Corriere della sera
«C'era
da aspettarselo. Ma non è un sepolcro, ci si va volentieri»
Baci
tra le steli dell'Olocausto, Berlino divisa
di
Paolo
Valentino
BERLINO
-
Quando l’ora volge al desìo e il lungo crepuscolo estivo tinge il cielo di
toni rossastri, la foresta di pietra si fa melanconica. Le grida e i rumori si
attutiscono. Gli ultimi visitatori escono dal labirinto dei blocchi. Nella luce
ormai priva di ombre, coppie di giovani innamorati vanno a sedersi sopra le
steli più basse. Si mettono comodi. Si abbracciano. Si abbandonano a
lunghissimi baci. E stanno lì per ore, alternando le coccole a qualche
bicchiere di vino. Più tardi, quando è ormai buio pesto, il silenzio viene
nuovamente interrotto da risate, voci che si inseguono, passi di corsa sui
ciotoli delle viuzze. Un gruppo di ragazzi sta giocando a nascondino. Scene
di vita quotidiana al Memoriale dell’Olocausto. A meno di un mese
dall’apertura, il monumento agli ebrei d’Europa sterminati dai
nazisti è diventato la piazza che mancava nel cuore di Berlino. Ma non nel
senso immaginato dai promotori del progetto. Entrata immediatamente nella
cerchia ristretta dei luoghi più visitati dai turisti e dagli stessi berlinesi,
l’opera dell’architetto americano Peter Eisenman sembra suscitare
comportamenti inattesi, favorire reazioni ludiche e rilassate, nulla a che
vedere insomma con l’invito a contemplare e riflettere, che era nelle
intenzioni originali dell’iniziativa. Un’occasione
sprecata? Un eccesso di astrazione, quello dei 2.711 blocchi di cemento nero
disposti come un’onda su un campo di due ettari, incapace di
coinvolgere emotivamente le persone? Un luogo troppo ameno, per ricordare
l’indicibile, per inchiodare la memoria dei tedeschi e del mondo al crimine più
atroce della storia umana? La polemica, era da prevederlo, è già esplosa. Ma
non a senso unico, visto che divide anche la comunità ebraica, incerta se
prendere le distanze dal memoriale, ovvero accettare le reazioni della gente e
apprezzare il fatto che quel luogo sia ormai parte integrante del tessuto
urbano, nella capitale dove l’Olocausto venne concepito e pianificato. Avviene di tutto sulla spianata a un passo dalla Porta
di Brandeburgo. Il perimetro è completamente aperto. Per volontà
dell’architetto, non c’è un ingresso, vi si accede da ogni lato, a ogni ora
del giorno e della notte. La sorveglianza è ridotta al minimo, due guardie al
massimo sempre di turno. Le madri ci portano a passeggiare i pargoli in
carrozzella. I giovani rapper si arrampicano e saltano da una stele all’altra.
Scolaresche, provenienti da tutta la Germania, fanno merenda o giocano a guardie
e ladri fra le stradine larghe meno di un metro. Sotto il sole di questa precoce
estate prussiana, la superficie dei blocchi diventa lettino per
l’abbronzatura. Squillano i telefonini. Si ride a voce alta. Nei bar e nei
diner intorno, al Metzkes soprattutto, è già di moda darsi appuntamento per il
lunch o l’aperitivo. «C’era da aspettarselo», commenta
rassegnato Paul Spiegel, presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi.
L’aveva già detto il giorno dell’inaugurazione, il 10 maggio scorso, quando
aveva anche lamentato che, in tanta attenzione per le vittime, neanche un
accenno è dedicato ai carnefici: il memoriale «non è un luogo autentico»,
aveva ammonito Spiegel, il rischio è che il visitatore lo viva come «evento»
e non come luogo di riflessione. Gli dà parzialmente ragione il fatto che sono
in molti a non visitare il «centro d’informazione», posto sottoterra e molto
ben concepito, ma troppo piccolo e in grado di ospitare di volta in volta un
numero ristretto di persone. Risultato, solo una minoranza delle migliaia di
visitatori è disposta a mettersi in fila, per accedere alle sale interattive,
dedicate alle famiglie ebraiche, ai singoli nomi, alle dimensioni e ai luoghi
dello sterminio, o per collegarsi direttamente alla banca dati dello Yad Vashem
di Gerusalemme. «Trovo preoccupante - aggiunge l’ex vice
di Spiegel, Michel Friedman - che da un lato così tante persone visitino il
memoriale, sapendo dunque esattamente dove si trovino, ma dall’altro si
comportino come se fossero in un parco giochi». Mentre pronuncia queste parole,
passeggiando tra i blocchi, due ragazzini ci passano sopra saltando da un
pilastro all’altro: «Che sballo, è come un’onda, vediamo chi arriva primo
a quell’angolo», grida uno di loro. Eppure, non tutti
guardano con scandalo o preoccupazione all’allegria dominante. A
cominciare dall’architetto, Peter Eisenman, che proprio questo aveva
immaginato al momento di disegnare il progetto: «Questo non è un sepolcro. La
gente si siede, sta in piedi, passeggia o salta in tutti i monumenti di questo
mondo. Significa che ci vanno volentieri e ciò è bene». Mentre Guenter Morsch,
direttore del memoriale dell’ex campo di concentramento di Sachsenhausen,
invita ad avere pazienza: «È chiaro che non potrà mai suscitare i
sentimenti che provoca un luogo come Auschwitz o Sachsenhausen, ma bisogna
aspettare e vedere come si svilupperanno i rapporti fra la foresta di pietra e
il centro d’informazione: soltanto quest’ultimo potrà indirizzare la
reazione emotiva al primo». Anche all’interno della
comunità ebraica i pareri sono discordi: «Non possiamo prescrivere alle
persone come reagire al memoriale», dice Andreas Nachama, ex leader della
comunità ebraica berlinese. E Albert Meyer, il suo successore, ammette di aver
avuto per lungo tempo il timore che il memoriale non avrebbe parlato al cuore
della gente, ma oggi riconosce che si tratta di «un monumento vivo, con
vantaggi e svantaggi naturalmente». E aggiunge: «Non ci si può certo
aspettare, che i giovani sprofondino a terra per troppa soggezione».
Dal Corriere della sera, 2 giugno 2005