio». E invincibile sino a che non ci si sappia rivolgere al senso essenziale
e non si sappia mettere in questione la «creatività» e la «volontà di
potenza» dell'uomo, ariano o non ariano che sia.
Dal Corriere della sera, 17 agosto 2005